In Vietnam nei prossimi giorni si discuteranno i termini della riforma del Codice del lavoro. Un modo per fermare l’impressionante serie di scioperi scaturita dal confronto tra datori di lavoro e manodopera. Nel 2011, con un tasso di crescita del 6%, ci sono stati di media tre scioperi al giorno.
Prolungamento del periodo di maternità, maggiori controlli sul rispetto degli orari e dei turni di lavoro, innalzamento degli standard previdenziali e pensionistici, riduzione della durata dei contratti a tempo determinato. Ma soprattutto e prima di ogni altra cosa, aumento dei livelli salariali minimi, per consentire ai lavoratori di ottenere alla fine del mese almeno il sostentamento necessario a mangiare e ripararsi sotto un tetto durante le brevi pause di riposo cui hanno diritto in base a una legge troppo spesso violata, quando non completamente dimenticata.
Nella sua terza sessione, che prenderà il via nei prossimi giorni, la Quoc hoi Viet Nam, l’Assemblea nazionale vietnamita, parlerà tra le altre cose di quella riforma del Codice del lavoro che ormai da mesi occupa le prime pagine della stampa del Paese e che rappresenta uno degli argomenti centrali del dibattito sul nuovo modello di sviluppo che Hanoi dovrà adottare nell’immediato futuro.
Negli anni passati la più giovane e aggressiva delle tigri dell’Asia ha fatto tesoro della lezione appresa dal Dragone cinese, abbassando il costo del lavoro a livelli competitivi anche per il Sud Est Asiatico e riuscendo ad attrarre nel giro di poco tempo centinaia di miliardi di dollari di investimenti.
È stato appunto grazie a questa strategia che il Vietnam si è meritato il soprannome di piccola Cina, sottraendo investitori e clienti alla sorella maggiore e sostituendo nel giro di brevissimo tempo le risaie con parchi industriali d’avanguardia, sedi degli stabilimenti della Samsung, della Canon, della Nike e della Foxconn.
Il risultato è stato un tasso di crescita annuo superiore al 6 per cento, sorprendente per un Paese che solo 15 anni fa era tra i più poveri del pianeta, politicamente isolato e gravato da un sistema normativo di stampo socialista nient’affatto favorevole allo sviluppo dell’economia.
I progressi ottenuti hanno però avuto un prezzo non indifferente. La pressione scaricata sulle spalle delle classi lavoratrici è stata enorme: l’aumento costante dei turni di lavoro non è mai stato compensato da adeguati incrementi salariali, le già precarie condizioni degli operai impiegati nella fabbriche sono andate progressivamente peggiorando e le industrie e gli stabilimenti hanno finito per trasformarsi in una versione moderna di quelli che nel 1850 Charles Kingsley definì sweatshops, “laboratori del sudore”, all’interno dei quali, a giudizio del ministero della Salute vietnamita, la situazione è ormai "inaccettabile".
Senza contare che l’accelerazione dell’economia ha portato con sé un’inflazione a due cifre che si è abbattuta come una scure sulla capacità di spesa delle famiglie, recidendone una parte significativa. Basti considerare che ad aprile il tasso di inflazione su base annua, che ha registrato il livello più basso degli ultimi 18 mesi, si è attesto al 10,54 per cento, con un drastico calo di quasi 4 punti rispetto a marzo.
A questa situazione le autorità di Hanoi hanno cercato di porre rimedio attraverso una serie di riforme del Codice del lavoro (nel 2002, nel 2006 e nel 2007), che tuttavia non sono mai riuscite a migliorare in modo significativo il tenore di vita dei lavoratori. La migliore testimonianza della loro inefficacia è rappresentata dai dati del ministero del Lavoro degli invalidi di guerra e degli affari sociali sugli scioperi che hanno colpito il Paese dal 1995 all’anno scorso.
Le proteste sono state in tutto 4.142, e il loro numero è andato aumentando esponenzialmente, fino a raggiungere la cifra di 978 nel 2011, vale a dire quasi tre scioperi al giorno.
La posizione ufficiale del governo su questo allarmante incremento è che le proteste sono determinate dal mancato rispetto delle leggi da parte dei datori di lavoro, in molti casi imprese straniere che hanno delocalizzato in Vietnam. Tuttavia, come sottolineato più volte dalla Tong lien doan lao dong Viet Nam, la Confederazione generale del lavoro vietnamita, il problema principale che i lavoratori si trovano oggi ad affrontare è quello del salario minimo, che attualmente copre solo il 60 per cento delle spese necessarie al loro sostentamento.
La questione, dunque, richiede in primo luogo un intervento di natura legislativa: è necessario adeguare gli stipendi al costo della vita, perché le condizioni in cui versano gli operai sono ormai insostenibili. E in questo senso la responsabilità del Partito comunista che guida il Paese non può che essere diretta.
Nella bozza del nuovo Codice del lavoro che sarà discussa nei prossimi giorni dall’Assemblea nazionale la disciplina del salario minimo è affidata all’articolo 88. Attualmente, in base a un decreto del 22 agosto del 2011, gli stipendi minimi per gli operai vietnamiti sono fissati su base regionale.
Per la regione 1, che comprende grandi città come Hanoi e Ho Chi Minh City, la paga mensile non può essere inferiore a 2 milioni di dong, circa 96 dollari. Una cifra risibile, se si considera che il prezzo di un biglietto dell’autobus nella capitale è di 3000 dong. E i minimi diminuiscono man mano che ci si sposta verso le zone periferiche: 85,5 dollari per la regione 2, 74, 5 dollari per la 3, 67,3 dollari per la 4.
Per questa ragione una delle richieste che i sindacati hanno avanzato è quella di ancorare i minimi salariali all’effettivo costo della vita nelle diverse aree del Paese senza tener conto dell’attuale suddivisione in “macro-regioni” che non rispecchiano la concreta situazione economica del Paese.
"Solo in questo modo si avrà un reale aumento del potere d’acquisto delle famiglie", ha spiegato Dang Quang Dieu, capo dell’Istituto per i lavoratori e i sindacati del ministero del Lavoro, avvertendo che in caso contrario una nuova ondata di scioperi colpirà tutti i settori produttivi.
Ma anche se il problema dell’astensione dal lavoro preoccupa non poco gli imprenditori e il governo, tanto che il primo ministro Nguyen Tan Dung è stato recentemente obbligato a rivolgere un appello ai cittadini per chiedere di dimezzare il numero degli scioperi per stabilizzare il livello di investimenti stranieri, l’opposizione a riforme del Codice del lavoro ritenute troppo generose nei confronti dei lavoratori è comunque forte.
Huynh Van Hanh, vicepresidente della Ho Chi Minh City wood processing and handicrafts business association, che rappresenta gli interessi di 370 compagnie locali e straniere, si è fatto portavoce dello scontento che serpeggia tra le fila degli imprenditori
"Questa bozza contiene una serie di disposizioni a tutela dei lavoratori, ma nessuna a protezione degli interessi dei datori di lavoro", si è lamentato Hanh davanti alla stampa, agitando nervosamente i 17 capitoli del documento. "L’espressione ‘il datore di lavoro ha l’obbligo di’ compare più di 60 volte", ha aggiunto. "Queste norme inique spingeranno i lavoratori a chiedere di più senza dare nulla in cambio. È invece loro dovere contribuire alla prosperità economica del Paese".
Una delle questioni che maggiormente suscita l’apprensione degli imprenditori è quella dei cosiddetti “scioperi illegali”. La legge in vigore stabilisce che ogni vertenza di lavoro sia sottoposta all’esame di una specifica commissione di conciliazione, incaricata di valutare ogni singolo caso e di trovare una soluzione.
Nell’ipotesi in cui questa non riesca nell’intento, allora l’iniziativa passerebbe in teoria nelle mani della commissione provinciale di arbitrato . Solo se anche questo intervento si risolve in un nulla di fatto i lavoratori possono dichiarare lo sciopero, sempre che a farlo siano i rappresentanti delle unità sindacali di base.
Il problema è che, secondo gli stessi dati del ministero del Lavoro, dal 1995 a oggi nessuna vertenza presentata all’organismo di conciliazione ha mai superato la fase di analisi preliminare, e che spesso i rappresentati dei sindacati presso le aziende sono pagati dai datori di lavoro, con il risultato che un elevato numero di scioperi risulta dichiarato dai lavoratori stessi, formalmente in violazione della legge.
Oltre ai salari minimi, l’Assemblea nazionale dovrà risolvere anche altri problemi, come quello della maternità, che i sindacati chiedono di elevare a sei mesi per tutte le donne lavoratrici, diversamente dal regime attuale che prevede un periodo differenziato in base al tipo di impiego, e quello dei contratti a tempo determinato, la cui durata secondo i rappresentanti dei lavoratori dovrebbe essere ridotta a un massimo di sei anni contro gli attuali dieci.
Una richiesta, quest’ultima, diametralmente opposta a quella dei datori di lavoro, che chiedono anzi di avere la possibilità di assumere per un periodo iniziale senza alcun contratto e di non essere più vincolati al rispetto delle quote minime previste per l’assunzione di lavoratori diversamente abili.
Pedro de la Hoz, responsabile della sezione cultura del Granma, il giornale ufficiale del Partito comunista cubano, ha dichiarato recentemente che quello del Vietnam è il più interessante esperimento socialista in corso nel mondo.
Che sia interessante è fuor di dubbio. Quello che invece non è chiaro è dove questo esperimento potrebbe portare il Paese asiatico. Molto in alto, stando ai dati macro-economici. Oppure molto in basso, tenuto conto delle ultime richieste formulate dal mondo imprenditoriale vietnamita.
[Foto credit: boston.com]
* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.