Speciale 8 marzo – Zaidi: imparare a non sorridere

In by Simone

Come ci si sente ad essere vittime di continui soprusi quotidiani in una metropoli indiana? E cosa si impara, dopo la rabbia e la frustrazione? Anna Zaidi ce lo spiega nel suo libro I miei luoghi. China Files ne pubblicha un estratto (per gentile concessione della casa editrice Metropoli d’Asia).
Ogni volta che uscivo di casa, un invisibile sospetto cominciava a serpeggiarmi dalle spalle alla schiena, facendomi irrigidire per l’apprensione. A seconda di quanto mi sentivo ottimista nei confronti dell’umanità decidevo, in un dato giorno, se per tornare a casa prendevo l’autobus o saltavo su un taxi.

Nei giorni in cui il taxi proprio non me lo potevo permettere, aspettavo la fine dell’ora di punta, facendo passare un autobus dopo l’altro. L’attesa poteva essere sfiancante, ma era meglio che irritarsi per la rabbia e l’umiliazione, esperienza che avrei senz’altro vissuto in mezzo a quella calca.

Sarei stata molto piacevolmente sorpresa se l’uomo che prendeva posto accanto a me avesse lasciato qualche centimetro di spazio tra me e lui, invece di starmi tanto addosso da farmi rimanere i segni del finestrino sugli avambracci, mentre cercavo di allontanarmi il più possibile da lui. Ma la tensione mi rimaneva accumulata tra le scapole, perché non si sa mai quando uno può cominciare a fare qualcosa di strano, no? Se un passeggero beneducato scendeva prima di me e un altro prendeva il suo posto, mi tornava addosso la tensione. Era quasi troppo aspettarsi che ti sedessero accanto due uomini educati in uno stesso viaggio.
Eppure non c’era modo di abituarsi a tutto ciò. Per quanto mi facessi forza, a volte scoppiavo in lacrime.

Sette anni dopo aver messo piede per la prima volta a Bombay, e dopo essermi giurata, se prendevo i treni locali, di viaggiare solo negli scompartimenti riservati alle donne, ho imparato un’altra lezione ancora: alcuni scompartimenti "per signore" dopo le nove di sera si trasformano in un caravanserraglio di palpeggiamenti aperto a tutti, dato che il dabba diventa "per tutti".

All’improvviso, mi ritrovavo inguini maschili premuti contro il viso, le ginocchia e le spalle. Mi alzavo e mi facevo strada a spintoni fino alla porta, circondata subito da cinque o sei uomini che si offrivano di "farmi scendere sana e salva".
Quando il treno si fermava, cinque o sei uomini salivano e altrettanti scendevano. Intrappolata tra loro per qualche secondo, perdevo il conto delle mani che mi tastavano.

Ho pianto lacrime di rabbia il primo giorno, augurandomi che il treno si fermasse per un attimo prima di ripartire: volevo a tutti i costi trascinarne giù dal treno almeno uno e spaccargli il cranio sul binario più vicino. Negli anni mi sono abituata anche a questa rabbia. Qualcuno mi sussurrava nelle orecchie, qualcuno mi tastava il sedere, qualcuno cantava canzoncine allusive: ho imparato ad aspettarmi di tutto.

Ho imparato a concentrarmi sulla qualità delle canzoni che mi cantavano o fischiettavano, pensando al talento musicale di quei moderni "dongiovanni da marciapiede", invece che alle loro intenzioni. Ho imparato anche a riderne un po’.
Per esempio, quando un ragazzo mi gridava "Buongiorno, signora" a un incrocio affollato, mi mettevo a ridere.
Quando due uomini mi seguivano ogni giorno, fuori dall’ufficio, proponendo di sposarmi, ridevo.
Quando gli uomini mi abbordavano per strada, chiedendo di "fare amicizia", e rifiutando un "no" come risposta mi offrivano passaggi, ridevo scrollando le spalle.
Quando qualcuno mi chiamava taza malai (panna fresca), mirchi (peperoncino), badhiya maal (ottimo materiale), chhammak-chhallo (tipetta allegra), lassun-pyaaz (aglio e cipolla), riuscivo a riderne.
Ma tornare a casa la sera, con un auto carica di uomini ubriachi che rallenta e ti segue? Lì proprio c’è poco da ridere.

Dopo due anni a Bombay ho imparato a reagire. È stato di nuovo alla stazione di Andheri che ho tirato un pugno a uno sconosciuto per la prima volta in vita mia. Mi aveva chiesto "Quanto vuoi?" e io ho cercato di superarlo, affrettando il passo. Me l’ha chiesto una seconda volta. Ho fatto un passo avanti, poi sono tornata indietro, ho caricato il braccio e l’ho colpito.
Lui ha fatto una faccia davvero stupita e ha chiesto: "Ma che ho fatto?" Non mi sono fermata a spiegarglielo.
Per qualche giorno mi è rimasto il pugno gonfio, dato che non avevo mai colpito nessuno prima di allora.
La quarta volta che ho dato un pugno a qualcuno è stata a Kathmandu, davanti a un cinema. L’uomo mi ha palpato tre volte, prima che io finissi per perdere le staffe. È partito protestando "Non ho fatto niente", e ha finito dicendo: "Scusa, sorella".

Nonostante tutto questo, tra i pugni tirati e l’aver imparato ad affrontare le cose, la mia vita è cambiata; non mi considererei mai una libera cittadina, e neppure con pari diritti. Mi è stata inculcata nella testa troppa paura, con troppe minacce concrete; e troppo spesso mi ritrovavo con un cumulo di sensi di colpa scaricato sulla mia porta di casa.

Perciò, la lezione successiva che ho imparato era un insieme di regole su tutti gli accorgimenti di sicurezza.
Imparare a non pensare mentre cammini. Se ti perdi nel tuo mondo interiore, qualcuno potrebbe fraintenderlo come un invito ad afferrarti qualche parte del corpo.
Imparare a non imboccare strade secondarie più tranquille e strette, più pittoresche e meno inquinate.
Imparare a camminare veloci. Lasciare che la postura faccia trapelare una meta precisa e una certa fretta.
Imparare a mostrare una faccia accigliata, per strada.
Imparare a non sorridere. Fissare la bocca in una linea severa finché non sembra pronta a staccare a morsi la testa a qualcuno.
Non fissare con aria diffidente ogni passante, potrebbe essere preso per un invito.
Imparare a guardarsi dietro le spalle.
Imparare a stare attenta quando superi una macchina ferma, con il motore in folle e uno o più uomini all’interno.
Imparare a stare lontana e a mettere più di un metro tra te e la portiera di quella macchina.
Imparare a non abbassare del tutto il finestrino quando dall’auto chiedi indicazioni.
Imparare a non scendere da sola nei seminterrati e nei parcheggi.
Imparare insulti sanguinosi; usarli.
Imparare a non dire "no" quando ti viene fatta un’avance in un posto isolato. Invece, con voce bassa e accattivante, inventare una scusa, qualcosa come: "Sono già fidanzata". Se messa all’angolo, dare un nome falso e un numero di telefono fittizio.
Imparare a non fidarsi dei poliziotti. Se avvicinata da uno di loro, fingere di avere un papà/nonno/zio ufficiale di polizia.

Non sedere da sola vicino al mare, o in qualsiasi altro posto, per più di dieci minuti.
Non andare da qualche parte da sola per guardare il sorgere del sole.
Non cantare, non sorridere, non agitare le braccia, né i fianchi.
Non indossare questo, né quello, né quell’altro e neppure quell’altra cosa ancora.
Non passeggiare al chiaro di luna.

Una lunga serie di divieti. Questa è la vita in un Paese in cui metà della popolazione viene sottoposta quotidianamente a un coprifuoco che non ha alcuna ragione di esistere se non un’indicibile paura.

[Foto credit: forbesindia.com]

*Annie Zaidi è giornalista, scrittrice, poetessa, attivista per i diritti delle donne in India e columnist per il sito d’informazione Daily News and Analysis. Metropoli d’Asia ha pubblicato in Italia il suo libro I miei luoghi. China Files, per lo Speciale 8 marzo, l’ha intervistata.