Da oggi 190 paesi sono a Durban, in Sudafrica, per risolvere il rompicapo politico-diplomatico più importante dei nostri tempi: riduzione globale delle emissioni e lotta ai cambiamenti climatici. E intanto la colonnina di mercurio che misura la temperatura del pianeta continua a salire. Il punto sulla situazione.
Riprendere le fila di un discorso volutamente interrotto per evitare che degenerasse in un aperto contrasto. Dimenticare un clamoroso insuccesso che ha lasciato cicatrici fresche e segnato una grave battuta d’arresto in un percorso già accidentato. Tentare di dare nuova vita a un simbolo ormai quasi privo di forza e avviato sul viale del tramonto. Il tutto prima che la colonnina di mercurio che misura la temperatura del pianeta salga di oltre due gradi.
Più che una semplice conferenza internazionale, il vertice che si apre oggi a Durban, in Sudafrica, può essere considerato un rompicapo politico-diplomatico a tempo, per risolvere il quale i negoziatori e le delegazioni di oltre 190 Paesi si sono dati appuntamento sotto l’egida dell’Unfccc, la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici.
Fino al 9 dicembre la Cop-17 (la 17esima conferenza degli Stati membri dell’organizzazione) farà il possibile per ripartire da quelli che gli addetti ai lavori chiamano Cancun agreements (1), lasciandosi alle spalle le tre paginette dello striminzito Copenhagen accord (2) e cercando di preparare il terreno per un trattato internazionale vincolante sulle emissioni inquinanti che prenda il posto del Kyoto protocol (3).
Nonostante il proliferare di analisi e ricerche che dimostrano in maniera inequivocabile come la degenerazione delle condizioni climatiche e ambientali del pianeta sia sempre più prossima al raggiungimento di un punto di non ritorno, superato il quale ogni intervento umano per cercare di salvare la situazione risulterà inutile, dopo il fiasco di Copenhagen i temi della riduzione globale delle emissioni inquinanti e della lotta al climate change sono slittati nelle ultime pagine dell’agenda internazionale.
L’anno scorso a Cancun la Cop-16 ha provato a rimettere insieme i pezzi: riducendo le ambizioni sui risultati fino a renderle “inoffensive” si è riusciti a ottenere un non-insuccesso, siglando una serie di intese dotate di un valore per lo più programmatico.
Durante il vertice messicano i governi firmatari del Protocollo di Kyoto hanno riconosciuto, ad esempio, il divario tra gli impegni messi in campo per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei due gradi centigradi e quelli concretamente necessari al raggiungimento dell’obiettivo; hanno stabilito la necessità di aumentare i tagli alle emissioni inquinanti e di avviare azioni urgenti in difesa dell’ambiente; hanno preso atto che la sfida dei cambiamenti climatici richiede un impegno condiviso per la realizzazione di una low carbon society.
Al di là delle buone intenzioni espresse, però, le decisioni concrete sono state poche. Tra queste l’istituzione di un Fondo per il clima (chiamato Green climate fund), attraverso il quale erogare finanziamenti ai paesi in via di sviluppo per la aiutarli a contrastare gli effetti negativi del global warming, sulla base di quanto stabilito a Copenhagen. Anche in questo caso, tuttavia, la portata della risoluzione è stata notevolmente ridimensionata dalla mancanza di qualsiasi indicazione sull’esatta modalità per il reperimento e l’impiego dei fondi.
A Durban la Cop-17 dovrebbe in teoria dare una risposta alle molte domande lasciate in sospeso a Cancun, anche se gli esperti e i commentatori internazionali hanno già espresso forti perplessità sulle possibilità di significativi passi avanti. Il nodo centrale del vertice sarà ovviamente quello del post-Kyoto.
Il protocollo siglato nella città nipponica nel 1997 resta ad oggi l’unico giuridicamente vincolante che impone obiettivi di riduzione dei gas serra a gran parte dei Paesi industrializzati, sebbene il suo valore sia ormai quasi esclusivamente simbolico. Viste le deroghe previste per Cina e India e la mancata adesione degli Stati Uniti, infatti, attualmente l’accordo copre meno del 30 per cento delle emissioni globali.
La necessità più impellente, avvertita soprattutto dai Paesi emergenti, è quella di dare un futuro al trattato, visto che la prima fase di adempimenti in esso prevista arriverà a scadenza nel 2012.
In questo senso l’Unione europea (responsabile dell’11 per cento circa delle emissioni planetarie) si è detta pronta a sostenere un cosiddetto Kyoto 2, a patto però di arrivare a un compromesso globale su una road map che impegni tutte le grandi economie.
Nelle intenzioni della Ue un simile percorso potrebbe essere avviato nel 2015 e servirebbe a garantire una condivisone effettiva di quegli sforzi per il contenimento delle emissioni inquinati che fino a questo momento sono stati sostenuti principalmente dai suoi membri.
A complicare il quadro, tuttavia, sono le posizioni degli altri attori internazionali, Stati Uniti e Cina in testa. Nonostante l’amministrazione green oriented varata da Obama, negli Usa esiste un’opposizione bipartisan all’assunzione di impegni vincolanti in materia di emissioni. A ricordarlo è stato pochi giorni fa Todd Stern, l’inviato speciale della Casa bianca sul cambiamento climatico, che ha convocato una conferenza stampa appositamente per ribadire che «il Protocollo di Kyoto non fa parte dei programmi» di Washington.
Meno nettamente schierato è invece il Dragone, che durante la conferenza di Copenhagen si è impegnato a ridurre le emissioni di gas serra per unità di Pil del 40-45 per cento entro il 2020 rispetto al 2005 e che sembra non disdegnare la possibilità di giocare un ruolo di guida tra i Paesi in via di sviluppo.
Secondo quanto riferisce il Guardian, Xie Zhenhua, il vice direttore della Commissione statale per lo sviluppo e le riforme, ha rivolto un appello a tutte le economie emergenti invitandole a presentare piani e azioni volti a tagliare le emissioni di anidride carbonica al fine di porre termine all’impasse che blocca i negoziati internazionali sul clima.
Nel Libro bianco sull’ambiente presentato nei giorni scorsi dal governo di Pechino, le autorità cinesi hanno sottolineato che lo scopo della conferenza di Durban dovrebbe essere quello di mettere in opera quanto stabilito durante il vertice di Cancun, implementando i meccanismi pertinenti e proseguendo i negoziati sulle questioni non risolte.
«Speriamo di poter sbloccare la situazione tra Paesi ricchi e poveri», ha sottolineato Xie, che ha esortato «le nazioni industrializzate che non intendono firmare il protocollo di Kyoto a compiere sforzi paragonabili ai nostri per ridurre le loro emissioni», invitando contemporaneamente «gli Stati più poveri a mettere in atto dei tagli in cambio di un sostegno tecnologico e finanziario».
Tutto ciò ovviamente nel rispetto di quel principio delle “responsabilità comuni ma differenziate” (common but differentiated responsibilities, come è scritto nei documenti ufficiali) che da sempre costituisce il punto fermo di ogni presa di posizione del Dragone.
Oltre ai “pesi massimi”, a variare l’equilibrio dei piatti della bilancia contribuiranno anche le altre economie avanzate e quelle in via di sviluppo. In questo senso alcuni dei più piccoli paesi emergenti hanno già iniziato a protestare contro l’intransigenza di Giappone e Russia, che si sono dichiarate contrarie a un Kyoto 2 che non preveda impegni vincolanti per i Pvs.
India e Brasile continueranno naturalmente a insistere per arrivare a un accordo che faccia ricadere il peso principale dei tagli alla CO2 sui paesi di prima e seconda industrializzazione, principali responsabili dell’inquinamento che attanaglia il pianeta.
Il Canada, dal canto suo, vorrebbe che gli Stati Uniti mettessero nero su bianco la loro volontà di limitare le emissioni, mente il Sudafrica, in parte obbligato dal suo ruolo di ospite, ha preferito per il momento non sbilanciarsi.
A gridare a gran voce è invece l’Aosis, l’Allenza dei piccoli Stati insulari. Per loro, continuamente minacciati di finire sott’acqua a causa del global warming, la soluzione del “rompicapo Durban” non rappresenterebbe solo un passo avanti nei negoziati sul clima, ma una concreta zattera di salvataggio.
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(1) Cancun agreements
Sottoscritti al termine della conferenza che si è svolta nella città messicana tra il 29 novembre e il 10 dicembre 2010, questi accordi riconoscono che i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia immediata per l’intera umanità e per il pianeta, che deve essere affrontata con urgenza da tutti i Paesi. Il testo indica esplicitamente che il global warming è un fenomeno provato da evidenze scientifiche e che la maggior parte dell’aumento osservato nelle temperature medie globali è dovuto all’incremento delle concentrazioni di gas ad effetto serra di origine antropica. Ancora, l’accordo stabilisce che le parti sono chiamate a porre in essere azioni urgenti per limitare il riscaldamento dell’atmosfera terrestre entro il valore di 2 gradi centigradi, e che la sfida rappresentata dal climate change richiede un impegno condiviso per la realizzazione di una low carbon society. A Cancun è stato inoltre decisa l’istituzione di un Fondo per il clima (Green climate fund), incaricato di erogare finanziamenti per 10 miliardi di dollari l’anno (che dovrebbero arrivare a 100 miliardi entro il 2020) ai Paesi in via di sviluppo per aiutarli a contrastare gli effetti negativi del global warming, sulla base di quanto stabilito a Copenhagen. Tra le ipotesi ventilate per finanziare il fondo, c’è stata quella di creare un sistema di prelievi imposti al settore internazionale dei trasporti aerei e marittimi, attualmente non regolamentato, pari all’8 per cento delle emissioni globali.
(2) Copenhagen accord
Definito con un termine improprio cui le parti hanno voluto fare ricorso per evitare di perdere completamente la faccia, il documento conclusivo della conferenza di Copenhagen, svoltasi tra il 7 e il 18 dicembre 2009, è unanimemente riconosciuto come un’intesa al ribasso partorita per non lasciare completamente a bocca asciutta l’opinione pubblica. La possibilità di sottoscrivere un protocollo vincolante entro il 2010 per la lotta ai cambiamenti climatici veniva presentato come semplice auspicio in uno degli allegati dell’“accordo”. Discorso analogo valeva per i tagli alle emissioni, per i quali erano previsti impegni non vincolanti, introdotti per gli Stati Uniti dall’espressione «under consideration» (prende in considerazione) e per l’Unione europea dalla formula «adopted by legislation» (adottato per legge).
(3) Kyoto protocol
Firmato l’11 dicembre del 1997 ed entrato in vigore il 16 febbraio del 2005, ad oggi è l’unico strumento internazionale giuridicamente vincolante che limiti le emissioni di gas serra nell’atmosfera. Il trattato impone a 37 Paesi membri e all’Unione europea di ridurre le emissioni delle sei principali sostanze responsabili del riscaldamento climatico: biossido di carbonio (CO2), metano (CH4), protossido di azoto (N20) e tre gas fluorurati (HFC, PFC, SF6). La riduzione imposta è pari al 5 per cento delle emissioni registrate nel 1990 e dovrà avvenire entro il 2012. Il vincolo incide principalmente sull’utilizzo dei combustibili fossili (petrolio, gas e carbone), responsabili dei due terzi delle emissioni a effetto serra. L’accordo non è stato sottoscritto dagli Stati Uniti, mentre l’India, la Cina e alcuni Paesi in via di sviluppo, pur avendolo firmato, non sono secondo le sue norme tenuti ad operare alcun taglio alle proprie emissioni, perché non considerati tra i principali responsabili della produzione di gas climalteranti durante il periodo della prima industrializzazione. A causa di questi limiti, attualmente l’accordo copre meno del 30 per cento delle emissioni globali.
* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra e per il settimanale Left-Avvenimenti
[L’immagine di copertina è un’infografica del Guardian datata 31 gennaio 2011]