Gli scaffali delle librerie cinesi sono sempre pieni di libri che narrano le gesta di “self-made men” che hanno ottenuto il successo economico grazie alla propria determinazione. Si tratta di biografie o autobiografie, spesso adeguatamente romanzate e semplificate per una rapida fruizione da parte di lettori che vogliano diventare operatori economici di successo. La “narrativizzazione” delle vite degli imprenditori presenta tratti ricorrenti, veri e propri modelli di comportamento esemplare nel business come nell’etica. Distinguere i protagonisti di queste narrazioni come “capitalisti” o “imprenditori” o “amministratori” non è sempre facile, ma il tratto che li accomuna è che vengono celebrati come glorie nazionali e che tanti cinesi li considerano figure simboliche da emulare.
Di per sé avere come riferimento i businessmen è perfettamente comprensibile in un paese come la Cina, che già da alcuni anni può considerarsi a pieno titolo neoliberista. I problemi con cui si confronta la società cinese sono per molti versi simili a quelli di una qualunque società in cui capitalismo e mercato abbiano preso il sopravvento sull’autorità statale nella regolamentazione delle vite dei cittadini. La sfera politica si è affidata alla razionalità economica, pur nella consapevolezza che il mercato non si regola in modo “naturale”.3) Di qui, la necessità dello stato a disciplinare la vita dei cittadini con principi e modelli.In particolare, spingendo i cittadini a comportarsi da imprenditori e incoraggiando l’imprenditorialità nei vari ambiti sociali. Possiamo dunque archiviare la passione per la “narrativizzazione” delle vite degli imprenditori come prevedibile e banale conseguenza dell’affermazione del neoliberismo in Cina? Oppure si tratta di un fenomeno meritevole di essere analizzato in profondità? I valori positivi che gli imprenditori sembrano incarnare sono autentici? Si identificano veramente nella funzione civilizzatrice e moralizzatrice che sono stati chiamati a svolgere?
I quesiti e le considerazioni esposte invitano a inquadrare la questione più precisamente. Innanzitutto, nonostante la crescente globalizzazione, la cultura cinese mantiene alcune caratteristiche distintive. In primis, la moderna tendenza neoliberista si fonde con una passione molto più antica per lo storytelling, nonché per le biografie di personaggi famosi che presentano comportamenti esemplari. In secondo luogo, la civiltà cinese è stata caratterizzata per secoli da una forte autorità statale centrale, che trova la sua ragione – tra l’altro – nei numeri. Una popolazione così numerosa distribuita su una superficie così ampia impone allo stato di esercitare misure di controllo efficaci per prevenire ribellioni. Queste riflessioni illustrano come l’idea di poter guidare i cittadini verso “comportamenti corretti” abbia trovato terreno fertile nella visione tradizionale.
Il quadro storico-culturale più antico va poi ulteriormente contestualizzato alla luce del passato più recente. Una costante nella Cina di Mao erano le campagne di mobilitazione di massa, dirette a inculcare modelli di comportamento corretto che i cittadini dovevano assimilare e agire.
Infine, il ruolo di imprenditori e leader d’azienda necessita di essere correttamente inserito nello sviluppo socio-economico cinese.Con le riforme, dai tardi anni Settanta fino alla fine degli anni Ottanta la società civile ha cominciato a riaffiorare e le organizzazioni commerciali, finanziarie e professionali hanno beneficiato di un quadro politico e legale più rilassato. Nel mondo del business questo si è tradotto in uno straordinario fiorire di imprese guidate in modo privatistico pur se inizialmente legate a istituzioni di governo locali. È stato lo stato-partito a decidere di investire le aziende statali e i governi locali di tali responsabilità. Ciò ha permesso l’emergere di modelli vincenti di sviluppo locale, come nel Sunan (area corrispondente al basso delta del fiume Azzurro) o a Wenzhou (nella provincia del Zhejiang).
Dopo la ri-centralizzazione e la purificazione spirituale degli anni Novanta, con l’avvento del nuovo millennio lo stato cinese ha definitivamente delegato la funzione di guida della società in vari settori. Cruciale è stato il ruolo della riforma delle aziende di stato (aziendalizzazione o de-statalizzazione), conclusasi alla fine degli anni Novanta. Essa ha significato sia il distacco dal modello socialista basato sull’unità di lavoro (danwei), sia la fine del welfare garantito a tutti. La trasformazione del modello della danweiha comportato un salto nelle relazioni industriali. Da una parte, una sostanziale riorganizzazione che ha visto emergere di regimi di fabbrica molto svantaggiosi per i lavoratori. Specularmente, l’ascesa di figure di leader d’azienda e imprenditori di successo che hanno saputo trarre vantaggio dalla nuova libertà in campo economico e dallo scambio di tecnologia e prodotti con l’estero. È vantaggioso per lo stato presentare tale possibilità alla portata di tutti i cittadini. Ma quando si osservano le organizzazioni e le personalità cui tale ruolo è stato delegato, emerge che queste ultime hanno l’obbligo di essere in accordo con il partito e il più delle volte i responsabili devono essere regolarmente tesserati. Anche nella relazione con il business, la realtà dei fatti mostra aspetti contraddittori. Il partito ha costruito forti legami con le imprese, tanto che alcuni studiosi hanno coniato il termine oligarchic corporate state.
Queste considerazioni aggiungono profondità all’indagine dei limiti della scelta individuale nella società neoliberista cinese, ma illustrano anche il ruolo del partito e dei nuovi network di potere nella creazione di modelli vincenti nella società cinese contemporanea.
2. Leader d’impresa come nuovi modelli di vita per la società cinese?
La figura dell’imprenditore privato – sgradita al regime maoista – ha impiegato vent’anni a scrollarsi di dosso la patina di corruzione e meschinità. Nella ricerca di un armonioso connubio tra socialismo e mercato, gli ideologi del partito hanno faticato non poco a trovare la giusta formula capace di integrare ricerca per il profitto e lotta di classe.
Agli inizi delle riforme economiche gli imprenditori non erano “legalmente riconosciuti” in quanto la Costituzione del PCC vietava loro espressamente di diventare membri del partito. Essi sono stati anche oggetto di campagne di denigrazione nei primi anni Ottanta quando l’ala più conservatrice del partito guidata da Chen Yun rallentò l’apertura al mercato. Già a partire dalla metà degli anni Ottanta, però, aggirando il divieto formale, il partito iniziò a cooptare i primi capitalisti rossi. Quindi vi fu uno stop di pochi anni dopo gli incidenti di Tian’anmen, quando nell’agosto del 1989 venne posto il bando al tesseramento degli imprenditori privati nel PCC, mentre quelli che già ne facevano parte dovettero rinunciare alle cariche ufficiali. Nel 1993 fu infine ammesso nella Conferenza Consultiva Politica del Partito come “consigliere” il primo imprenditore, il fondatore del “New Hope Group” Liu Yonghao. Infine, all’inizio degli anni 2000 l’allora presidente Jiang Zemin legittimò enunciando la teoria delle Tre Rappresentatività (san ge daibiao lilun) l’esistenza di imprenditori privati medio-piccoli, come pure di businessmen e capitani d’industria. La nuova teoria allarga idealmente la base del partito a tutta la società, cancellando così il primato del proletariato e rendendo irrilevante il conflitto di classe. Non solo, Jiang Zemin fa espresso riferimento ai «nuovi strati sociali» (xin de shehui jieceng), che hanno “contribuito allo sviluppo delle forze produttive”.
La figura dell’imprenditore venne così riabilitata e riconosciuta ufficialmente come capace di trasmettere valori positivi e influenzare positivamente lo sviluppo della società. Da quando imprenditori e capitani d’industria sono stati ufficialmente cooptati nel Partito, il loro contributo alla stabilizzazione della società cinese è stato notevole. Alcuni svolgono un importante ruolo consultivo complementare a leader politici e amministratori pubblici alla guida del paese. Nella maggior parte dei casi, i personaggi del business si presentano anche come modelli autorevoli nell’etica del lavoro e nella società civile e la loro influenza si estende alla dimensione morale. La partecipazione di imprenditori e altre figure del business nella vita politica di un paese è cosa piuttosto comune in Occidente. Leader economici alla guida di un paese sono esempi ampiamente consolidati se pensiamo a presidenti americani come Donald Trump e a George Bush senior, o a Silvio Berlusconi per rimanere in ambito italiano. Il ruolo moralizzatore di un leader di business può invece sembrare meno evidente.
Nella Cina del Socialismo di mercato, il processo di (ri)legittimazione dei leader di organizzazioni economiche ha comportato una ridefinizione del ruolo e dunque una riappropriazione di valori, concetti di riferimento, simboli. Inizialmente nei primi due decenni di riforme, i neonati capitani d’industria hanno preso d’assalto i modelli di business americani (e, molto più limitatamente, europei o giapponesi), che a partire dal secondo dopoguerra hanno rappresentato lo standard a livello mondiale.
Passato il periodo di ubriacatura per i modelli occidentali, molti leader d’impresa hanno riscoperto le proprie radici e preso ad esempio i pensatori classici (Confucio, Laozi, Sunzi). Altri hanno trovato un campione in Mao Zedong, altri ancora nel buddismo. Nella maggior parte dei casi, tali ispirazioni si sono integrate con quelle occidentali, lasciando emergere modelli di leadership e culture aziendali ibride.
Nelle grandi aziende cinesi, le teorie relative alla leadership trasformazionalesono quelle che hanno esercitato maggiore influenza. In base ad esse, il leader è una persona con caratteristiche non comuni capace di produrre una trasformazione nei dipendenti e spingerli a comportamenti innovativi e di eccezionale impatto. Rispetto alla formulazione originaria di Bass (1995) che prevede tre dimensioni (carisma, considerazione individualizzata, capacità visionaria), in Cina la leadership trasformazionale include anche una quarta dimensione, il modellamento morale, che risulta assente in Occidente. Spesso è proprio nella sfera etica che si rivela l’eccezionalità del leader. Egli/ella propone comportamenti esemplari che si rivelano illuminanti per chi li segue. Se tali modelli funzionano, è merito non solo delle qualità del leader, ma anche delle qualità dei followers – in questo caso, i dipendenti, che sono pronti a essere illuminati.
L’aspettativa che i capi agiscano come modelli per i subordinati e basino le proprie qualità di leader sul proprio esempio è facilmente ricollegabile alla visione moralizzatrice del leader secondo la dottrina confuciana. Inoltre, in Cina la dimensione della considerazione individualizzata, prevista nel modello di leadership trasformazionale, va ben oltre quanto previsto nella teoria originale. L’aspettativa è che i capi si prendano cura non solo della carriera e della vita di ogni singolo dipendente, ma anche delle famiglie. Ciò è riconducibile al ruolo paternalistico di leader e alla minore distanza percepita nella cultura cinese tra sfera personale e sfera lavorativa.
Si può inoltre ipotizzare che l’aspettativa risulti maggiormente motivata rispetto all’Occidente dal momento che alla cultura cinese vengono associati alti livelli di spirito collettivo e grande distanza gerarchica. La distanza gerarchica fa riferimento al Power Distance Index (PDI) e mostra le relazioni di dipendenza in una cultura nazionale.10) Il PDI – che può essere rinvenuto nella distanza gerarchica – definisce la misura in cui in un’organizzazione con una cultura nazionale prevalente, i membri meno potenti si aspettano e accettano che il potere non sia equamente distribuito. Le culture con un PDI basso prediligono uno stile di leadership consultivo, che sia aperto alla discussione con i dipendenti perché la distanza emozionale tra il capo e i sottoposti è percepita come esigua. All’estremo opposto, nelle culture nazionali con grande PDI si preferisce un capo autoritario che impone la propria visione ai dipendenti senza troppe discussioni.
Quali modelli di leadership sono maggiormente rappresentativi del mondo del business cinese contemporaneo? Quali sono i valori trasmessi? Quali implicazioni ne conseguono? Queste sono le domande alle origini della riflessione presentata in questo articolo. Il primo obiettivo del contributo è analizzare alcuni modelli originali applicati in alcune aziende di medio-grandi dimensioni di proprietà privata e mista privato-statale evidenziando gli elementi chiave connessi all’azione moralizzatrice e analizzando come questa si esplica sui dipendenti. L’articolo prenderà in esame alcuni modelli di leadership e ne discuterà gli elementi di maggiore impatto.
3. Omologazione vs Varietà
Quando si parla di modelli della leadership cinese, i riferimenti culturali più evidenti rimandano ai capisaldi della filosofia confuciana. In particolare, il carattere paternalistico, l’autorità morale e la distanza gerarchica vengono ben rispecchiati nel modello tripartito della leadership cinese, che tuttora rappresenta la cornice di riferimento per gran parte della ricerca su questo argomento.
I tratti salienti del modello tripartito sono autoritarismo, benevolenza, moralità. L’ispirazione è sia confuciana sia legalista. Ricalcando il modello delle cinque relazioni interpersonali, il leader viene accostato alla figura del padre e/o del principe. Ai leader sono riconosciute specifiche qualità e la capacità di imporre le proprie decisioni. Allo stesso tempo, i leader paternalistici incutono rispetto in quanto moralmente ineccepibili. Infine – essendo ‘padri’ – essi nutrono affetto e considerazione particolare verso i propri subordinati. Ciò che emerge è la dimensione “sociale” dei capitani d’impresa. Essi si assumono le proprie responsabilità nei confronti dei dipendenti che vengono considerati come membri della propria famiglia. Accettano di avere un ruolo come moralizzatori non solo all’interno di un sistema familiare, ma anche a servizio della collettività. Questo avviene non solo nelle aziende che sono guidate dai membri della famiglia (Chinese Family Business, CFB), ma anche in gran parte delle aziende di dimensioni medio-grandi.
Il modello paternalistico tripartito è utile come punto di partenza. Ma è difficile considerarlo un modello uniforme per il mondo del business cinese. Un motivo è che non solo il Confucianesimo, ma anche altre scuole filosofiche della Cina classica vengono prese a riferimento. Inoltre, il carattere autoritario del leader è anche un tratto saliente nell’esempio di Mao Zedong. A un osservatore occidentale, quest’ultimo accostamento può apparire strano. In tempi recenti, i gravi danni compiuti dal Grande Timoniere nei confronti del popolo cinese sono stati ampiamente documentati, ma nella società cinese contemporanea generalmente non troviamo una condanna esplicita di queste azioni. Malgrado nel periodo iniziale delle riforme la dirigenza del partito lo avesse criticato, giudicando la sua attività al 70% corretta e al 30% sbagliata, Mao rimane tuttora nel pantheon dei leader cinesi. Nella Costituzione del Partito Comunista Cinese, egli è ricordato come uno dei massimi ideologi insieme a Deng Xiaoping e Xi Jinping. Si deve a Mao l’adattamento del Marxismo-Leninismo alle caratteristiche cinesi. Tuttora l’ideologia del partito si basa sulla sintesi da lui elaborata.
Applicare uno stile di leadership maoista significa includere i principi dell’ideologia maoista, che si basa sullo scontro e sulla contrapposizione dialettica di forze opposte. Il leader si sente legittimato nell’imporre un nuovo ordine in sostituzione di quello preesistente. Mao non ha solo legittimato l’azione rivoluzionaria. Ha anche introdotto la tattica di guerriglia, che ha permesso al PCC di vincere i nazionalisti di Chiang Kai-shek durante la guerra civile del 1946-49. Infine, ha prodotto il concetto di rivoluzione permanente, che ha permesso in linea teorica la critica dal basso sebbene in pratica questa teoria abbia portato a eccessi e purghe nella Rivoluzione Culturale come in altre campagne di mobilitazione di massa.
Il contributo più importante dell’ideologia maoista visibile nel modello di leadership aziendale è la legittimazione del conflitto quale risoluzione delle controversie. Il conflitto viene visto come una modalità per far emergere i migliori. Inoltre, un leader maoista imporrebbe ai suoi sottoposti di annullarsi nell’organizzazione aziendale e di seguire una rigida disciplina militare. La competizione sarebbe fomentata perché considerata positiva – al pari della guerra.
L’esaltazione del conflitto è di per sé un tratto estraneo alla cultura tradizionale cinese. Manifestare apertamente dissenso nei confronti del leader o comunicare un feedback negativo a un collega in presenza di altre persone sono azioni da evitare perché il ricevente viene mortificato in quanto né discutere animatamente, né rispondere per le rime sono comportamenti culturalmente accettabili. Inoltre, contraddire il proprio capo è in contrasto con il mantenimento della distanza gerarchica, mentre ricevere commenti negativi in pubblico equivale a perdere la “faccia”. Questo chiaramente non vuol dire che i cinesi non litighino mai. Ciò che è importante sottolineare in questa sede è che la cultura cinese tradizionalmente considera la controversia un’attività più dannosa che propizia. Alcune culture ammettono – e addirittura incoraggiano – lo scambio di opinioni contrapposte come mezzo per arrivare a una soluzione efficace. Al contrario, la cultura cinese riconosce nel conflitto un potenziale distruttivo per le relazioni sociali e, per questo, lo evita.
Modello maoista e modello confuciano vengono spesso presentati come diametralmente contrapposti. Il fine ultimo di un leader che seguisse il modello confuciano è l’efficiente ed equa amministrazione della società. Egli replicherebbe l’ordine gerarchico tradizionale e si concentrerebbe sul metodo più efficace e armonioso per la conduzione dell’azienda integrando gli opposti e individuando soluzioni consensuali. Il conflitto diretto verrebbe possibilmente evitato perché secondario rispetto alla preservazione delle relazioni interpersonali e dell’armonia sociale.
Infine, come coniugare la leadership “paternalistica” e il modello maoista al femminile? Vi sono casi famosi di donne imprenditrici, leader e CEO, ma la narrazione dei casi di successo al femminile ruota su alcuni punti critici, che suonano familiari anche in molte società occidentali.
Un esempio di leader donna di successo è Dong Minzhu, che si è distinta con onore alla guida del produttore di elettrodomestici Gree Electric. Agli inizi degli anni Novanta, dopo essere rimasta vedova con un figlio a carico, si è profusa nel lavoro diventando in breve una sales manager di successo e assumendo nel 2001 la carica di direttore generale e diventandone la presidente nel 2012. Dong Minzhu ha applicato un modello prettamente maschile d’ispirazione maoista. È nota per il suo comportamento estremamente rigoroso nei confronti di dipendenti e collaboratori e ha più volte indicato nella disciplina militare un importante punto di riferimento. Nei primi anni della sua carriera, lo stile troppo franco la rese antipatica a diversi supervisori e colleghi, ma alla fine le sue doti di leader innovatore vennero notate e giustamente premiate. È noto che la presidente della Gree ha fatto molte rinunce sul piano personale per poter arrivare agli importanti traguardi della vita professionale. Senz’altro può essere annoverata tra le donne leader che hanno preferito la carriera alla famiglia. Dong Minzhu è anche un caso esemplare di donna che si è affermata grazie a uno stile di leadership maschile.
All’estremo opposto, la giornalista televisiva Yang Lan è un esempio di come si possa integrare armoniosamente la femminilità nel ruolo di comando. Nei primi anni della sua carriera, Yang Lan è stata favorita dal visino d’angelo e dai suoi modi dolci. In seguito, ha saputo imporsi come conduttrice seria, imprenditrice scaltra e leader risoluta. Nel 1999 ha fondato insieme al marito l’impresa multimediale Sun Media Group rendendosi così indipendente nel perseguire gli obiettivi della sua carriera. Da allora, Yang Lan conduce il programma Yang Lan One on One, nel quale ha intervistato più di mille personaggi di spicco del mondo della politica, del business e dello spettacolo di tutto il mondo.
Malgrado le recenti conquiste, le donne cinesi nel mondo del business scontano ancora la subordinazione ai modelli maschili. La strada è ancora lunga per riuscire a esprimere uno stile di leadership con caratteristiche femminili che possa ritenersi vincente nel confronto con i modelli maschili. Il caso cinese è facilmente generalizzabile ad altre realtà nel mondo.
Le donne cinesi subiscono il condizionamento dei modelli culturali tradizionali, che le vedono legate alla famiglia e più adatte a ruoli di mediazione o middle management invece che come leader autorevoli. Per una donna arrivare ai vertici in un’azienda significa rinunciare a realizzarsi nella famiglia; le donne troppo giovani o troppo avvenenti non vengono prese sul serio; per ottenere il rispetto che merita, il leader donna deve adottare stili di leadership maschili e rinunciare alla propria femminilità; le donne hanno spesso la sindrome dell’impostore causata da scarsa autostima e dalla diffidenza che le circonda.
Perciò, quando una donna vuole diventare un leader, tenderà spesso ad applicare modelli maschili già testati. In questo la leader ne guadagna in autorevolezza, però spesso si neutralizza come donna e sconta l’affermazione personale con la stigmatizzazione sociale. In una cultura che identifica la donna con la cura della famiglia e che considera arrivare nubile a trent’anni come il più grande grande fallimento, le donne che investono nella carriera faticano a trovare un partner adeguato.
4. Analisi dei casi
Tra i leader più rappresentativi e più influenti, spicca Zhang Ruimin, CEO del grande produttore di elettrodomestici Haier, simbolo di un alto livello di produzione, progresso e cambiamento. Molto conosciuto è anche Ren Zhengfei, leader di Huawei, impresa tecnologica che predilige invece basso profilo, razionalità e praticità.
4.1 Zhang Ruimin, Haier
Zhang Ruimin può essere classificato come un amministratore. Nei primi anni Ottanta – in qualità di uomo di partito nell’amministrazione municipale di Qingdao – fu destinato dal governo locale alla guida della Haier con il compito di risollevare le sorti dell’azienda, allora a rischio bancarotta. Da quel momento la carriera di Zhang si è legata in modo indissolubile alle sorti della Haier nel lungo processo di riforma.
Si tratta di un CEO che ha conseguito un successo dietro l’altro, ma è difficile definire il suo stile di leadership in maniera univoca. Innanzitutto, Zhang consiglia un approccio ben radicato nella realtà dei fatti. Il suo motto è: “sempre cauto, sempre meticoloso”. In secondo luogo, egli sostiene di trarre forza e ispirazione da tre volumi: i Dialoghi di Confucio, il Daodejing, l’Arte della Guerra di Sunzi. Zhang prende a riferimento alcuni principi confuciani: il rispetto delle relazioni gerarchiche e delle cinque virtù cardinali; l’importanza dell’educazione continua come miglioramento della collettività; l’idea di una società più equa dove nessuna carica venga trasmessa di padre in figlio, ma sia invece ottenuta per merito.
Esaminiamo alcuni concetti guida della filosofia daoista presenti nel modello di leadership proposto dal CEO della Haier. Il primo è il principio daoista “Governare un regno è come friggere pesciolini”. Come quando si cucina il pesce non lo si dovrebbe friggere troppo a lungo o troppo poco, così nel gestire un’organizzazione un leader dovrebbe seguire la via del Dao e permettere alle leggi di natura di svolgere il proprio corso. Zhang afferma di ispirarsi anche al principio del non-agire (wei wu wei). Lasciando i dipendenti liberi e autonomi di svolgere il proprio lavoro, egli li tratta come esseri umani e li sprona a lavorare con maggior zelo e a prendersi maggiori responsabilità.
La cultura della Haier s’incentra su metafore che accostano l’azienda al mare aperto. Si tratta di immagini ricorrenti negli scritti di Zhang Ruimin. “Haier è come il mare. / Solo il mare può accogliere nel suo enorme seno cento fiumi e amarli tutti (non considerando la loro impurità) / accoglierli e purificarli (trasformarli in acqua cristallina)”.L’analogia con l’elemento acqua continua: “La creatività di un individuo è come la sorgente di un fiume. Tante sorgenti formano numerosi corsi che confluiscono tutti nel mare. Allo stesso modo il lavoro e il senso del dovere di ciascun individuo arricchiscono l’impresa (piccola famiglia) e il paese (grande famiglia).”
Queste affermazioni trasmettono l’immagine di un’azienda accogliente nei confronti dei dipendenti e benevolente nei confronti dei vari contributi offerti dai singoli. Vi si rispecchia un’organizzazione essenzialmente collettivista, con forti legami familiari, di gruppo, nazionali, che valorizza le relazioni armoniose. A un’analisi più approfondita, emerge che l’ispirazione di queste affermazioni proviene dai testi daoisti, che utilizzano spesso mare e acqua come metafore. Nel Daodejing Lao Zi elogia le qualità dell’acqua: “Sotto il Cielo non v’è cosa più molle e più debole dell’acqua, eppure, nell’assalire quel che è duro e forte, niente può superarla, tant’è che non v’è cosa che la rimpiazzi”.
4.2 Il modello applicato
La visione daoista espressa nella mission aziendale si ritrova anche nel modello Haier applicato, che presenta però anche una sintonia con la cultura confuciana, nonché vari aspetti ibridi. Il modello di Zhang Ruimin nella gestione del personale è la catena di mercato (shichang lian guanli 市场链管理), un sistema che permette a ognuno nel suo piccolo di essere un leader, mentre il vero leader si tiene nell’ombra come un buon saggio daoista e si limita ad agevolare i processi. Inoltre, postulando che ognuno si prenda le proprie responsabilità, il modello della catena di mercato mina alle basi il sistema delle guanxi. Possiamo trovare una corrispondenza con il modello occidentale della leadership distribuita. Esercitare il controllo è cruciale, ma spesso ciò avviene a discapito dell’iniziativa, della creatività e della passione – che invece costituiscono parti essenziali del successo di un’organizzazione economica. In alcuni ambienti particolarmente dinamici, come ad esempio il settore della finanza, si ottengono risultati molto migliori se la capacità decisionale viene distribuita. La piramide organizzativa tradizionale deve essere sostituita dalla gerarchia naturale e permettere così che il potere fluisca liberamente verso coloro che aggiungono valore – a prescindere dalla posizione che ricoprono.
La catena di mercato sembra procedere in questa direzione. Zhang Ruimin afferma che il sistema permette a ognuno nel suo piccolo di essere un leader e che uno degli elementi di successo è quello esemplificato dal proverbio “in Cina è meglio essere la testa di un cane, piuttosto che la coda di un leone”.
La reingegnerizzazione dei processi produttivi di Haier è iniziata nel 1998 ed è basata su un concetto chiave: ogni giorno i problemi che sorgono devono essere affrontati e migliorati immediatamente dopo aver individuato le cause e le responsabilità. È questo il principio guida sia della catena di mercato, sia dello slogan rendan heyi 人单合一, che si può tradurre come combinazione individuo – obiettivo. Rensi riferisce al dipendente, mentre dan può essere tradotto come valore dell’utilizzatore. Heyi indica coesione e consapevolezza dell’intero sistema. In breve, i dipendenti hanno l’autonomia di prendere decisioni in linea con i cambiamenti che avvengono nel mercato e hanno il diritto di determinare il proprio reddito in relazione al valore che riescono a creare per gli utilizzatori.
Il rendan heyi si ispira al modello di gestione OEC sviluppato negli anni Novanta al Massachusetts Institute of Technology di Boston (MIT), all’approccio giapponese al management denominato Lean production sperimentato dalla Honda già negli anni Sessanta nonché al taylorismo (management scientifico). Quest’ultimo è il riferimento per la standardizzazione dei metodi, la selezione e il training del personale, la supervisione del management, l’equa divisione di lavoro e responsabilità tra dipendenti e dirigenti.
OEC è l’acronimo di Overall Everyone Everything Everyday Control Clear. Si tratta di un modello misto di management e leadership, che pone nelle mani del CEO tutti i poteri e le responsabilità, rendendolo simile alla figura di padre. C’è un obiettivo (target), dunque ogni compito è misurabile, ogni lavoro è assegnato a uno specifico dipendente. Il controllo si traduce in autodisciplina da parte dei dipendenti su base giornaliera e sulla verifica random dei manager. Il lavoro viene incentivato tramite un sistema di premi e punizioni. L’obiettivo principale è l’efficienza del business. Gli sprechi di qualunque tipo vanno evitati. Tutte quelle attività che non danno valore aggiunto (stocks, riparazione prodotti difettosi, movimenti non necessari di prodotti e persone nell’impianto) vengono tagliate. Diversi studiosi hanno già ravvisato come l’OEC abbia tratto ispirazione dal modello giapponese.
Nella versione della Haier vediamo attuato il principio del Kaizen (Continuous improvement), che si contraddistingue per le 5 esse. La prima S sta per seiri (preparazione); la seconda per seiton (mettere in ordine); la terza per seisou (spazzare o pulire); la quarta per seiketsu (mantenere pulito); la quinta per shitsuke (disciplina). Zhang Ruimin vi ha aggiunto la sesta esse: safety (sicurezza).
Per quanto riguarda la catena di mercato, si tratta di un concetto che Zhang prende da Michael Porter reinterpretandolo alla luce di un differente punto di vista filosofico e degli obiettivi.18) Mentre Porter mira a realizzare la massimizzazione del profitto, Zhang Ruimin ritiene invece che, nell’epoca dell’informazione, occorra considerare il cliente come centro vitale e mirare a massimizzare la sua soddisfazione, altrimenti non si può parlare di profitto d’impresa. Solo se i bisogni del cliente saranno stati soddisfatti, il profitto avrà un risultato certo. In questo modello l’organizzazione aziendale è vista come un insieme di processi in cui ogni unità, operazione e persona è legata direttamente al “cliente” (si indicano con questo termine anche i membri della stessa azienda ma di comparti diversi) e allo stesso tempo è cliente di qualcun altro. Ognuno all’interno dell’impresa (a prescindere dalla posizione) sente la pressione diretta del mercato e, proprio come in una grande famiglia, deve assumersi rischi e responsabilità.
Per rendere tale modello più efficiente, Zhang Ruimin ha introdotto il concetto di SST, un acronimo derivato dalle tre parole cinesi che definiscono la modalità di funzionamento della catena di mercato. I concetti guida si identificano in: S (suochou) = compensare. Se una persona ha portato a termine il proprio lavoro in modo eccellente, dovrebbe chiedere un compenso a coloro che se ne avvantaggeranno; S (suopei) = esigere i danni. Se una persona non ha svolto bene il proprio lavoro, coloro che dovrebbero usufruirne hanno tutto il diritto di esigere da quella persona il pagamento per la sua inefficienza; T (tiaozha) = interrompere. Se non vi sono né richieste di compenso, né di danno, significa che esiste un problema nel meccanismo. Occorrerà dunque fermare il sistema per individuare il problema e superarlo.
L’applicazione del sistema OEC e del sistema SST si riflette nel sistema di retribuzione dei dipendenti della Haier: la ditta applica un sistema di pagamento a punti in base al quale ogni giorno si stabilisce quale sarà il salario giornaliero del dipendente in base al lavoro portato a termine in quella data. Più punti si guadagnano, più alta sarà la paga. Allo stesso tempo, anche il controllo qualità entra nel conteggio dei punti per integrare il sistema degli incentivi: se un dipendente non individua un difetto, che sarà poi successivamente indicato da un collega o da un manager, allora perderà i buoni rossi (buoni per i compensi), e ne otterrà uno giallo (buono per le punizioni). Il numero dei buoni rossi e gialli accumulati giorno per giorno si sommerà ai punti accumulati nel conteggio per la paga.
4.4 Ren Zhengfei, CEO e fondatore di Huawei
Huawei è un’impresa privata fondata nel 1987 a Shenzhen dall’ex militare Ren Zhengfei. Partita con un capitale iniziale molto contenuto, oggi la società è ormai uno dei massimi fornitori mondiali di tecnologia informatica, infrastrutture di comunicazione e apparecchi smart.
Ren Zhengfei non fa mistero della grande ispirazione che Mao Zedong ha esercitato su di lui. Per lui, la vita è una continua battaglia. È un grande estimatore della disciplina militare e del valore del combattimento, ma ha anche grande fiducia nel gruppo.
Per comprendere appieno il modello di leadership di Ren Zhengfei, è importante conoscere la cultura di business che egli ha disseminato nell’azienda. Sul sito dell’organizzazione, si legge: “La gente di Huawei crede che mentre le risorse naturali possono esaurirsi, la cultura può resistere per sempre. Per questo motivo, il leader ha profuso grande sforzo nell’integrazione della cultura aziendale, che in effetti proviene dalle idee dei dipendenti invece che dal leader stesso. […] Vari livelli di dipendenti della Huawei giocano tutti un ruolo insostituibile nella costruzione della cultura aziendale, ognuno secondo il suo ruolo”.
In Huawei il gruppo assume una valenza particolare. Non è solo un’entità coesa. L’azienda viene paragonata a un insieme di combattenti per la sopravvivenza. Huawei ha fama di essere una società nella quale i dipendenti vengono spinti a lavorare quanto più possibile e quanto più aggressivamente possibile. Per questo motivo in passato la società ha avuto una reputazione negativa. Nel modello di leadership di Ren Zhengfei, questi aspetti a prima vista sfavorevoli vengono esposti alla luce dei principi teorici di riferimento. Innanzitutto, viene chiarito che la Huawei si rivolge soprattutto a impiegati giovani dotati di grande energia e voglia di combattere. I dipendenti devono utilizzare queste energie sia all’interno sia all’esterno del gruppo. In virtù del carattere collettivista della cultura tradizionale cinese, il gruppo riveste una funzione particolarmente importante. Nel caso di Huawei, poi, non si tratta di un gruppo qualsiasi, bensì di un branco di lupi. Ren Zhengfei ha rivalutato la figura di questo animale dalla reputazione crudele traendone ispirazione per i principi fondamentali della cultura aziendale. In realtà, il lupo non uccide per cattiveria ma solo per difendersi e procacciarsi cibo. Ren Zhengfei esalta gli aspetti positivi del lupo per quanto riguarda la vita sociale: si muove sempre in gruppo e ha grande rispetto per la gerarchia.
Ren Zhengfei ammira a tal punto questo animale da introdurre in Huawei “la cultura del lupo”. Essa si basa su tre qualità caratteristiche: 1) l’olfatto acuto, concetto facilmente applicabile nel mondo negli affari; 2) lo spirito indomito che spinge l’animale all’attacco, paragonabile a doti molto utili nel business, come perseveranza e combattività; 3) la capacità di lottare in gruppo, che – per estensione semantica – diventa “lo spirito di gruppo”.
Huawei è tra le società che investono di più in ricerca e sviluppo. Questo è uno dei motivi che hanno fatto sì che in situazioni di difficoltà, l’azienda abbia mantenuto una posizione di leader nel mercato con i suoi prodotti e la sua tecnologia. Nella filosofia della Haier ciò corrisponde a “trovare opportunità di sopravvivenza nei momenti di crisi” e riflette pienamente lo spirito del lupo. Mettendo da parte la fascinazione per il regno animale, in realtà la cultura del lupo può facilmente trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Da una parte, spingendo alla competitività, questa cultura aziendale porta grandi profitti alla Huawei. D’altra parte, essa può facilmente mettere in luce il lato astuto e crudele della natura del lupo.
Nel fronteggiare la concorrenza esterna, l’identificazione con il branco di lupi funziona finché non si ricorre al combattimento continuo, che alla fine porta solo a grandi perdite in tutti i contendenti. Per esempio, nel rincorrere il prezzo più basso, la guerra virtualmente non ha mai fine.
Il lato più feroce emerge quando esaminiamo l’influenza della cultura aziendale sulle relazioni interpersonali tra i dipendenti. Promuovere la natura del lupo dà facilmente origine a una cultura aziendale rigida con scarsa flessibilità e un eccessivo stile militare. Inoltre, spinge i lavoratori a stare sempre in guardia contro ogni pericolo e a diffidare l’uno dell’altro. Questo crea un ambiente lavorativo di preoccupazione costante, che causa eccessiva pressione sugli impiegati.
Oltre a definire le caratteristiche dell’azienda Huawei come il luogo della cultura del lupo, Ren Zhengfei si è ritagliato per sé un ruolo da leader maoista combattente, che spinge i dipendenti alla competitività e a essere esigenti l’uno con l’altro. Allo stesso tempo, egli ha esaltato il pensiero tattico, la strategia a lungo termine, lo stile decisionale graduale.
Un punto cruciale è anche in questo caso la dedizione della Huawei ai dipendenti. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, la considerazione non si traduce però in solidarietà verso gli altri. L’attenzione verso l’altro è sempre collegata alla meritocrazia. La cultura aziendale fondata da Ren Zhengfei lascia ben poco spazio ai deboli e al senso di umanità. Il lupo necessita di vivere in branco e gli animali si danno aiuto reciprocamente, ma se un membro non coopera o si dimostra debole, allora rischierà di compromettere la sopravvivenza stessa del branco. Per questo motivo, in natura i membri deboli vengono allontanati. Ne consegue che ogni dipendente della Huawei deve focalizzare i propri sforzi sullo sviluppo dell’impresa e non può perdere tempo con coloro che rimangono indietro. Questo aspetto è ben evidenziato dal fatto che in Huawei la maggior parte dei dipendenti è giovane ed è cinese. È molto difficile infatti resistere alla pressione delle condizioni di lavoro che esigono disponibilità a tutte le ore del giorno e tanta competitività.
5. Conclusioni
L’analisi dei casi Haier e Huawei e le considerazioni presentate in questo saggio lasciano emergere che la “narrativizzazione delle storie imprenditoriali” e la produzione di modelli di leadership originali nelle maggiori aziende cinesi siano tutt’altro che una banale manifestazione della tendenza neoliberista. Entrambi i fenomeni si prestano infatti a una ricerca più approfondita.
Quanto ai modelli proposti dai leader di Haier e Huawei, è possibile ravvisare aspetti simili e dissimili. Sia Zhang Ruimin che Ren Zhengfei abbracciano uno stile di leadership trasformazionale e puntano sul carisma e sull’esempio personale, per quanto nel comunicare i valori della cultura aziendale al pubblico tendano ad abbassare i toni personali e a spostare l’attenzione sulla collettività.
Nella sostanza le culture aziendali che propongono sono diverse per ispirazione (confucianesimo e daoismo da una parte, maoismo e cultura del lupo dall’altra) e sono rappresentative delle maggiori tendenze nella cultura di business cinese.
Malgrado le differenze nei valori di riferimento, se guardiamo alla modalità in cui i modelli sono stati costruiti e proposti ritroviamo molte similitudini. Entrambi i leader hanno costruito culture aziendali intrise di valori etici che esaltano lo spirito collettivo. Porre i dipendenti al centro della scena e investirli di responsabilità di gruppo ha come presupposto che i dipendenti seguiranno fedelmente le direttive manifestando limitata iniziativa autonoma e che contribuiranno a raggiungere il bene del gruppo prima del bene individuale. Almeno parzialmente, dunque, quanto ipotizzato nella parte iniziale di questo contributo sembra essere avvalorato dall’esame dei casi. La grande distanza gerarchica e la tendenza al collettivismo proprie della cultura nazionale cinese risultano prevalenti nei modelli proposti nelle organizzazioni economiche. Nello stesso tempo, sia Zhang che Ren si propongono chiaramente come leader paternalistici, che hanno a cuore non solo la relazione con il dipendente, ma la crescita spirituale e morale dell’impiegato nella società. In questo comportamento, è possibile identificare la funzione civilizzatrice e moralizzatrice che è stata loro attribuita dallo stato-partito.
Infine, i due casi analizzati non solo mostrano come i leader abbiano preso estremamente sul serio la funzione che sono stati chiamati a svolgere. In verità, la mole di scritti ed elaborazioni sui modelli che propongono è notevole e forse anche eccessiva. Il dubbio è che entrambi siano rimasti intrappolati nella cultura stessa del modello.
Di Valeria Zanier per Sinosfere*
**Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.