All’inizio del XXI secolo dieci milioni di lavoratori rurali si riversarono nelle fabbriche del Sud della Cina. Manodopera a basso costo, pronta a lavorare molte ore in condizioni precarie, con poche opportunità di tornare in dietro, mentre il governo faceva poco per tutelarla. Alla fine del decennio il quadro è diverso.
Continuano gli abusi, ma i lavoratori sono pronti a far valere le proprie ragioni fino a sviluppare forme che ricordano la contrattazione collettiva. Allo stesso tempo Pechino ha adottato una serie di misure per ridurre le disuguaglianze e aumentare i salari minimi. Il China Labour Bulletin ha preso in esame 553 proteste.
Di queste oltre il 70 per cento ha riguardato il settore manifatturiero. Un dato abbastanza scontato perché proprio questo settore ha trainato la crescita economica cinese nel decennio.
Inoltre scioperi e proteste sono "facili” da organizzare nelle fabbriche dove si concentra un gran numero di operai che condivide gli stessi problemi e difficoltà.
La protesta è montata tuttavia anche fuori dai cancelli dei grandi impianti manifatturieri soprattutto tra gli insegnanti e ne settore dei trasporti, facilitata dal diffondersi dei socialnetwork per organizzarsi e mettersi in contatto.
All’inizio del decennio almeno sette milioni di insegnanti delle scuole comunitarie nelle zone rurali furono lasciati a casa senza possibilità di trovare un nuovo impiego.
Nello stesso periodo ci furono centinaia di scioperi dei maestri elementari in diverse province per chiedere che la loro paga fosse equiparata a quella dei funzionari pubblici.
Nel settore dei trasporti la protesta più eclatante fu invece lo sciopero di 9mila tassisti del 2008 nella municipalità di Chongqing che scatenò altre manifestazioni in diverse città del Paese contro le somme che erano costretti a pagare alle cooperative, contro l’aumento del prezzo della benzina e contro la concorrenza sleale dei tassisti senza licenza.
Il decennio appena trascorso ha anche segnato un progressivo declino delle proteste nelle grandi aziende pubbliche in fase di ristrutturazione, diventate colossi che agiscono in regime monopolistico in settori quali l’energia e la finanza e pertanto richiedono lavoratori altamente specializzati.
Ma cosa chiedono i lavoratori? Fino alla prima metà degli anni Duemila il rispetto dei loro diritti e che gli fosse corrisposto il dovuto e i contributi. In seguito maggiori diritti e salari più alti.
Per esempio all’inizio del decennio 8700 operai di un giacimento di petrolio nella provincia dello Henan furono licenziati nel processo di ristrutturazione dell’azienda. Le proteste per ricevere gli arretrati sono andate avanti fino all’agosto del 2011, protesta quest’ultima cui si sono unita anche un migliaio di nuovi dipendenti dell’azienda per chiedere aumenti e il miglioramento delle condizioni di lavoro.
I lavoratori, si legge nel rapporto, non si accontentano più dei salari minimi stabiliti dal governo, né sembra avere fiducia nella capacità contrattuale dell‘Associazione nazionale dei sindacati cinesi (ACFTU), legata al Partito comunista al potere.
Oltre ai tradizionali metodi per manifestare il proprio dissenso, come le petizioni consegnate alle autorità, hanno sviluppato forme creative di protesta.
A marzo del 2009 i lavoratori di una fabbrica giapponese a Shenzhen si misero a raccogliere la spazzatura dal parcheggio dell’impianto per chiedere il pagamento degli straordinari e dei bonus acquisiti dai lavoratori licenziati.
A marzo del 2010 i dipendenti della Jalon Electronis decisero di accamparsi per dormire dentro l’impianto per contestare gli aumenti sproporzionati dell’orario di lavoro decisi dopo un aumento salariale. Spesso le proteste escono dagli impianti per occupare autostrade e piazze.
Soltanto nel 2,7 per cento dei casi si sono invece concluse con la distruzione di macchinari e attrezzature o con aggressioni ai dirigenti.
La natura non violenta delle manifestazioni ha spinto anche il governo centrale a un atteggiamento più cauto e conciliante nella soluzione delle dispute, continua il rapporto.
Una posizione ben rappresentata da Wang Yang, leader liberale del Pcc nella ricca provincia costiera del Guangdong e dalla maggiore attenzione della stampa ufficiale verso le tematiche del lavoro.
Tuttavia gli scioperi sono spesso considerati un pericolo per la sicurezza pubblica e trattati di conseguenza secondo la legge per la risposta alle emergenze del 2007.
Senza tensioni sociali la tanto agognata “società armoniosa” teorizzata dal governo potrebbe realizzarsi, conclude il rapporto. Affinché questo avvenga le nascenti forme di contrattazione collettiva dovranno però trovare un sistema stabile e istituzionalizzato che porti al dialogo tra imprenditori e lavoratori. Ma scioperi e manifestazioni non scompariranno.