E’ splendente come un fiore e resistente come un salice. Storia proibita di una geisha ci racconta con nostalgia e autocompiacimento come questo complicato mestiere abbia potuto garantire indipendenza e autonomia alle donne nella rigida società giapponese.
I karyukai sono i quartieri delle città giapponesi dedicati alle arti, ai piaceri estetici: sono i luoghi delle geishe.
Karyukai significa “mondo del fiore e del salice”. Ed ecco cos’è una geisha: bella, splendente come un fiore; aggraziata, flessibile e resistente come un salice.
Con questa premessa Mineko Iwasaki ci introduce al suo racconto, pubblicato recentemente in Italia, a distanza di dieci anni dalla pubblicazione americana, con il titolo Storia proibita di una geisha (Newton Compton Editori, 9,90 Euro).
Iwasaki fornisce un resoconto puntuale della sua vita – con quell’amore per la precisione tipico della cultura giapponese e che a tratti può rasentare la pedanteria – descrivendo dettagliatamente gli abiti, le danze, i rituali che compongono l’esistenza di una geisha.
Una parabola che dagli anni Cinquanta ai Settanta la vede raggiungere le vette della sua professione e diventare una delle geiko più pagate e riconosciute.
Tutto inizia molto presto per Mineko: a cinque anni, di sua volontà, ma anche per lenire le difficoltà finanziarie della famiglia, entra nell’okiya, ovvero la dimora delle geishe.
Viene designata erede della okiya e presto avviata allo studio della danza, della calligrafia, della musica, delle arti tradizionali. È una bambina testarda e introversa che riversa un’enorme passione nella danza.
La sua portentosa crescita artistica e il suo ruolo di futura responsabile della casa delle geishe la espongono all’attenzione di tutti nello storico quartiere di Gion Kobu della città di Kyoto.
Cosa che nel tempo produrrà nei suoi confronti gelosie, rivalità, intrighi e maldicenze che offuscheranno almeno parzialmente l’amore per l’attività di geisha. All’apice della carriera, a soli 29 anni, Mineko lascia tutto, si sposa, mette su famiglia.
Ma cosa fa effettivamente una geisha? Molte sono le distorsioni e i pregiudizi che riguardano questa figura, specie in Occidente. Il primo pregio di questo libro è senz’altro fare luce sulla concreta professione delle geishe e sul senso più profondo di questo mestiere.
Iwasaki spiega come l’essenza del lavoro di una geisha sia artistica: si tratta di solleticare le facoltà più elevate dei clienti delle ochaya (le case da tè dove tradizionalmente si svolgono i banchetti con le geishe), quelle estetiche, non certo di vellicare i loro istinti sessuali.
Una geisha è la quintessenza della femminilità declinata come cortesia e capacità di relazione: oltre a padroneggiare la danza e la musica, deve essere sempre pronta a qualunque tipo di conversazione; se l’ospite è un politico, deve informarsi sulle ultime leggi proposte, se è un regista, deve conoscere la sua produzione, se è un pittore avere un’idea della sua opera.
Deve saper mettere a suo agio l’ospite – persino quando costui le risulta sgradevole, fisicamente repellente: la sua maschera bianca e il suo sorriso amabile e gentile non ammettono crepe.
“Non importa ciò che lei prova, la sua espressione deve dire: ‘Non vedo l’ora di avvicinarmi e parlare con te’. Se il suo viso dichiara: ‘Non ti sopporto’, quella donna non merita di essere una geiko. Fa parte del suo lavoro trovare in ogni persona qualcosa di gradevole”, scrive Iwasaki.
Tra i vari spassosi aneddoti, Iwasaki racconta che negli anni Settanta, quando il Giappone cominciò a imporsi come potenza economica internazionale e gli incontri nelle ochaya con stranieri e personaggi influenti lasciarono penetrare idee ed energie nuove nella chiusa società giapponese, una sera si trovò con lo stilista Aldo Gucci.
Durante la cena, l’italiano maldestramente versò della salsa di soia sul kimono di Mineko. L’abito era ormai rovinato, ma per non far sentire troppo in colpa l’ospite, Iwasaki chiese allo stilista di farle un autografo. Proprio lì, sulla manica del suo preziosissimo kimono. Tanto era ormai inutilizzabile.
Il kimono, spiega in più passaggi l’autrice, è essenziale per le geishe: saperne riconoscere la fattura pregiata, saper abbinare il kimono alle stagioni e saperlo indossare sono tutti requisiti fondamentali.
Ne possiedono moltissimi e li utilizzano ciascuno in un’occasione diversa: sanno memorizzarli tanto da poter riconoscere per strada chi utilizza un kimono già precedentemente indossato. Ma l’ospite prima di tutto!
Oltre alla dedizione per gli altri, c’è anche la furbizia, la scaltrezza, talmente velata da essere irriconoscibile. Iwasaki, sempre al culmine del suo successo, incontra anche la regina e il Duca di Edimburgo.
Con la regina, nonostante gli sforzi, non riesce a instaurare nessuna relazione, e si indispettisce perché quella, davanti a un banchetto magnificamente allestito e a portate raffinatissime, non mangia nulla.
Quando il Duca di Edimburgo la chiama a sé per parlare, Iwasaki riesce abilmente a far ingelosire la sovrana, al punto che il giorno dopo si vocifera che la coppia reale abbia dormito in camere separate.
La rappresentazione delle geishe di Iwasaki è ben diversa da quella dello scrittore americano Arthur Golden, autore nel 1997 del bestseller Memorie di una geisha, da cui fu tratto l’omonimo film diretto da Rob Marshall.
E non per caso Mineko ci tiene a sottolinearlo – pur senza mai nominare esplicitamente il libro dell’americano. Golden per il suo romanzo trasse parte della sua ispirazione proprio da alcuni racconti che gli fece Iwasaki e la citò pubblicamente per i ringraziamenti.
Ma l’immagine di lei, nonché del mondo delle geishe, venne, secondo Mineko, a tal punto screditata e infangata che l’ex geisha nel 2001 intentò causa contro Golden.
Tra gli aspetti più controversi il passaggio in cui Golden racconta di come la protagonista avrebbe venduto la sua verginità per una cifra all’epoca sbalorditiva (720.000 dollari).
Piuttosto, nei racconti di Iwasaki si intravede una profonda ingenuità e un forte distacco dalla dimensione della sensualità. Una realtà di disciplina e di rigore.
La casa delle geishe è un luogo da cui gli uomini sono totalmente banditi, perciò pensare alle geiko semplicemente come a prostitute più raffinate è pura follia.
La dimensione sessuale al di fuori del matrimonio può esistere per le geishe ma solo se consensuale e se risponde a una serie di norme precise.
Il sistema dell’okiya è stato pensato per garantire indipendenza e autonomia alle donne e in molti casi il risultato è stato raggiunto: “le geishe sono tra le donne più forti e di successo in Giappone, dal punto di vista economico e sociale”, dice Iwasaki.
Ma l’età delle geishe volge al termine. C’è stato sì un passato pieno di splendore in cui la loro funzione sociale era riconosciuta e apprezzata, progressivamente, però, le cose sono cambiate.
La struttura rigida, schematica, arcaica, che le inquadrava è divenuta una gabbia per le donne, impedendo loro di assecondare altri interessi e attività. Ecco perché Iwasaki si ribella.
Dopo aver cercato inutilmente di cambiare le regole dall’interno, decide che è venuto per lei il momento di giocare su nuovi campi: quello del matrimonio e della maternità, prima di tutto, poi anche quello di nuove prospettive lavorative: un ristorante, un locale, una galleria d’arte.
Senza rimpianti e senza mai rinnegare il passato: a testimoniare che grazia e femminilità possono sempre andare a braccetto con indipendenza e coraggio.
* Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello "Yomiuri Shimbun", il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).