Se le 31 regioni cinesi fossero considerate economie indipendenti, sarebbero tra le 32 a crescita più rapida nel mondo. Ma il successo ha lasciato tracce profonde: diseguaglianze, assenza di diritti e di stato sociale. Vi presentiamo un’anteprima de Il sogno cinese, l’ultima fatica di Simone Pieranni in uscita per Manifesto Libri. Domenica 6 ottobre alle 12:30 l’autore sarà a Ferrara, per discutere di Cina assieme a voi al Festival di Internzionale.
Nell’anticamera alcune persone discutono animatamente. C’è un ragazzo, avrà trent’anni, che fuma nervosamente una sigaretta. Batte a terra il piede seguendo un ritmo tutto suo. Di sicuro chi ascolta musica è quello accanto: un altro giovane, mani impegnate sull’Ipad, cuffie giganti alle orecchie. Poi ci sono tre vecchietti: uno, seduto, sta facendo sobbalzare la ciabatta e se la prende con i giapponesi. Il secondo risponde insultando gli americani, il terzo infine se la ride. Accanto c’è una specie di sala d’aspetto con una quindicina di sedie. Altre persone che discutono rumorosamente, alcune sono in carrozzella.
Poi scatta un sibilo non troppo distante: è una specie di sirena, cui ne seguono altri, che assomigliano a motivetti da opera. Le persone nella piccola stanza si alzano contemporaneamente, percorrono quei pochi metri che separano da una porta da dove si apre lo sguardo su una stanza occupata da circa settanta letti. Una quindicina di infermiere in tenuta rosa e infermieri in tenuta azzurra sono pronti, sistemano gli ultimi preparativi. Sono lì da almeno un’ora e dopo che avranno ricevuto i pazienti, potranno scendere al piano terra, dove nel lungo corridoio che porta all’uscita dell’ospedale sono già disposti i carrelli con i prodotti della prima colazione.
Il gruppetto dei pazienti, appena entrato, procede in fila a pesarsi. All’ok della caposala, un donnone di un metro e ottanta, mascherina e modi fare apparentemente bruschi, ognuno si dispone su un letto. L’esercito in rosa e blu, si prepara: ad «attaccare» con aghi numero 17, delle bestie di cui si vede l’interno. Poi cala il silenzio, si torna alle cuffie, alla propria sofferenza, al pensiero che ogni minuto sono soldi, si fanno conti, quelli grami, i conti dei debiti. E si torna al pensiero che il dolore degli altri, è un dolore a metà. Dopo quattro ore, si viene «staccati» e ci si riaffaccia alla presunta normalità, con un lieve mal di testa e la sensazione guardinga che seppure costose, quelle quattro ore svolgono un compito fatale: tenere in vita.
Questo appena descritto, è l’esercito degli emodializzati dell’ospedale «Sino -Giapponese» di Pechino.
Perché partiamo da qui? Perché una emodialisi oggi in Cina può costare dai 100 ai quasi 230 euro a «trattamento». Considerato che mediamente gli emodializzati effettuano tre dialisi a settimana, significa tra i mille e i duemila euro al mese. I più vecchi godono di qualche indennità pensionistica, rimasugli di uno stato sociale che fu. I giovani devono pagarsi quasi interamente la parcella. «Se ti ammali in Cina – racconta uno di loro – sei perduto. Sei rovinato. Tu, la tua famiglia, la tua discendenza, se mai ne avrai una».
Nel corso degli ultimi tre decenni, la Cina «da una società agricola rurale è passata ad essere una società urbana, industriale, e da un’economia pianificata è diventata un’economia di mercato. I due fattori si sono combinati per produrre spettacolari risultati. Non solo è cresciuta l’economia, ma il tasso di povertà è sceso da oltre il 65 % a meno del 10 e 500 milioni di persone sono state sottratte alla povertà.
Se le trentuno province cinesi fossero considerate come economie indipendenti, sarebbero tra le trentadue economie in più rapida crescita nel mondo». Lo scrive la Banca Mondiale, nel suo ormai noto rapporto pubblicato nel 2012, China 2030: lo «spettacolare» successo cinese si tinge di elementi fantasmagorici per il capitalismo mondiale, ma ha lasciato tracce profonde nella società : diseguaglianze, mancanza di diritti, assenza totale dello stato sociale.
Eppure, solitamente, in un’ottica completamente nostrana, l’Occidente diventa «la sede dove avviene la grande logica dello sviluppo storico e la Cina sarebbe l’eccezione che finalmente torna alla regola. Il suo “ritorno al capitalismo” sarebbe di questa natura, la Cina rientrerebbe nell’alveo dell’evoluzione della modernità».
Mettere in discussione lo status quo, ovvero indicare l’esistenza di una modernità cinese che si era sviluppata a prescindere dal suo ingresso nei meccanismi economici occidentali e per di più farlo da sinistra, osservare cioè con spirito critico lo strabiliante processo cinese, porta spesso con sé l’etichetta di «dietrologia» o «nostalgia maoista».
Analogamente mettere in discussione l’attuale modello di sviluppo cinese, da un punto di vista politico, porta frequentemente all’accusa di essere tra coloro che per «ideologia» augurano ai cinesi di tornare a un passato di sofferenze, fame, confusione, guerra civile, pazzia sociale, insomma il caos. Ovvero, il luan così temuto dai cinesi e dai tanti che sul successo della Cina hanno fatto i miliardi.
C’è chi con la Cina attuale ha conquistato importanti fette di potere economico e finanziario o chi dalla Cina oggi dipende per il proprio futuro, augurandosi che Pechino sia pronta a staccare un assegno per sollevare la propria economia da acque molte stagnanti, come è stato il caso dell’Italia quando l’allora Presidente del Consiglio Monti – nel 2012 – si recò in Cina.
Come ha scritto Wang Hui, uno dei più importanti intellettuali contemporanei cinesi, che spesso viene considerato appartenente alla cosiddetta «Nuova Sinistra», «oggi il più potente antidoto ad ogni tentativo di analisi critica dei problemi cinesi è questo: “così vuoi tornare alla Rivoluzione Culturale?”». L’eclissi degli Anni Sessanta è un prodotto della depoliticizzazione; questo processo di “negazione radicale” ha annientato ogni possibilità di critica politica agli attuali trend storici del paese».
Come scrive Claudia Pozzana, «agli occhi della cultura italiana, ma in generale di quella “occidentale”, la “Cina” è un’immagine molto opaca, nella quale alla fascinazione esotica di derivazione coloniale si mescolano i fantasmi, non meno colonialisti, di una “alterità” culturale misteriosa e perfino minacciosa.
Questa sproporzione tra un “occhio occidentale” oscurato da una visione superstiziosa della Cina e un “occhio cinese” allenato da almeno un secolo e mezzo di conoscenza critica dell’Occidente, si fa sentire ancor più oggi che l’economia e lo Stato cinese svolgono un ruolo di primo piano nella geopolitica mondiale. Oggi la rilevanza mondiale della Cina è fuori discussione, ma viene vista come tutta economica e come una sorta di miracolo venuto fuori negli scorsi anni».
Il miracolo cui si riferisce Pozzana viene solitamente esplicitato nella frase, giornalistica e non solo, secondo la quale «la Cina è uscita dal medioevo durante il maoismo, grazie alle riforme di Deng»; si tratta di un intercalare ormai consueto quando si parla di Cina. Una semplificazione che può funzionare qualche volta in articoli di colore, ma che non rende giustizia alla verità storica.
Ci sono due aspetti importanti al riguardo; il primo è di carattere economico. La Cina ha visto crescere la propria ricchezza – se parliamo in termini generali – già dal periodo del maoismo e proprio durante quella fase ha creato le condizioni per il suo successivo balzo economico: «anche se l’andamento economico della Cina è stato spettacolare dal 1978 in avanti, non è stato disastroso tra il 1952 e il 1978, nonostante a volte venga sostenuto il contrario. Nel corso di questi anni il PIL cinese è cresciuto ad una media annua del 4,39 %».
O ancora, «già nel 1970 la Cina aveva una base industriale che impiegava qualcosa come 50 milioni di operai e pesava per più di metà del suo PIL. Il valore del suo prodotto industriale lordo era cresciuto di trentotto volte e quello dell’industria pesante di novanta volte. La Cina stava producendo aerei a reazione, moderne navi oceaniche, armi nucleari e missili balistici. Nelle campagne erano state realizzate gigantesche opere di irrigazione e controllo delle acque.
Alla maggior parte della popolazione, prima analfabeta, era stato insegnato a leggere e scrivere. Un sistema sanitario pubblico era stato creato dove non ne era mai esistito alcuno. La speranza di vita media era aumentata da 35 a 65 anni. Tutto ciò è stato realizzato praticamente senza alcuna assistenza esterna – il che ha significato che la Cina è entrata nel suo periodo di riforme senza nessun debito estero».
In secondo luogo, già prima delle Riforme, la Cina non era politicamente esclusa da quella che viene definita spesso la modernità, ovvero l’ingresso nella sfera concettuale ed economica occidentale. Anzi, il ragionamento politico cinese è sempre stato molto sviluppato. A questo proposito Wang Hui, che ho incontrato nel suo studio alla Tsinghua University, a fronte di molta produzione accademica al riguardo, ha specificato: «ho studiato il riflesso del concetto della modernità, perché la modernità era rappresentata come il fine di tutto. Una sorta di teleologia, usata per narrare la storia.
Quello che a me interessava, specie negli anni 90, era criticare la teleologia della modernità e cercare di rappresentare il marxismo e il socialismo in Cina non tanto come una forma tradizionale, una sorta di feudalesimo, bensì come una forma storica già moderna. Perché negli anni ’80 si pensava che il socialismo fosse una sorta di feudalesimo, così come si è considerato il corso storico della storia europea ad esempio».
Non solo perché la critica del concetto di modernità porta con sé la critica a una lettura storica, lineare, teleologica e soprattutto eurocentrica: «in secondo luogo mi sono concentrato su una critica della narrazione storica. All’epoca c’era una visione storica eurocentrica.
Tutto ciò che era occidentale, era moderno. Modernità, inoltre, per molti studiosi, politici e storici, era un modo come un altro per dire capitalismo, stato-nazione, mercato, un modo come un altro per organizzare la storia: tutto era comprensibile perché la storia tendeva al capitalismo; non penso sia una visione corretta della storia.
Questa visione teleologica porta a confronti che dal mio punto di vista sono ridicoli, restringendo il campo storico, comprimendo la storia culturale di un paese. Si fa spesso questo esempio: il capitalismo non si sarebbe sviluppato in Occidente senza l’etica protestante.
Quindi, dato che il fine è il capitalismo, si cerca di dire che anche il confucianesimo aveva qualche forma etica simile al protestantesimo. Questo è ridicolo. Questo significa che il momento, il contesto specifico della storia, si perde e oggi siamo di fronte alla sfida di trovare un nuovo modo di narrare la storia.
Al professore ho chiesto allora se ancora oggi la «modernità» e la riflessione sul suo concetto sia valida: «non credo, oggi il concetto di modernità è un ostacolo alla comprensione storica. Come spiegare, se la modernità è considerata un percorso naturale della secolarizzazione e dell’illuminismo, il ritorno così prepotente delle religioni?
E’ postmodernismo? Premodernismo? Come leggerlo alla luce della modernità? Non puoi spiegarlo. Se, come viene spesso spiegato, questo fenomeno è una reazione alla modernità, immagina quali connotati politici e conseguenze si porta dietro».
Ad esempio, si potrebbe riaffermare la democrazia occidentale, la modernità, attraverso una guerra. Quindi, all’interno di questa riflessione se ne deduce che la storia cinese non può essere letta all’interno di un binario prestabilito che, fase dopo fase, porta linearmente al capitalismo.
Se la storia è un susseguirsi di eventi, spesso traumatici, la storia cinese non ha solo proprie “caratteristiche»” ma si dispiega in un alveo culturale e sociale che progressivamente è mutato. E lo straordinario fascino della storia cinese è il continuo rimbalzo tra autonomia e similitudini con la nostra storia, quella occidentale degli europei. A partire dall’età delle Riforme, fino ad arrivare a oggi.