Proponiamo la traduzione di tre articoli sul Xinjiang pubblicati in inglese su Made in China Journal, rivista in cui la profondità scientifica incontra l’analisi e la critica del presente.
Della questione del Xinjiang, così come di quella di Hong Kong, è oggi importantissimo scrivere, non solo per la “terribilità” degli eventi in sé, e per l’eventuale sdegno morale e civile che questi possono suscitare, ma anche e soprattutto perché essi coinvolgono aspetti e producono implicazioni che vanno ben oltre questi due territori e queste due popolazioni. La questione è infatti globale. Già questa affermazione basta a trovare in disaccordo la Cina, che come in una reazione pavloviana continua a rigettare qualsiasi intromissione nelle questioni interne. Una posizione oggi sempre più contraddittoria, perché l’eccezionalità sovrana che riduce le molteplici crisi del mondo globale alla propria ragione, non fa che aumentarle. Il problema sta proprio in chi decide cosa è interno e cosa esterno, chi è amico è chi è nemico, chi e cosa giustifica l’azione violenta dello stato, che sia essa caratterizzata dalla violenza repressiva o dalla violenza di un bio-potere che disciplina nuove soggettività produttive.
Tuttavia ancora in questi giorni si continua, per fortuna, a parlare di Xinjiang, tanto nei media quanto nella politica internazionale. Sia l’articolo di Darren Byler che quello di David Brophy mettono in luce come le politiche di colonizzazione interna attuate da un regime che ha nell’eccezione la sua norma, pur adattate al contesto cinese, siano in realtà strettamente connesse alle pratiche imperialiste di controinsorgenza e di definizione del terrorista intraprese dagli Stati Uniti, da Israele e da altri paesi. Questione globale, quindi, ove ogni riduzione strumentale della complessità rischia di ridurre vite e culture ai conflitti che, una volta chiamati “inter-imperialisti”, oggi ironicamente vengono denominati come “nuova guerra fredda”.
Le forme assunte dalla colonizzazione interna certamente differiscono nel caso di Hong Kong e in quello del Xinjiang. In quest’ultimo una retorica modernizzatrice e civilizzatrice giustifica l’ingresso dello Stato negli spazi più privati delle persone, dal corpo alla famiglia alla casa, e, per quanto riguarda la dimensione pubblica, dalle relazioni e pratiche sociali alla memoria storica e collettiva che viene o feticizzata per lo sguardo museale del turista Han o interamente cancellata in una guerra di distruzione e produzione dello spazio, come analizza in dettaglio l’articolo di Riam Thum.
L’investimento via via sempre più massiccio nelle infrastrutture avviato dagli anni Novanta si è accompagnato a fenomeni estrattivi che vanno sotto il segno di una prolungata accumulazione “originaria”, o di accumulation by dispossession secondo la nota definizione di David Harvey. Ma l’enclosure dei beni comuni, compresi quelli digitali, ha visto emergere, negli ultimi anni, qualcosa che l’economia da sola non riesce a spiegare, e che anche il tema del “racial capitalism” non afferra a pieno. La violenza epistemica che si dispiega in modo chiaro nel Xinjiang e che Byler analizza in altri articoli, è il portato di un progetto effettivo di “replacement”.
Piuttosto che di un ritorno del rimosso (l’uso della psicanalisi per i fenomeni sociali è sempre problematico), si tratta di una nuova articolazione che la cosiddetta ascesa cinese va componendo da oltre dieci anni, vagamente rintracciabile nel discorso del modello cinese (中国模式), poi più chiaramente diventato “soluzione cinese” (中国方案). Un’articolazione in cui due elementi si stanno pericolosamente saldando, ovvero la “nuova” definizione di sovranità cinese da un lato e le questioni che ruotano attorno alla “differenza” culturale, sociale e politica della Cina dall’altro. Scrisse Stuart Hall, con la sua solita profondità e precisione, che ciò che è socialmente marginale è simbolicamente centrale. In breve, quando l’autorità dello Stato, in tutte le sue diverse articolazioni, tenta di ridurre la differenza alla propria ragione, sragiona e diventa ironica, quando non addirittura ridicola. L’ironia per esempio del diritto, con leggi create ad hoc e frutto di una pratica eccezionale, piuttosto che normale. Il caso della Legge sulla sicurezza nazionale imposta a Hong Kong è il più eclatante.
Qui ci basta notare due termini altamente ironici: fazhi 法制 e xin changtai 新常态, dei quali il primo deforma il “governo della legge” in “legge del potere” (da rule of law a rule by law), il secondo partendo da una crescita economica qualitativamente “nuova”, annuncia una prolungata normalizzazione del sociale. Tutti e due legati all’idea del primato del potere politico sopra ogni cosa. Quando poi questo primato attraversa, per sottometterla, la differenza, ecco che il dominio appare in tutta la sua evidenza: il confine, l’omogeneità culturale, l’appartenenza nazionale, i “geni”: tutto concorre a giustificare l’ordine e la stabilità. La differenza che Hong Kong ha reclamato da ultimo con la rivolta del 2019, ha preso forma in realtà proprio nell’ultimo decennio, in relazione e come reazione alle politiche cinesi. Se diamo uno sguardo ai conflitti che hanno animato la Cina negli ultimi dieci anni, troveremo dapprima la differenza di classe, sostenuta dalle nuove soggettività subalterne che hanno prodotto il “miracolo” cinese, e poi più recentemente la differenza di genere delle classi medie cinesi che prende forma sotto il peso di un potere politico che non riconosce o vuole come subalterno il terreno della riproduzione sociale.
Le sovranità graduate studiate da Aihwa Ong sono state forse un “metodo” che ha consentito alla differenza di esistere, svilupparsi e, in molti casi, resistere al potere. Oggi sembra però che anche quei margini, garantiti dallo spazio dell’eccezionalità neoliberale e dell’eccezione al neoliberismo, stiano scomparendo.
Che tipo di soggettività stanno emergendo in questo quadro così fosco? Affermare l’esistenza della differenza è un primo passo per la resistenza. I resoconti e le analisi prodotte da Hong Kong e sullo Xinjiang sono dunque fondamentali, e la sinologia dovrebbe considerare questo come uno dei suoi compiti principali. Se la sinologia ha avuto nel proprio DNA l’orientalismo, essa possiede anche un’idea e una pratica del sapere basata sulla critica al potere.
GioGo
Darren Byler: Prigioni all’aria aperta. Sorveglianza preventiva e imprigionamento delle comunità nel nord ovest della Cina
Nel Maggio del 2017 una donna di etnia kazaka viene imprigionata a Ürümchi, la capitale della Regione autonoma uigura del Xinjiang. Forse questa donna, che è una cittadina cinese, è andata in Kazakistan nel passato o ha parenti lì. Forse fa parte di un gruppo di studio del Corano sulla piattaforma Wechat. Non le è affatto chiaro quale infimo indizio del suo potenziale “estremismo” l’abbia portata ad essere detenuta. A ogni modo, una volta in custodia, la copia dei dati del suo telefonino ha messo in luce che era stata in contatto con una donna uigura nel Kazakistan. Ansiosa di venire incontro ai suoi interrogatori, la cui priorità era di catturare i ” terroristi di ritorno”, ha chiamato quella donna ad Almati. Alla donna, che si chiama Gulbahar Jelilova, ha detto che sua madre, che collabora con Gulbahar in un commercio fra i due paesi, si trovava in ospedale e che quindi era lei che ora doveva andare a Ürümchi per prendere i prodotti che aveva ordinato per esportarli in Kazakistan. All’inizio Gulbahar è stata diffidente, perchè aveva sentito delle incarcerazioni di massa dei mussulmani turcofoni che erano iniziate quell’anno, ma siccome conosceva le condizioni di salute della sua collaboratrice ha pensato che effettivamente il fatto fosse vero. Visto poi che era una cittadina kazaka nata in Kazakistan, ha pensato che non c’era da preoccuparsi, nonostante fosse di etnia uigura.
Il mattino seguente l’arrivo a Urumchi, ha capito quanto si era sbagliata. Ha detto:
Alle otto di mattina la polizia ha bussato alla mia porta. Mi hanno mostrato i loro tesserini e hanno detto che avevano alcune domande da farmi. Ho pensato che veramente avessero solo qualche domanda da fare e quindi sono andata con loro [senza opporre alcuna resistenza]. Appena arrivati alla stazione di polizia, mi hanno controllato il telefono. Non trovandoci nulla, mi hanno fatto vedere la foto della mia amica e mi hanno chiesto se la conoscevo. Qui ho capito che l’avevano già imprigionata. Hanno trovato il mio numero di telefono nel suo cellulare e hanno chiesto alla figlia di chiamarmi. Mi hanno quindi accusata di aver spedito 17000 yuan in Turchia. Ho detto “e perchè avrei dovuto farlo?”, e loro “prenditi il tuo tempo, pensaci sopra”.
Gulbahar di tempo ne ha avuto davvero molto per pensarci. Per un anno, tre mesi e dieci giorni è stata infatti trattenuta in una serie di centri di detenzione a Ürümchi. In questi centri, dove i detenuti sono indiziati per le loro potenziali connessioni col terrorismo, le condizioni sono orribili. Lei e una trentina di donne mussulmane turcofone che si spartivano 14 metri quadri di spazio, sono state costrette a fare i turni per dormire perchè non c’era posto a sufficienza per distendersi tutte insieme. Le luci erano sempre accese. Gesti e parole erano registrati da telecamere e microfoni.
Gulbahar, che non parla cinese, ha imparato a dire “grazie” (谢谢) e “qui” (到), ha imparato a cantare la “marcia dei volontari”, l’inno nazionale cinese. Guardava ogni giorno discorsi politico-ideologici nei monitor fissati in alto sui muri. Questi erano gli aspetti “rieducativi” ( 再教育) della sua detenzione.
I suoi interrogatori le hanno fatto vedere la sua nuova carta d’identità cinese e le hanno fatto ricordare a memoria i 18 numeri che la compongono. Le hanno detto che non era più Gulbahar Jelilova, ma che era una cittadina cinese ora, e che doveva confessare i propri crimini.
Gulbahar è stata inserita nel sistema della “rieducazione” che è mirato esplicitamente ai mussulmani turcofoni. Insieme a un milione e mezzo di altre persone, ha “mostrato” le avvisaglie di possibili segni di terrorismo. Il sistema di sorveglianza preventiva è stato costruito sulle modalità della controinsorgenza sviluppate dagli Stati Uniti, Israele ed Europa, ma adattate alle “caratteristiche cinesi” ( 中国特色) provenienti dal passato maoista. Queste modalità, insieme all’uso delle tecnologie, hanno prodotto un sistema di campi di internamento che funziona grazie a un esercito di un milione di funzionari e poliziotti non mussulmani (Byler 2018; Yi Xiaocuo “Recruiting Loyal Stabilisers”). Questo progetto è retto da un sistema generale di misurazioni biometriche supportate dall’Intelligenza Artificiale e dalla sorveglianza digitale. Le dimensioni e l’uso delle tecnologie fanno della controinsorgenza cinese un sistema senza precedenti. È la guerra statunitense in Iraq ma senza forme organizzate e armate di insorgenza e senza uccisioni di massa; un programma di contrasto all’estremismo (Countering Violent Extremism) con campi di internamento appositamente costruiti e scuole statali con dormitori. Ha adattato le pratiche della controinsorgenza per costruire una nuova forma contemporanea di colonizzazione. La struttura materiale e politica di questa forma di colonialismo divide le comunità uigure e kazake, gli toglie la loro terra e li priva delle istituzioni sociali rimaste, cioè la lingua, la fede, la famiglia e le tradizioni culturali. Le forme di sorveglianza implementate dalla tecnologia che caratterizzano questo sistema producono relazioni di dominio razzializzate dello stato e dei colonizzatori sulle loro vite.
Il cambiamento globale nelle strategie di controinsorgenza
L’esperienza di Guilbahar Jelilova e delle persone della sua rete di contatti sono indicative di un più ampio cambiamento nella sorveglianza e nelle detenzioni nel nord ovest della Cina e della controinsorgenza nel mondo. Come dimostra David Brophy nel saggio “Mussulmani buoni e mussulmani cattivi nel Xinjiang”, dal 2014 in Cina hanno utilizzato forme di islamofobia e di militarizzazione della controinsorgenza che sono simili a quelle degli Stati Uniti dopo l’11 Settembre e di altre nazioni. Come nell’occupazione guidata dagli Stati Uniti dell’Iraq e dell’Afghanistan nella prima metà degli anni duemila, la polizia cinese ha trasformato il Xinjiang in uno spazio di eccezione, una zona di guerra contro l’insorgenza dove si ritiene che i militanti si nascondano fra la “popolazione neutrale” (Harcourt 2018). Nel caso americano, l’unico modo per localizzare e sradicare questi terroristi nascosti era un’azione di intelligence a tutto raggio sugli abitanti nel teatro di guerra. Una volta ottenute le informazioni, la rete degli insorgenti poteva essere tracciata e distrutta attraverso processi di allontanamento e isolamento. Il passo finale della controinsorgenza era di vincere i “cuori e le menti” della popolazione attraverso l’aiuto umanitario, la costruzione di infrastrutture e la formazione al lavoro. Questo, si pensava, avrebbe legittimato e rafforzato il “cambiamento di regime”.
Un elemento chiave dell’esperimento americano in Iraq e Afghanistan è stato la costruzione del “sistema del terreno umano”. Nel suo picco, questo sistema ha impiegato 27 squadre di scienziati sociali, specialisti di Islam e arabo o pashto o dari, per entrare nelle case della popolazione e con il metodo dell’osservazione partecipante mappare le relazioni sociali degli iracheni e degli afghani, e creare così un database che traccia le comunità della popolazione e le sue tendenze ideologiche (Kelly et al. 2010). Questo sistema, che il geografo Derek Gregory ha chiamato “lavoro sociale armato”, è stato pensato per produrre una rete di saperi utili ad anticipare le minacce dell’insorgenza. L’etnografia è stata d’aiuto agli assalti mirati necessari a trasferire selettivamente e internare i capi dell’insorgenza in vari campi. Dal 2008, Camp Bucca, il più grande, ha detenuto 18000 prigionieri, compreso Abu Bakr al-Baghdadi, il futuro capo dello Stato Islamico (Enders 2008).
Dal 2016 un simile sistema è stato adottato nel Xinjiang (Mahmut 2019). A differenza dell’Iraq e dell’Afghanistan, qui non è presente un’ insorgenza organizzata e armata, eppure gli uiguri e gli altri mussulmani turcofoni sono stati colpiti in modi simili perchè ritenuti “pre-terroristi”. Le autorità cinesi utilizzano molte tecniche di “interrogatorio potenziato”che erano già bagaglio dell’amministrazione Bush. Una differenza importante, tuttavia, è che il governo cinese patologizza quasi ogni forma delle pratiche dell’Islam turcofono come espressione di malattia mentale, e tende a cambiare i mussulmani attraverso il trattamento psichiatrico, l’istruzione e la lingua, l’indottrinamento politico e il lavoro coatto nelle fabbriche nel sistema dei campi di internamento in modo più esteso che nei campi dell’Iraq e dell’Afghanistan (Grose 2019). Nel Xinjiang la polizia non sta provando a generare un cambio di regime politico, le istituzioni dello Stato sono infatti nel pieno delle loro funzioni. C’è qualcosa di più, qui. Come nei sistemi di colonizzazione sparsi per il mondo (Wolfe 2006), stanno provando a produrre una profonda eliminazione sociale ed epistemica grazie alla detenzione e all’addestramento dell’intera popolazione. Ciò viene realizzato tramite sistemi concentrici sempre più restrittivi di checkpoint biometrici e di sorveglianza digitale, che terminano nelle pratiche coercitive dei campi e delle prigioni. Tutti gli uiguri e gli altri mussulmani turcofoni sono detenuti in vario grado in comunità che molti vanno descrivendo ormai come “prigioni a cielo aperto” (sirttiki türme).
L’adozione di un quadro occidentale
I media di Stato e i teorici della sorveglianza in Cina hanno iniziato a porre l’attenzione al cambiamento nell’ambito militare degli Stati Uniti fin dal 2007, quando la discussione sulla “dottrina Petraeus” (彼得雷乌斯主义), così nominata per il nuovo manuale di controinsorgenza del Generale David Petraeus, segnò la trasformazione nella scienza militare in tutto il mondo (Yang 2007). Negli anni successivi, gli studiosi nelle accademie di élite di polizia in Cina iniziarono a esaminare le teorie della controinsorgenza, prima come praticate dall’esercito americano e poi come furono adattate e potenziate tecnologicamente in Israele (Lu e Cao 2014). In meno di dieci anni questo nuovo paradigma teorico è stato adattato e praticato nel Xinjiang.
Parte della spinta a questo cambiamento che va dalla ricerca accademica alla realizzazione delle sue politiche, è stata generata dai tragici eventi del 2013 di Pechino e del 2014 di Kunming. Nel primo, il 28 Ottobre una famiglia di uiguri ha guidato un mezzo nella folla di turisti a Piazza Tian’anmen; nel secondo episodio, spesso chiamato come “l’11 settembre cinese”, il 1 Marzo un gruppo di uiguri ha ucciso decine di passeggeri Han nella stazione di Kunming (Doyon 2018). Nel giro di un anno, le nuove forme di sorveglianza che erano state adoperate in Palestina, Afghanistan e Iraq si sono saldate in una serie di progetti di sorveglianza della Chinese National Science Foundation, come il progetto “metodo dell’antiterrorismo di sorveglianza di comunità con caratteristiche cinesi” (Lowe 2017).
Uno dei pensatori di punta di questo nuovo paradigma cinese di sorveglianza, che si concentra sulla “prevenzione” (预防) tramite l’ “attacco preventivo” (先发制人), è il giovane studioso Cao Yuefei, di Shenyang. Nominato per questo progetto mentre ancora faceva il dottorato sulla polizia e sull’antiterrorismo presso la Charles Sturt University in Australia, Cao e il collega Lu Peng hanno pubblicato un influente articolo su come la teoria israeliana della controinsorgenza poteva essere utilizzata come modello di ispirazione per l’antiterrorismo nel Xinjiang. Proseguendo, Cao e altri colleghi hanno poi tradotto il libro Policing terrorism dell’esperto di CVE (Countering Violent Extremism) David Lowe (2017). La loro traduzione del libro, premiata, fornì una “base empirica” per collegare l’antiterrorismo cinese allo Stato Islamico, che molti sospettavano fosse connesso con gli attacchi degli uiguri a Pechino e Kunming. Il libro di Lowe, che analizza i metodi usati dai membri dello Stato Islamico in Inghilterra per “radicalizzare e reclutare le persone alla propria causa”, mette in rilievo le metodologie “critiche” di raccolta delle informazioni per l’intelligence attraverso la sorveglianza e l’uso degli informatori delle comunità.
In un articolo pubblicato nell’estate del 2016, i teorici della sorveglianza Ji Yantao e Yin Wei (2016) hanno iniziato a descrivere i metodi con cui questo cambiamento nella sorveglianza poteva essere adattato nel contesto cinese sottolineando la necessità di spostarsi verso la prevenzione piuttosto che solo sulla “reazione passiva” (被动反应). Ji e Yin hanno affermato che questa nuova forma di sorveglianza integra l’”intervento” (干预) in stile militare e l’”attacco e la dura punizione” (打击和严格的惩罚)che avevano caratterizzato le precedenti campagne di “duro attacco” (严厉打击) nel Xinjiang. Anche se suggerivano un nuovo e ampio approccio, erano tuttavia attenti a notare come il terrorismo in Cina fosse radicato e avesse cause sociali quali “l’istruzione, la religione, l’etnia e l’economia” e fosse “non direttamente proporzionale alla presenza della polizia” (Ji e Yin, 2014, 144). Assecondando la posizione del Partito, che sposa quella dei sostenitori del CVE in giro per il mondo, i due studiosi dicono che gli uiguri sono proni al terrorismo a causa dei loro sistemi sociali e culturali, insomma i due non riconoscono il ruolo giocato dalla brutalità poliziesca e dalla colonizzazione. In ogni caso, essi affermano che nell’antiterrorismo è centrale il passaggio agli “attacchi preventivi” sostenuti dai lavoratori civili dell’intelligence. Parola chiave di questo metodo, che Ji e Yin ripetono ben 58 volte nel giro di 12 pagine, è la “prevenzione” (预防).
Secondo la loro prospettiva, la prevenzione riguarda tre ambiti interdipendenti: la “prevenzione basata sull’attacco” (打击性预防), la prevenzione basata sul controllo (控制性预防) e la prevenzione basata sulla protezione (保护性预防). La prevenzione basata sull’attacco si riferisce al “controllo in tempo reale della popolazione ad alto rischio” (Ji e Yin 2016, 150) come per il caso di Gulbahar, vale a dire i sospetti terroristi di “ritorno” (回流). Agli uiguri che hanno vissuto all’estero in contesti a maggioranza mussulmana con l’accesso libero alle informazioni, e specialmente a quelli su cui ci sono evidenze di collegamenti con altri sospettati, bisogna applicare l’”attacco preventivo”. Una volta che il sospettato è preso in custodia, si passa alla “prevenzione basata sul controllo”. In questo ambito, ai sospettati su cui non ci sono prove o evidenze di intenzioni terroristiche viene applicato il “controllo” (控制) per ridurre la possibilità che commettano un crimine e per eliminare gli aspetti non “favorevoli” del loro comportamento e pensiero. La terza forma di prevenzione, quella “protettiva”, si riferisce alla prevenzione dal terrorismo potenziale tramite una generale opera di intelligence volta a intervenire nell’ideologia terrorista che cresce e si espande fra la popolazione.
In modo decisamente differente rispetto alle metodologie della controinsorgenza nel resto del mondo, tutta questa operazione di intelligence si svolge sia nella shequ (社区), un termine che si riferisce a una unità di controllo di vicinato diretta dallo Stato a livello urbano, sia nella brigata (大队) a livello di villaggio. Nel Xinjiang, la shequ è diretta principalmente da membri di Partito Han ma utilizza anche una polizia ausiliaria uigura e molti informatori volontari han mobilitati nella lotta contro il terrorismo tramite un sistema di raccolta di resoconti settimanali. Anche se la sorveglianza cinese delle comunità richiama la retorica dell’antiterrorismo euro-americano, Ji e Yin affermano che “il popolo” (人民) deve essere messo sotto pressione per fornire resoconti sui propri vicini al fine di riempire tutti gli spazi vuoti del sistema di raccolta delle informazioni dell’intelligence. In pratica, la sorveglianza di comunità si realizza andando alla ricerca dei 75 segni di “estremismo” (极端主义) nella pratica dell’Islam, dalla partecipazione alla moschea allo studio del Corano al semplice saluto di augurio Asalaam Alaykum (Buckley 2018; Greer 2018). Un’attenzione speciale è rivolta alle pratiche e alle conoscenze religiose non autorizzate, e alle relazioni con altri sospettati (Hunervan 2019). A differenza della controinsorgenza del resto del mondo, ogni unità di controllo gestita dallo Stato è supportata da “stazioni di polizia a convenienza del popolo” (便民警务站) che operano una sorveglianza “senza soluzione di continuità” dei mussulmani entro la propria area amministrativa tramite monitoraggio video, ricerca digitale, tracciamento biometrico e controllo delle persone per le attività politiche obbligatorie (Zhang 2016).
Quando Ji e Yin scrivevano il loro articolo nel 2016, i “campi di rieducazione” nel Xinjiang non erano stati ancora completamente costruiti e le vaste purghe di uiguri e kazaki non erano ancora iniziate. Meno di un anno dopo, Gulbahar e un milione e mezzo di altri mussulmani turcofoni sono stati spinti dentro il territorio della “prevenzione” e assoggettati alle sue forme di eliminazione sociale.
Il modello Xinjiang
Nel novembre del 2016, è comparso un nuovo articolo scritto da Wang Ding e Shan Dan, studiosi di una accademia di polizia del Xinjiang. Gli autori affermano che il modello di sorveglianza preventiva che gli altri teorici della sorveglianza hanno proposto deve essere adattato e formulato in un esplicito “modello Xinjiang” (新疆模式) che non solo cambierà la religione, ma porterà anche a una “profonda fusione” (深度融合) delle minoranze turcofone nella cultura cinese. Scrivono come questo nuovo modello combini il “modello militare della guerra” (战争模式) utilizzato dagli Stati Uniti con il “modello criminale” (犯罪模式) volto a sradicare le radici del terrorismo, vale a dire l’ideologia religiosa “estremista”. Questi due aspetti di sorveglianza preventiva si legano al “modello della governance” (治理模式) che è focalizzato sul “riportare l’ordine sociale alla normalità” (把社会秩序恢复到常态).
Ma cosa intendono esattamente i due autori per “normalità”? Scrivono: “nel mondo contemporaneo non c’è futuro per una religione senza ‘cultura’” (Wang e Shan 2016, 25). È per questo che dicono debba esserci un’accelerazione nella “profonda fusione” della cultura cinese nel Xinjiang, un processo che, ritengono, è il “tratto più distintivo del modello Xinjiang” di antiterrorismo. Affermano che tali approcci adattivi all’antiterrorismo sono necessari dato il particolare contesto del Xinjiang. Trattandosi di una zona di frontiera non ancora completamente abitata dalla popolazione han, la locale popolazione manca in generale di una integrazione di mercato.Ma il tema più profondo resta la religione che, come scrivono Wang e Shan, è un “problema di personalità” (个性问题). L’unico modo per farci i conti, scrivono, è essere risoluti nell’impedire che alle persone venga “lavato il cervello” (洗脑) da una religione che “non ha cultura” (没有文化). Ciò implica che siccome i mussulmani turcofoni mancano pericolosamente di “cultura”, un termine che si riferisce esplicitamente alla “cultura cinese”, è necessario accelerare la “profonda fusione” della cultura cinese nel Xinjiang.
Dal momento che l’Islam è così strutturalmente integrato allo stile di vita del Xinjiang, Wang e Shan sostengono che i mussulmani turcofoni devono disimparare ogni aspetto della propria vita. L’unico modo per arrivare a questo risultato è far partecipare a tale processo l’intera popolazione non mussulmana. Affermano che le persone che sono in possesso della cultura cinese devono “occupare le posizioni nell’opinione pubblica, nelle piattaforme culturali e nei social media” nella società del Xinjiang (Wang e Shan 2016, 26). Così scrivendo, intendono dire che i leader culturali uiguri devono essere sostituiti nel quadro di una completa realizzazione della colonizzazione (degli han). Solo allora “i fattori di instabilità saranno eliminati sul nascere”.
Quando Gulbahar Jelilova è stata attirata nel Xinjiang come sospetta “terrorista di ritorno” a metà del 2017, molto di ciò che questi studiosi hanno sostenuto era già stato reso operativo. Come per centinaia di migliaia di altre persone, è stata oggetto di un arresto da “attacco preventivo”. Da qui è stata spostata al “controllo preventivo” fino a che non è stata rilasciata in “prevenzione protettiva”. Anche se è stata trovata colpevole di essere solo uigura e mussulmana, il modello Xinjiang della controinsorgenza ha radicalmente rovesciato la sua vita.
Comunità come prigioni
Chi ha minore potere sociale subisce al massimo grado la guerra di controinsorgenza. In base ai ricercatori indipendenti dell’organizzazione Iraq Body Count, dal 2003 ci sono state quasi duecentomila vittime civili documentate in Iraq (IBC 2019). In Afghanistan, l’esercito statunitense e i suoi alleati hanno ucciso più civili dei talebani (Zucchino 2019).L’effetto a cascata di queste morti e la vasta frammentazione della vita sociale che è stata generata dalla sorveglianza e dagli spostamenti in questi spazi ha prodotto forme di violenza perchè ha rotto le reti sociali e separato famiglie. La pena dell’antiterrorismo ricade sulle future generazioni e attraversa le comunità (Al-Mohammad 2016).
Come hanno mostrato Arun Kundani e Ben Hayes (2018), in Europa e negli USA alle comunità mussulmane è stato chiesto di pagare il prezzo della violenza sociale collegata ai programmi di CVE. Famiglie, moschee, impiegati e docenti sono stati incaricati di controllare i propri amici, parenti e studenti come “pre-criminali”. Come in Cina, in Inghilterra l’estremismo è “descritto come un virus” e, contrariamente a ogni evidenza empirica, l’ideologia religiosa è considerata la prima causa della violenza (Kundani e Hayes 2018). Al posto di prendere in considerazione il ruolo strutturale della violenza, la colonizzazione e l’islamofobia istituzionalizzata, i mussulmani, specialmente quelli che praticano la propria fede in pubblico, sono visti come potenziali terroristi.
Eppure, nonostante le somiglianze, è importante sottolineare come nelle società liberali i diritti civili e la libertà di parola sono un argine all’implementazione delle detenzioni e delle uccisioni di massa extra giudiziarie. Non è il caso dell’Iraq e dell’Afghanistan. E non è il caso della Cina. Come un funzionario locale del Xinjiang ha detto recentemente, ciò che sta accadendo agli uiguri “non è collegato alla violazione dei diritti umani. Gli uiguri non hanno diritti” (ITV 2019).Questo modo di ragionare si situa in un quadro di interpretazione comune in Cina in merito ai diritti umani: i diritti umani significano il diritto della maggioranza han di essere libera dal terrorismo (Liu 2019).E ciò significa dunque che hanno il diritto di essere liberi dalla loro stessa paura dei mussulmani turcofoni, che è l’unico soggetto nel paese a essere inserito nel discorso del terrorismo.
La violenza che ha investito Gulbahar Jelilova è stata in parte attutita dal privilegio relativo di essere una cittadina kazaka. Senza questo, sarebbe ancora oggi sottoposta a qualche forma di detenzione come per altre centinaia di migliaia di persone. La discriminazione religiosa basata sull’etnia, l’intrusione nella privacy, la censura politica, le sparizioni, la detenzione senza processo e la mancanza di autonomia personale e collettiva sono istituzionalizzate nel Xinjiang. Per molti uiguri e kazaki non c’è una fine prevedibile alla loro detenzione. Le loro stesse comunità sono diventate le loro prigioni.
Traduzione di GioGo per Sinosfere*
**Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.