Nel suo viaggio europeo, Xi Jinping ha rivendicato l’alterità cinese, spiegandola con metafore a base di arance, tè e birra: una lezione di storia che rivela il punto di vista della leadership di Pechino e lo stile retorico che ormai contraddistingue il presidente. Ma cos’è oggi il "socialismo" cinese? La democrazia multipartitica ha fallito e il socialismo è l’unica via per la Cina. Parola del presidente Xi Jinping, che nel suo viaggio europeo ha rivendicato la “diversità” cinese rispetto a un sistema che l’Occidente intende spesso come valore universale e che è invece prodotto della sua storia particolare.
Al Collegio d’Europa di Bruges, in Belgio, Xi ha sostenuto che l’ex Celeste Impero deve seguire un percorso che si adatta alla propria realtà, dato che l’imitazione di sistemi politici altrui si è rivelata del tutto fallimentare nei tentativi compiuti dopo la fine della dinastia Qing (1644-1911) e l’inizio dell’era repubblicana.
“Monarchia costituzionale, restaurazione imperiale, sistemi parlamentari o multipartitici e un governo presidenziale sono stati tutti promossi e sperimentati, ma nessuno ha veramente funzionato”, ha detto Xi . “Infine, la Cina ha preso la via del socialismo. Ed è vero che nel processo di costruzione del socialismo abbiamo avuto successi, ma anche commesso errori”. Immancabile il richiamo al Piccolo Timoniere Deng Xiaoping che, lanciando il suo “socialismo con caratteristiche cinesi” nei primi anni Ottanta, ha consentito alla Cina “di trovare il proprio cammino e di raggiungere il successo”.
Xi è bravo. Nel suo discorso alle controparti europee ha propinato anche una interessante lezione di storia condita di metafore, in quella che sembra ormai diventata una delle sue caratteristiche retoriche. Per sottolineare che i modelli di sviluppo devono restare diversi, Xi ha detto che “il popolo cinese più di 2.000 anni fa l’ha capito da un semplice fatto e cioè che la gustosa arancia, che cresce nel sud della Cina, diventa aspra se coltivata al nord”. E ancora: “Il popolo cinese è ppassionato di tè e i belgi amano la birra. Per me, il bevitore di tè moderato e l’appassionato amante della birra rappresentano due modi di intendere la vita e conoscere il mondo, e li trovo altrettanto gratificanti”.
Proprio quest’ultima metafora appare forse la meno azzeccata, dato che chi vive oltre Muraglia e incappa quotidianamente in cittadini stesi in mezzo alla strada difficilmente potrebbe concordare sul fatto che il popolo cinese contemporaneo apprezzi più il tè della birra. E quindi, possiamo dire che le produzioni straniere non necessariamente sono respinte dalla Cina in automatico.
Anche la non applicabilità della liberaldemocrazia occidentale ha quindi suscitato il dibattito sia in Rete sia tra gli esperti cinesi. Da una parte c’è chi dice: ma al sistema multipartitico è mai stata data qualche chance? Dall’altra si risponde: certo che sì, dopo la rivoluzione del 1911, e abbiamo visto quanti disastri siano accaduti. Dopo tutto, le cose hanno cominciato a filare lisce solo dal 1949 in poi, data della presa di potere comunista.
Nel suo richiamo a Deng, Xi ha per altro automaticamente escluso il Timoniere originario e “vero”, Mao Zedong, il che può essere interpretato come desiderio di rimuovere quelle parti del glorioso percorso socialista che ancora feriscono la carne viva dei cinesi: il Grande balzo in avanti e, soprattutto, la Rivoluzione culturale, sinonimo di violenza e caos. La famosa formula per cui Mao ha agito “settanta per cento bene e trenta per cento male”, sembra essersi gradualmente attestata su un più equilibrato sessanta-quaranta nel dibattito ufficiale, almeno da quanto ci hanno riferito insider cinesi.
Il richiamo del presidente a una peculiarità cinese – che almeno non è l’exceptionalism Usa sbandierato da Obama – appare comunque legittimo. A questo punto, se liberaldemocrazia non deve essere, va però verificato quale sia lo stato di salute del socialismo rivendicato da Xi.
Prima di tutto, la storia. Se per socialismo si intende il modello di gestione socialdemocratico dell’accumulazione capitalista – libero corso alle forze ctonie del mercato e poi ridistribuzione equa della ricchezza – insomma il modello scandinavo, è evidente che nella Cina contemporanea se ne vede molto poco. Non esiste un welfare e anche quello povero e collettivista (ma a suo modo efficiente) dell’epoca di Mao è stato smantellato in nome del mercato. In compenso, nel trentennio successivo alle “riforme e aperture” di Deng, qualcuno ha accumulato ricchezze enormi – spesso sfruttando posizioni di rendita consentite dal proprio status all’interno della nomenklatura comunista – e il livello di diseguaglianza ha superato quello degli Stati “capitalisti”.
Per qualche osservatore, questo passaggio è stato fondamentale per consentire alla Cina lo sviluppo delle forze produttive necessario a realizzare il vero socialismo. Insomma, accumuliamo ricchezza e poi pensiamo a ridistribuire. Sembrerebbero per certi versi andare in questa direzione anche le riforme varate dal Terzo Plenum del Partito lo scorso novembre, nella misura in cui consistono – almeno sulla carta – in un grande trasferimento di ricchezza dall’elite di Stato alla società diffusa. Utilizzando strumenti di mercato, sia inteso, perché in Cina il problema è quello di dare uguali opportunità in un sistema ancora bloccato, creare concorrenza sostenuta da welfare. Si pensi alla libertà data ai contadini di vendere le proprie terre; all’incoraggiamento dato a un sistema finanziario alternativo a quello delle grandi banche (cioè più propenso a offrire credito alle piccole-medie imprese), a cui si accompagna il giro di vite all’interno alle grandi imprese di Stato; al varo di un primo abbozzo di nuovo stato sociale attraverso il sistema delle assicurazioni sussidiate, in ambito sia sanitario sia pensionistico.
Tutto è ancora sulla carta o in divenire. Quanto di “socialista” ci sia, lo si scoprirà solo vedendone gli esiti.
Poi, c’è il dibattito sul modello politico. In Cina non va per la maggiore l’ipotesi di un sistema multipartitico, quanto la possibilità di riformare il Partito e tutto l’apparato statale dal suo interno. Così, per esempio, è stata riscoperta la “meritocrazia” confuciana, che dovrebbe compenetrare il sistema attuale. Uno dei modelli più interessanti di cui si parla dovrebbe funzionare più o meno così: alla base una forma di democrazia – come per esempio nelle elezioni a livello di villaggio – al vertice una elite illuminata, non elettiva ma selezionata in base al merito (confuciana, appunto), che recepisce di volta in volta le suggestioni della società. In mezzo, libero spazio all’immaginazione. Come fare in modo che quell’elite sia davvero “meritocratica “ e non “cleptocratica” è forse il problema più grosso allo stato attuale. Va però detto che in Cina, oggi, non esiste una reale opposizione politica al Partito comunista e i “dissidenti” che perorano la causa di una liberaldemocrazia di modello Atlantico e a cui la stampa occidentale dà grande risalto – tipo il premio Nobel Liu Xiaobo – sono decisamente più conosciuti dalle nostre parti che in patria.
Il problema più grande riguarda però quanta credibilità abbia ormai il Partito nell’affermare valori socialisti presso gli stessi cinesi, che in buona parte ci credono ancora. Le narrazioni dell’epoca di Mao non funzionano più, da quella del funzionario al servizio del popolo all’affermazione del lavoratore come vero “padrone” della Cina, passando per il poliziotto benevolo al servizio dei cittadini. Oggi, fioccano davanti agli occhi di tutti – e spesso direttamente sulla testa – esempi diametralmente opposti.
L”unico messaggio che ancora funziona è il seguente: la Cina, grazie al Partito comunista, non è più sottomessa alle potenze straniere. E da qui discende la sterzata nazionalista del presidente Xi, che pigia di continuo su quel tasto. Anche affermando la “diversità” cinese rispetto all’Occidente.