0: Tre gradi di follia
Di cosa parliamo quando parliamo di follia sugli schermi cinesi?
In realtà, di poca cosa.
Tanto da un punto di vista formale (il labirinto di Shining, gli incubi lovecraftiani de Il Seme della Follia, il corridoio di Repulsion) quanto narrativo (Qualcuno volò sul nido del cuculo, Shock Corridor…), la rappresentazione della follia richiede libertà e creatività per dare forma a concetti scivolosi quali, appunto, follia e normalità, allucinazione e visione. Le definizioni stesse di percezione e realismo entrano in gioco, per non parlare della teleologia foucaultiana che definisce i paradigmi attraverso i quali la società sorveglia, punisce, regola e controlla i cittadini. Difficile, di conseguenza, trovare ampie declinazioni di pazzia in un cinema cinese che, come del resto le altre arti, è stato forgiato da costrittive contingenze storiche. Queste ultime, come è noto, hanno lasciato poco spazio all’esplorazione di ciò che esula dalla “norma” per privilegiare le esigenze di modernizzazione, propaganda, consolidamento dell’identità nazionale, armonia sociale – sino al “sogno cinese” proclamato da Xi Jinping con un interessante twist derivativo in diapason col sogno americano modello di modernità liberale, sebbene ufficialmente avversario “ideologico”.
Eppure, e fortunatamente, segni di follia sono rintracciabili: rappresentazioni dirette o metaforiche di deviazioni da ciò che si considera “sano” e “normale”. Questo articolo non vuole stilare una lista omnicomprensiva, ma si limita a tracciare una mappa all’interno della quale, mi sembra, è possibile inquadrare diverse tipologie di “follia” – e i sensi che ne derivano in rapporto alla concezione speculare, quella di “normalità” e “salute”. Mappa che traccerà confini che non si vogliono restrittivi, ma possibili linee guida o insiemi intersecabili.
Dapprima mi soffermerò sul cinema documentario, e nella fattispecie sull’opera di Wang Bing 王兵. In secondo luogo, proporrò una virata allegorica, ovvero un’analisi di qualche film ove la follia può essere letta quale metafora sociopolitica. Infine, cercando nel regno del cinema fantastico e d’orrore, verrà menzionata l’originale strategia che i cineasti adottano per eludere la censura che interdice la rappresentazione di fantasmi e ritornati – attraverso, mi si scuserà il timido spoiler, la pazzia dei protagonisti come spiegazione razionale alle apparizioni fantasmatiche.
1: La follia clinica
Il più diretto riferimento alla follia nel cinema cinese mi pare il documentario-fiume di Wang Bing ‘Till Madness do us part (Feng ai 疯爱, 2013), filmato nel corso di tre mesi all’interno di una struttura psichiatrica dello Yunnan. Le didascalie sono pochissime, appena lo stretto necessario: dei pazienti viene data la durata dell’internamento (ma non il motivo). Altrimenti la camera filma con insistente impudicizia i corridoi luridi percorsi da uomini che paiono vagare come zombie, l’insistente nudità che asserisce il carattere asociale degli internati e il trattamento disumano al quale sono sottoposti, occasionali scene di intimità, esplosioni di collera, la distribuzione delle medicine che vede i pazienti in fila ingollare le pastiglie distribuite da medici e infermiere, le visite dei parenti… Wang Bing non distoglie lo sguardo davanti a pazienti che espletano i loro bisogni negli angoli delle camere, che vengono nutriti in ciotole come cani e ammanettati e puniti.
Questa assenza di qualsivoglia carattere informativo/didascalico rende il film un’opera di immersione totale, ove lo spettatore deve scegliere se rigettare la prova (volutamente estenuante e riservata a un’élite cinefila) o trovarne sensi nascosti: quest’ultimo esercizio, superata la repulsione del voyerismo forzato su corpi e volti deformati dalla sofferenza, può portare a riflettere sul carattere arbitrario e nebuloso della reclusione: come annunciato solo alla fine del film, l’ospedale ospita più di 200 pazienti, chi internato dalle famiglie e chi arrestato dalla polizia, chi colpevole di azioni violente (finanche omicidi), chi trovato a vagare senza forma di sussistenza, chi addirittura non identificato, chi accusato di ebbrezza in luoghi pubblici, chi di comportamenti aberranti (tra i quali l’eccesiva devozione religiosa o fervore politico). Attraverso la ripetizione poetico-ossessiva delle inquadrature, il ritmo lento, il carattere meccanico delle cure dispensate, e più nello specifico l’atteggiamento freddo e automatico dei dottori e infermieri quasi sempre lasciati fuori campo, il film invita a una contemplazione riflessiva: quanto differenzia il manicomio dalla società dei consumi, anch’essa mossa da leggi emananti da istanze invisibili? Quanto è dissimile la società del controllo facciale e biometrico dall’universo chiuso del manicomio? Quanto spessa è la barriera che separa la fila di malati che ingollano i loro psicofarmaci dalle file decerebrate in attesa dell’ultimo modello della nuova novità da possedere prima degli altri, pronte anch’esse a ingollare i divertimenti cerebro-lavanti della cultura di massa?
Al di là di queste ipotesi di lettura (a mio avviso pertinenti ma nel dominio dell’interpretazione), il film è anche un grido di denuncia contro le istituzioni inumane che nascondono i propri malati dagli sguardi della società che consuma. Relegati in una terra senza ritorno, ogni speranza di guarigione pare abbandonata, così come un’eventuale integrazione non sembra essere nemmeno presa in considerazione.
‘Till Madness do us Part è un film raro che si avventura su territori poco esplorati dal cinema cinese per evidenti ragioni di censura. Nasce però da una vena feconda e ampiamente percorsa, seppure elitaria e di nicchia: il documentario cinese ha infatti da sempre accarezzato la follia, direi anzi che quest’ultima può metaforicamente essere definita come una sorta d’aspirazione per i documentaristi indipendenti. Mi riferisco qui al concetto programmatico di xianchang 现场 brandito da Wu Wenguang 吴文光(capofila della generazione dei nuovi cineasti documentaristi degli anni Novanta) e accoliti. Xianchang, ovvero essere sulla scena, in diretta, cogliere lo spontaneo, l’azzardo, monitorare l’apparizione di realtà che si fa strada per vie misteriose. Bumming in Beijing (Liulang Beijing 流浪北京, 1990), considerato il capostipite del movimento, riprende impromptu il crollo nervoso della pittrice Zhang Xiaping, che collassa davanti alla telecamera mentre la telecamera continua a filmare il suo delirio. Questa scena cristallizza le aspirazioni dei nuovi documentaristi indipendenti: da un lato, si tratta di promuovere un cinema di aspirazioni baziniane o krackaueriane, ovvero un’arte che si avvicini alla realtà, che rifugga gli artifizi, che sia portatrice di autenticità e che accolga ciò che sfugge dall’ordinario, dalle previsioni, dagli script – e che favorisca, di conseguenza, una nuova visione del mondo, al di là della superfice liscia delle immagini stereotipate (leggi: propagandistiche, moralistiche, nazionaliste).
Il cinema è mezzo di conoscenza, non si limita a registrare il mondo, ma contribuisce a rivelare i suoi aspetti più segreti. Parallelamente, si tratta anche di proporre un cinema politico in netta antitesi rispetto alla pratica statale. Quest’ultima ha imposto negli anni del maoismo totalitario un controllo rigoroso di ogni espressione artistica; basti qui ricordare gli strali lanciati contro Antonioni per via delle immagini “rubate” del suo documentario Chung kuo (1972). Sappiamo che la condanna senza appello di Chung kuo nascondeva una lotta di potere tra Jiang Qing e Zhou Enlai per la successione al morente Grande Timoniere. Ciò nondimeno, la cinepresa di Antonioni colse invero dei momenti imbarazzanti per il regime: oltre alla povertà materiale, anche uno sguardo “folle”, perduto, mi colpì particolarmente: nell’edizione in DVD, a 1h26 della seconda parte, dopo aver seguito una lunga e incomprensibile riunione del villaggio (al contrario di Joris Ivens, Antonioni si annoia dei discorsi che sembrano mattoncini di lego e non li traduce) la cinepresa segue all’esterno i membri del comitato di villaggio. Ma Antonioni si stanca, non li filma più, zooma invece per andare a scoprire cosa si nasconde nel retroscena, e trova un uomo, un vecchio che guarda fisso davanti a sé, quasi ebete. Non potei non chiedermi: cosa ha visto quest’uomo nella sua vita? Cosa fa laggiù, come perduto nell’attesa? Non si tratta, tecnicamente, di un fuori campo, ma (come la celebre immagine nascosta di Blow up) di un dettaglio quasi invisibile, eppure lì, presente, che come un buco nero in fieri minaccia di risucchiare tutto il resto in un vortice impensabile. Un punto nero che la rappresentazione ufficiale vorrebbe eludere, ma che attira lo sguardo della telecamera con invincibile forza. Ancora Barthes: né un’adesione, né un rifiuto: una domanda.
2: La follia politica
Antonioni: 1972: la fine della Rivoluzione Culturale. Ed è qui che la follia diventa politica, o (contro)rivoluzionaria. Un paio di esempi, ma il lettore potrà certamente trovarne altri, di film che riflettono sull’esperienza traumatica degli anni 1966-76. Il Re degli scacchi (Qiwang 棋王), romanzo di Ah-Cheng 阿城 poi adattato per il grande schermo da Yan Hao/Yim Ho 严浩e Xu Ke/Tsui Hark 徐克, 1990. Il Villaggio dell’Ibisco (Furongzhen 芙蓉镇), romanzo di Gu Hua 古华 poi adattato nel 1987 per il grande schermo da Xie Jin 谢晋. In entrambi i casi troviamo personaggi ostracizzati e stigmatizzati come folli, ed in entrambi i casi la follia dei protagonisti è presentata come un’azione (più o meno deliberata) per rivendicare spazio per l’anima, per la poesia, per il gioco – pur subendo le rappresaglie di un movimento politico che potrebbe essere visto lui stesso come una gigantesca ubriacatura rivoluzionaria, follia autodistruttiva, carnevale grottesco e violento. Il re degli scacchi mette in scena un savant fou, un “folle degli scacchi” completamente alienato dal resto del mondo, ma capacissimo di giocare infinite partite nello spazio intimo della sua anima. La scacchiera diviene allora bastione contro la barbarie, luogo ove sublimare la violenza del mondo verso un empireo in cui i conflitti sono rarefatti, mentali, seguono regole ben precise, rappresentano la raffinatezza di un’arte della guerra che si combatte nello spirito e non col becero sudore – e dove non c’è spazio per vendette meschine o regolamenti di conti, né menzogne o tradimenti. Infine, e per quanto ripugni sempre usare la parola “tradizione”, lorda di significati ed abusi politici e di marketing, eppure gli scacchi rappresentano qui non solo un universo nobilitato e astratto, ma anche appunto un lascito della storia, un’abitudine che potrebbe evocare tutto il passato che la Rivoluzione Culturale stava distruggendo in un terribile autodafé.
Ah-Cheng tornerà ad occuparsi di un altro pazzo degli scacchi, Wu Qingyuan, sceneggiando un biopic firmato da Tian Zhuangzhuang 田壮壮 (Wu Qingyuan 吴清源, 2006). Qui due avversari, un cinese e un giapponese, si affrontano durante la guerra mostrando il rispetto reciproco e la reciproca stima che fanno crudelmente difetto sul sanguinario teatro di guerra che era diventato il corpo debole della Cina repubblicana. In puro stile Xie Jin (con Ah-Cheng che collabora alla sceneggiatura), maestro che ha saputo attraversare la rivoluzione e traghettare il cinema cinese all’inizio degli anni ottanta, Il villaggio dell’ibisco affronta lo stress post-traumatico nel quale il paese ha rischiato di sprofondare con le armi a lui più consone, ovvero il melodramma – o wenyi pian 文艺片, film d’arte. Si piange e ci si indigna sulle sorti umane che lottano tra desideri intimi e necessità politiche senza mai muovere critiche dirette al sistema che queste sofferenze ha provocato. Affresco che si estende dal 1963 al 1978, Il villaggio dell’ibisco racconta la Storia recente attraverso un microcosmo: nel villaggio rurale che dà il titolo al film si avvicendano i movimenti politici, le purghe istituzionali e le vendette private, gli afflati rivoluzionari e i piccoli gesti di solidarietà reciproca. Spicca il personaggio interpretato da Jiang Wen 姜文, Qin il matto. Un tempo quadro del partito, il giovane uomo è la vittima perfetta delle guardie rosse che lo accusano d’essere controrivoluzionario. Assume così il ruolo del matto del villaggio, relegato ai lavori più umili. Ma proprio la sua pretesa follia lo salva – almeno in un primo tempo – dalla spirale di violenza.
Xie Jin filma con grande sensibilità il giovanissimo Jiang Wen, che diventerà uno dei più importanti attori e registi della sua generazione; particolarmente degne di nota sono le sequenze che lo vedono cantare mentre spazza i vicoli del villaggio, in estate come in inverno, eludendo la fatica e l’umiliazione con un buonumore poetico che non è certo pazzia ma una forma eccentrica di saggezza. Per contro, una forma tragica di pazzia è narrata nel finale: Wang Qiushe, uno dei sobillatori delle purghe più radicali e violente, già descritto come un inveterato profittatore dedito ai vizi, si aggira per il villaggio proclamando a gran voce una nuova, violenta campagna purificatrice. Il suo aspetto mostra segni inequivocabili di follia, e non certo una follia salvifica: vestito di stracci, lo sguardo iniettato di sangue, ripetendo slogan fuori tempo massimo (siamo all’epoca d’apertura lanciata da Deng Xiaoping), Wang Qiushe incarna la follia collettiva della Rivoluzione Culturale. Nessuno più se ne cura, anzi è allontanato con disprezzo. Eppure la sua presenza è traccia visibile del profondo malessere di una società che deve rialzarsi dopo una delle pagine più violente della sua storia – una violenza, per di più, fratricida; e risolta con il precipitoso processo alla Banda dei Quattro e il provvidenziale suicidio di Madame Mao in carcere: dunque forse non risolta e potenzialmente ancora pronta alla suppurazione.
Questi film si situano al crocevia di correnti letterarie e filmiche quali la “letteratura delle ferite” e la “letteratura delle radici”. Si tratta di ritornare al passato recente e testimoniarne i drammi, nonché ricercare, poetizzare, rinarrare e rivalutare una “tradizione” locale (si pensi agli scacchi evocati da Ah-Cheng). Queste “radici” rinnovano il legame apolitico con la terra, il folklore, la religione e l’inconscio, quindi anche la follia. Follia da intendere qui nelle sue connotazioni intrise di buddhismo e taoismo, ovvero la rinuncia al mondo secolare e l’immersione in un’ebbrezza creativa ed edonista capace di accogliere il mutamento e la trasformazione, l’irrazionale e il magico, l’istintivo e l’inutile.
Il ricordo della Rivoluzione Culturale come trauma che genera disturbi mentali ricorre in un genere che, come vedremo, deve impiegare il tropo della malattia mentale per aggirare il divieto di rappresentare spiriti e fantasmi. Parlo di The Lonely Ghost in the Dark Mansion (Heilou guhun 黑楼孤魂, di Liang Ming 梁明 e Mu Deyuan 穆德远, 1989) che ci traghetta al terzo capitolo di questo breve viaggio: la follia nel cinema d’orrore come funzione per evadere la censura ma anche come possibile metafora di rimosso psichico.
3: La follia strategica
Gli anni Novanta e ancor di più Duemila vedono la liberalizzazione dell’industria cinematografica e una conseguente moltiplicazione di film di genere, tra i quali l’horror di cui il pubblico cinese pare ghiotto a giudicare dalla produzione in continua ascesa ma anche dalla quantità di DVD pirata di film d’orrore stranieri. In Cina non esiste un sistema di classificazione dei film, il che impone che tutto sia visibile da tutti, implicando l’impossibilità di mostrare eccessi di violenza o erotismo, ergo film erotici, horror o d’azione infantilizzati all’estremo – nessun mistero che il soft power cinese debba per il momento inchinarsi di fronte alla spregiudicatezza creativa dei cugini giapponesi o coreani. Non parlo certo qui di film d’autore, che grazie a canali di distribuzione e produzione alternativi possono, non senza sforzi, trovare strade espressive novatrici e originali. Il cinema di genere che, invece, necessita di evolvere nel mercato locale deve far fronte alla cautela censoria e moralizzante del governo.
Il seminale Lonely Ghost esplora il trauma della Rivoluzione Culturale e dà il la alla rinascita del cinema di genere. Il prologo è situato appunto durante il periodo di violenze endemiche e fratricide; dieci anni dopo, un fantasma ossessiona i vivi in cerca di giustizia. Il finale del film è situato in un asilo psichiatrico, lasciando intendere come ogni apparizione soprannaturale sia frutto della pazzia del protagonista. Questa strategia è diventata oramai un classico del cinema d’orrore cinese: se vieppiù si assiste all’adozione di modelli stranieri (metastasi di horror occidentale e J-horror), un twist finale ci informa metodicamente che tutte le apparizioni sovrannaturali erano in realtà un sogno o un’allucinazione – magari provocata da un marito fedifrago che vuol sbarazzarsi della moglie rendendola folle, à la Rebecca, o dalla manipolazione di un ipnotizzatore: The Door (Men 門, Li Shaohong 李少紅, 2007), Bushinsaba (Bixian 笔仙, Ahn Byeong-ki 2012), Suffocation (Zhixi 窒息, Zhang Bingjian 张秉坚, 2005), The House that Never Dies (Jingcheng 81 hao 京城 81 号, Ye Weimin 叶伟民 2014), The Great Hypnotist (Cuimian dashi 催眠大师, Chen Zhengdao 陈正道 2014). I film più interessanti non sono tanto l’ennesimo spin off di Scream o l’ennesima nipote di Sadako-dai-lunghi-capelli-sporchi, ma quelli che si interessano del passato e/o del repertorio locale. Il già citato Lonely Ghost implica chiaramente che lo spirito della Rivoluzione Culturale si aggira nella Cina di Deng Xiaoping gridando giustizia in un mondo assordato dalla frenesia consumistica, e il parziale silenzio governativo (o le leggi che impongono di rispettare gli eroi e i martiri del Partito) non farà tacere l’irrisolto. Altri, come The House that Never Dies tornano invece sul passato repubblicano e denunciano poligamia, oppressione feudale, ingiustizie e soprusi che infestano il presente facendo precipitare la salute mentale dei protagonisti ossessionati da visioni da incubo.
Ecco dunque che, se lo spettatore in cerca di film d’orrore seri e adulti si rivolgerà altrove (pena la regressione allo stato di un preadolescente da preservare dalle miserie del mondo) chi s’interessa di cultura cinese potrà apprezzare il meta-testo di questi film andando a cercare tutto ciò di cui “il maestro non parla”: dietro la ricorrenza della rappresentazione della malattia mentale che provoca allucinazioni e illusioni si può celare un’ansia repressa che chiede, come i finti fantasmi, giustizia. Come suggerisce Li Zeng, una lettura inattesa e inquietante può accompagnare questi finali paternalisticamente rassicuranti: l’interdizione della memoria implica l’impossibilità di closure(elaborazione del lutto). La frustrazione di fronte alla pesante mano censoria si risolve così in un’osservazione clinica del represso; il rimosso sorge dalla rappresentazione della malattia mentale. Che le allucinazioni di cui soffre il/la protagonista provengano da un piano machiavellico o dal senso di colpa individuale, esse rivelano pagine oscure della storia e contribuiscono ad evocare l’invisibile – non più un fantasma, ma le responsabilità ben concrete ma taciute del Sistema e del Partito vis-à-vis di eventi quali la Rivoluzione Culturale, il massacro di Tienanmen, o le crescenti diseguaglianze legate allo sviluppo economico quali delocalizzazioni forzate, i flagranti casi di corruzione e via discorrendo. Oppure – nel caso di film quali The House that Never Dies in cui i sintomi di follia vanno ricercati all’epoca repubblicana – l’obbligatoria spiegazione razionale non può nascondere il fatto che i fantasmi possono allegorizzare un’ansia relativa all’influenza politica e intellettuale dell’Occidente, al peso del Partito Nazionalista nel dare forma alla Cina moderna, all’alternativa al comunismo che si è costruita a Taiwan. Questa strategia non è nuova.
Come ricorda Raymond Tsang, a sua volta citando Stephen Teo,4) molti film in cantonese ereditano il modello gotico (radcliffiano) ove i misteri soprannaturali risultano perfettamente spiegabili dalla ragione. Si vede qui la tensione irrisolta tra la spinta illuministica a promuovere la scienza per educare il pubblico e l’impulso contrario a riesumare folklore e credenze tradizionali, specchio della dicotomia tra la necessità di fare evolvere il paese per metterlo scientificamente e militarmente al passo con l’Occidente, e l’urgenza di non perdere radici identitarie capaci di (ri)creare coesione e collettività. Come i celebri segreti di famiglia di cui scrive Serge Tisseron, invocare la demenza in quanto giustificazione dell’irrazionale nel cinema horror cinese contemporaneo non impedisce che il rimosso si faccia strada nel comportamento razionale, al punto che la sua assenza diventa paradossale presenza a chi si prenda la briga di scavare sotto le razionali costruzioni censorie.
4: La follia poetica
All’inizio di questo articolo ci si chiedeva dove fosse possibile trovare la pazzia nel cinema cinese; ebbene, alcune produzioni indipendenti riescono a far brillare schegge di follia creativa in un equilibrio delicato tra la forma e il contenuto. Kaili Blues (Lubian yecan 路边野餐, Bi Gan 毕赣 2015) ne è esempio: Bi Gan inserisce nel suo road movie un virtuoso piano sequenza di 40’ durante il quale la mdp segue il protagonista a piedi, in moto, in barca, su un camion… Bi Gan mesmerizza lo spettatore con un caleidoscopio di ricordi e impressioni: nel corso del piano sequenza il protagonista incontra persone che non dovrebbero condividere il suo spazio-tempo (morte, distanti…): sogno o illusione? Bi Gan ci accompagna con gesto fluido dentro la mente del suo protagonista, dentro il film del suo protagonista, che perde dunque, e noi con lui, l’ancoraggio alla realtà scientifica, ma che ci abbandona in un mondo irrazionale aperto all’apparizione e al possibile. Giocando con la fluidità dei movimenti di macchina in rima al viaggio di ricerca esistenziale intrapreso dal protagonista, inserendo (in una sequenza successiva) nel riflesso dei vetri di un treno immagini del quadrante di un orologio, Kaili Blues, che iniziava come l’ennesimo film a piccolo budget sulla provincia depressa, nella seconda metà perde il senno e si abbandona a una folgorazione visiva che è una forma di follia infusa di un amore per il cinema che rivela non solo la realtà ma anche i recessi reconditi dell’animo, compresi quelli più irrazionali, che elidono le barriere tra passato e presente, ricordo e percezione, follia e “normalità”. Luogo oscuro del cinema è anche quello mentale del sogno e della pazzia.
[Qui per leggere l’articolo originale]Di Corrado Neri per Sinosfere*
**Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.