Un secolo di manifesti pubblicitari e di propaganda raccontano come sono cambiate l’estetica e le aspirazioni del popolo cinese dalla caduta dell’impero a oggi. E con esse l’immagine della donna.
La prima pinup cinese, il primo modello femminile a cui tendere, si diffuse in Cina nel 1914. Ed era già morta da più di un millennio.
Yan Guifei era la consorte preferita dell’imperatore Xuanzong. Si narra che per lei perse la testa e mandò in rovina il suo regno. La fulgida dinastia Tang, dopo più di un secolo di pace, ricchezze e lussi non si sarebbe mai più ripresa.
L’aveva ripescata dalle pieghe della storia un grafico ante litteram, Zheng Mantuo, a cui il China-France drugstore aveva commissionato un calendario. Come molte iconografie femminili la sua immagine era un misto di tradizione, sex appeal e trasparenze.
L’ovale del volto tipicamente cinese, le labbra disegnate da un rossetto rosso acceso, ma soprattutto le vesti di seta che lasciavano intravedere il suo corpo tratteggiato con occidentale malizia ne facevano rivivere il fascino irresistibile.
La diffusione commerciale del calendario tra dipendenti, clienti e fornitori di uno dei primi empori cinesi fece il resto. E nell’immaginario cinese le donne disegnate da Zheng Mantuo per prodotti di bellezza e sigarette d’inizio Novecento riempiono quello spazio confuso di libertà tra la fine dell’Impero e l’instaurazione della Repubblica.
Ma la bellezza classica di una dissoluta imperatrice del passato non poteva durare a lungo. Il cinema faceva il suo ingresso nella cosmopolita Shanghai e con esse le dive.
Su tutte Hu Die, disinibita, coraggiosa e sofisticata. Proprio come volevano essere le donne dell’epoca. Sono loro, le meinu, belle ragazze in carne e ossa a prestare il volto alle pubblicità degli anni Trenta.
E insieme ai prodotti vendevano il volto di una donna moderna che voleva e poteva traghettare il paese verso una nuova era: indossavano costumi da bagno e guidavano automobili, bevevano champagne in pubblico e ballavano nei club. Qualcosa che sarebbe stato impensabile anche solo dieci anni prima.
Ma la Cina sarebbe presto cambiata. Invasione giapponese, guerra civile, definitiva vittoria dell’Esercito di liberazione: Repubblica popolare. Il lusso è da abolire, la borghesia un nemico da sconfiggere.
La bellezza è decadente: il corpo non va mostrato, la donna non è un oggetto. Ci sono solo indistinguibili studentesse e lavoratrici modello che, capelli corti e pantaloni larghi, ardono d’amore per il Partito e Mao Zedong.
Tra tutte una ragazzina che avrà per sempre quattordici anni. Liu Hulan è ancora una bambina che abita le difficili campagne coltivate a sorgo quando comincia a fare la staffetta per il Partito. Si pensava che nessuno le avrebbe fatto del male.
E invece fu una delle tante vittime della guerra civile. Fino all’ultimo fedele a Mao, fu trasformata in un’eroina. Si riconosce grazie al suo sguardo: duro e deciso. I poster che la ritraggono non vendono profumi o sigarette, ma rivoluzione e valori socialisti.
Ancora una volta la Cina che credeva in lei è scomparsa. Gli anni Ottanta, il prima e il dopo Tian’anmen, l’epoca di Deng Xiaoping, le riforme. Il punk, il rock e la tecno sono arrivati nelle grandi città della Cina insieme, miscelandosi all’amore libero, all’urbanizzazione feroce, ai figli unici e all’arricchimento finalmente lecito.
Nelle metropoli contemporanee cinesi la donna è di nuovo oggetto di desiderio, padrona di sé e dello spazio pubblicitario in cui è inquadrata. Dopo quasi cinquant’anni di omologazione, ognuno cerca di stupire, di essere differente dagli altri, di essere riconoscibile tra un miliardo e mezzo di connazionali.
Nessuno meglio dell’artista pubblicitaria Chen Man può rappresentare questa tensione. È la Cina che entra nell’era del consumismo, è un continuo bilanciarsi tra arte e mercato, un continuo esagerare, forzare il limite. L’immagine oramai è perfetta, forte e accattivante. Ma è ancora vuota.
[L’immagine di coperina è un’opera di Chen Man]