Speciale Fukushima – Il silenzio del cinema

In by Gabriele Battaglia

Dopo terremoto, tsunami e incidente nucleare, solo un grande silenzio. Almeno dal punto di vista della produzione cinematografica, infatti, la tripla catastrofe del marzo 2011, ha portato ben poco. Kibo no kuni e Ieji sono gli unici film d’invenzione che prendono spunto dal traumatico evento. Una recensione. Le tragedie collettive, oltre alle ricadute materiali, portano con sé anche una ricca messe di produzioni culturali. Letteratura, musica, cinema fanno a gara per rendersi interpreti unici dei sentimenti di una comunità, per distinguersi come strumenti utili a metabolizzare il trauma.

Ma quando la catastrofe è immane, l’intervallo di silenzio sembra destinato a durare a lungo.

Sarà per questo che, come osserva il Japan Times, i film di invenzione sul disastro di Fukushima sono pochissimi, a differenza dei documentari. Due per la precisione.

Il primo è del 2012: Kibo no Kuni (La terra della speranza), di Sion Sono. È ambientato in un Giappone del futuro prossimo in cui il terremoto e l’esplosione nucleare si ripetono senza che nessuno abbia tratto alcuna lezione dall’esperienza già accumulata.

Racconta la storia di due famiglie, gli Ono e i Suzuki, che vivono in una zona rurale colpita dal sisma e dalla relativa emergenza nucleare. I due nuclei familiari abitano a pochi metri di distanza, ma quando verrà creata la zona protetta, la linea di demarcazione taglierà la strada che li separa, obbligando i Suzuki ad andarsene e consentendo agli Ono di rimanere.

Kibo no Kuni ha ricevuto un’accoglienza relativamente fredda, con i critici perplessi per una pellicola realizzata così a ridosso della tragedia: come fare un film sull’Olocausto nel 1946, si è detto.

Il secondo film è uscito invece quest’anno ed è stato presentato a febbraio al Festival di Berlino. Si intitola Ieji (Homeland) e il regista è Nao Kubota, un documentarista che temerariamente si è cimentato con il tema 11 marzo per il suo primo film di finzione.

In Ieji, il protagonista Jiro Sawada torna nella casa di famiglia di Fukushima dopo molti anni di assenza. Ma la casa è ormai vuota perché i suoi congiunti – sua madre Tomiko, il fratellastro Soichi e sua moglie Misa – sono stati trasferiti nelle abitazioni temporanee destinate agli sfollati dalla Red Zone.

Lui comunque non è tornato per ricongiungersi ai suoi e alle loro trame cupe e intricate: al contrario, come confessa a un amico, è tornato lì “perché non c’era nessuno”, con il preciso intento di mettersi a coltivare la terra. Insomma, c’è una vicenda di famiglia dai contorni torbidi che si staglia sullo sfondo di una natura annichilita, straziata.

Il critico cinematografico Mark Schilling spiega che il tono generale del film è elegiaco, Kubota privilegia l’allusione al riferimento diretto. Questo, da un lato, restituisce la desolazione del post-Fukushima con più forza di quanta ne avrebbero le spettacolari esplosioni dei reattori, dall’altro, attutisce l’impatto emotivo del film.

Jiro è un eroe donchisciottesco: si ostina su una terra che lo respinge, dove si aggirano animali allo sbando e crescono le erbacce, dove il riso che coltiva con amore lo fa ammalare ed è invendibile. Jiro non combatte contro i mulini a vento, ma contro la coltre nucleare della centrale Fukushima Daichi.

Il film di Kubota deliberatamente non affronta il dibattito sull’energia nucleare in corso nel paese. È il regista stesso a spiegarlo ai media: “Volevo fare un film che avesse un significato per molto del tempo che abbiamo davanti, per i prossimi 10,20, 50 o persino 100 anni. Un film che mostrasse il senso di claustrofobia della nostra quotidianità. Vorrei che tutti provassero questa sensazione ed è perciò che non si tratta di un film anti-nuclearista”.

Ma il solo fatto di aver girato alcune scene nella zona interdetta (a causa del livello di radiazioni), ne fa un film suo malgrado politico.

Eppure entrambi questi film sembrano soffrire o di un eccessivo surriscaldamento emotivo (è il caso di Sion Sono), o, viceversa, di una scarsa capacità di messa a fuoco dei temi centrali (Nao Kubota). Maggie Lee di Variety, per esempio, legge Ieji come un banale dramma familiare che minimizza e schiaccia le questioni degli sfollati o delle responsabilità istituzionali.

In un’intervista Sion Sono aveva spiegato: “Quando ho detto agli investitori che sarebbe stato un film su una centrale nucleare, mi risposero che era ancora un tabù”. Kibo no Kuni e Ieji sono stati i primi a sfidare quel tabù, ma ciò non significa che esso sia del tutto rimosso.

Tracce subliminali, probabilmente, resteranno a lungo: nel pubblico, così come in coloro che cercheranno di tradurre lo shock in un messaggio a uso delle future generazioni.

*Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello Yomiuri Shimbun, il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).

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