[A]gency […] resides in the power to produce and transform identities, to enter into an elaborate and complex system of symbols in such a way as to effect a transformation of identity, and a transformation of the system itself.
It is […] not in the reified or essentialised notions of an invariant […] ‘culture’ that we should look for the signs of historical agency, but in the constant reworkings and refashionings of it, its resignifications in the light of new contexts, that agency is best expressed.
“Quello della rinascita della civiltà a partire dalla periferia”, sostiene il filosofo di Harvard Tu Weiming 杜维明 (1940-), “incarna un leitmotiv della storia della Cina […] al punto da essere la periferia stessa a orientare l’agenda economica e culturale del centro, minandone così l’efficacia politica.” Se questa affermazione ben esemplifica le alterne vicende del periodo dinastico, essa pare valida a maggior ragione per quelle che segnarono il turbolento XX secolo. È infatti con l’ingresso del paese nel sistema dei moderni stati nazionali che la periferia divenne un importante terreno di battaglia per le campagne ideologiche di Kuomintang (KMT) e Partito Comunista (PCC), che nei loro instancabili tentativi di incorporare popolazioni e territori non-Han si fecero portavoce di diverse e contrastanti visioni della nazione cinese (zhonghua minzu 中华民族). Una delle argomentazioni usate da entrambe le fazioni a sostegno delle rispettive visioni inclusiviste riconosce un legame ancestrale e plurisecolare fra suddette popolazioni/territori e il tradizionale “centro di civilizzazione” identificato con la pianura alluvionale del Fiume Wei, nell’odierna provincia dello Shaanxi. Parallelamente, la convinzione che l’etnia possa assurgere a logica di inclusione ha esercitato un’influenza crescente sugli sviluppi del nazionalismo cinese della seconda metà del secolo, e da allora non smette di animare il dibattito accademico internazionale. Ma Rong 马戎 (1950-), ad esempio, sostiene che la Repubblica Popolare Cinese (RPC), anziché uno stato di più nazioni, deve essere propriamente intesa come una “società multietnica” (duo zuqun shehui 多族群社会), ergo l’esigenza di introdurre un neologismo (zuqun) per denotare le molteplici comunità etniche – ivi comprese quelle Han – che compongono la zhonghua minzu. Nonostante le raffinate distinzioni terminologiche, minzu è a tutt’oggi impiegato in maniera ambivalente indicando tanto le singole comunità che puntellano l’unità nazionale quanto la nazione nel suo complesso. A demolire queste argomentazioni è la teoria del “colonialismo continentale” secondo la quale le relazioni tra l’autorità centrale dello stato-partito e le minoranze di frontiera sarebbero scandite dall’espansione egemonica dell’uno a detrimento delle altre. Non mancano poi le riflessioni di coloro che, puntando i riflettori sugli insuccessi dell’edificazione socialista, denunciano quanto l’etnia, se troppo esasperata, sia meno uno strumento di integrazione che una fonte di conflitto. In ogni caso, la misura in cui l’integrazione sociale possa essere conseguita tramite l’esperienza della differenza è un tema sovente trascurato.
Il presente saggio documenta gli sforzi compiuti dal PCC per accogliere e gestire tale esperienza attraverso l’alterizzazione, l’esotizzazione e la femminizzazione delle culture minoritarie in una modalità che Louisa Schein ha battezzato “orientalismo interno.” L’analisi nasce dal presupposto che le rappresentazioni dell’alterità non sono il semplice esito di proiezioni nazionalistiche operate unilateralmente dallo stato-partito sulle culture in questione, ma dell’appropriazione volontaria di queste proiezioni da parte delle minoranze stesse che, sagomando un’immagine più appetibile della propria etnicità, mirano a conseguire un certo grado di partecipazione politica. Questa forma di etnicità che diremo “situazionale” è oltremodo evidente fra gli indigeni della Cina sud-occidentale che si sono acculturati ai costumi Han, e in seguito all’esecuzione del programma di classificazione etno-linguistica (minzu shibie 民族识别) avviato dal PCC negli anni 1950 hanno saputo abilmente (re)inventare le categorie identitarie ascrittegli per beneficiare di “trattamenti preferenziali” (youhui zhengce 优惠政策) che garantiscono loro accesso agevolato ad uffici pubblici e istruzione, il diritto di concepire più di un figlio, sussidi per l’occupazione, ed altri sgravi fiscali. A comprova di questa tesi, viene offerta una rassegna di casi studio sulle auto- e contro-rappresentazioni delle comunità Naxi e Bai dello Yunnan settentrionale. Particolare attenzione è rivolta alle politiche etniche e alle attività di tutela del patrimonio culturale, nonché al coinvolgimento di “quadri etnici” (minzu ganbu 民族干部) ed élite locali nei piani di ridimensionamento turistico.
1. Sul carattere agentivo dell’etnicità: Verso una nuova lettura di categorie e processi identitari
Le politiche etniche adottate nella RPC dal periodo delle riforme di Deng Xiaoping prescrivono il riconoscimento di diritti collettivi (jiti quanli 集体权利) a tutti quei gruppi minoritari che sono stati identificati durante il programma di minzu shibie, iniziato nei decenni formativi della repubblica e ufficialmente conclusosi nei primi anni 1980. Il dibattito in materia ha rimarcato l’impegno da parte di questi gruppi di tener fede a ciò che Fei Xiaotong 费孝通 (1910-2005) definisce il “principio d’unità nella diversità” (duoyuan yiti 多元一体) e soprattutto all’autorità suprema del PCC. Le rappresentazioni della diversità etnica correnti continuano a sottostare a questa meta-narrazione che se da un lato “verticalizza le identità”13) attribuendo presunta superiorità culturale alla maggioranza Han e affidando a essa un ruolo guida nel favorire la transizione dei suddetti gruppi verso la modernità socialista, dall’altro vede le identità minoritarie come funzionali a perpetuare il mito del pluralismo culturale cinese. Se è vero che il principio di unità formulato da Fei tende a sminuire quelle rappresentazioni della diversità che non si confanno alle direttive nazionali sancite dai vertici – ovvero, come sostiene Jenny Chio, tutti quei casi in cui “le minoranze cessano di comportarsi come tali per opporsi allo status quo” – è altrettanto vero che dipingere queste direttive meramente come il prodotto dello sciovinismo Han o di un nazionalismo xenofobo ed esclusivista non rende senz’altro giustizia alla complessità dei processi identitari in corso nelle periferie etniche del paese.
Sebbene la letteratura specialistica più recente abbia dimostrato quanto il risveglio nazionalista cinese registrato negli anni post-olimpici abbia fatto della diaspora delle minoranze etniche, in specie musulmane, una risorsa sempre più decisiva nella politica estera di Pechino e nella proiezione del suo soft-power, l’effetto creato dalla mobilitazione, per lo più compiacente, di gruppi minoritari all’interno del paese è un altro tema che rimane non di rado taciuto negli studi sul nazionalismo nella Cina contemporanea. Se in suolo straniero questi descrivono veri e propri gruppi di interesse capaci di influenzare le linee politiche degli stati in cui risiedono favorendo o ostacolando, a seconda dei casi, le attività del PCC, nel contesto nazionale – come spiega Tenzin Jinba nella sua indagine sulle tecniche di negoziazione adottate dai tibetani suopowa e gyarongwa del Sichuan occidentale – “si aggrapperebbero [invece] a [forme di] marginalità etnica per plasmare un’immagine più autentica del proprio capitale culturale […] e ribaltare [così] la posizione periferica cui sono stati relegati.” Questa condizione che Jinba chiama di “marginalità strategica innescherebbe cambiamenti positivi [in seno alla comunità] verso obiettivi politici prefissati.” Altri, gettando lo sguardo oltre l’inconciliabilità di fondo tra nazionalismo Han-centrico – a cui aderirebbe per principio la leadership comunista – e la virulenta retorica anti-cinese di certe minzu, inscrivono questi processi nel repertorio del cosiddetto “orientalismo autoreferenziale”20) che vedrebbe i gruppi più deboli con modesta o nulla visibilità internazionale reiterare categorie impostagli dall’alto, vanificando quindi ogni intento di alterare i rapporti di forza. Ciò si ravvisa in particolar modo in quelle comunità che, con l’affermarsi del modello neo-sviluppista tanto ostentato da Pechino, sono state travolte da un ingente flusso di investimenti e inserite in piani di valorizzazione paesaggistico-ambientale i quali, facendo leva su evocazioni nostalgiche della natura e la genuina primitività (yuan shengtai 原生态) delle sue “componenti antropiche”, capitalizzano sulle culture minoritarie per far decollare l’economia locale. A parere di Weng Naiqun 翁乃群 (1948-) e Liang Yongjia 梁永佳, questa tendenza avrebbe causato l’irreversibile (co)modificazione e feticizzazione delle tradizioni indigene, scatenando un’accesa competizione fra le varie minzu che, pur di strappare qualche finanziamento pubblico, farebbero a gara per rendersi il più “diverse” ed esotiche possibile. Altri ancora, senza tuttavia affrontare criticamente la questione dell’effettiva, scarsa o più spesso fantomatica autenticità delle narrazioni dal basso, hanno cercato di mettere in evidenza l’agentività di tali gruppi. Tra essi spicca Pan Jiao 潘蛟 (1954-) il cui lavoro, sorto come reazione alla tesi orientalista, si propone di illustrare quanto le costruzioni dell’identità etnica successive al riconoscimento di 56 minzu, lungi dall’essere un’imposizione inappellabile da parte dell’autorità statale, costituiscano piuttosto la somma di aspirazioni culturali, progetti nazionalistici e rivendicazioni promosse da una molteplicità di soggetti agenti proattivamente coinvolti.
A fronte di siffatti assunti metodologici, è doveroso pertanto porsi i seguenti interrogativi. Di queste aspirazioni, progetti e rivendicazioni quali contenuti vengono scartati? Quali vengono conservati e smussati nei toni per essere consegnati al grande pubblico? O prendendo a prestito il linguaggio di Schein: “quando sono le minoranze ad autorappresentarsi, cosa viene rimaneggiato e convalidato della cultura dominante?” È intorno a questi interrogativi che si collocano i casi studio sulle comunità Naxi di Lijiang e Bai della Prefettura Autonoma di Dali discussi nelle sezioni sottostanti.
2. Panoramica statistica sull’avanzamento dei quadri etnici
Secondo il censimento del novembre 2010, nonostante occupino appena l’8,49 % della popolazione complessiva della RPC, le 55 etnie minoritarie riconosciute si trovano distribuite su ben il 64,3 % del territorio nazionale, per il 90% nelle aree di frontiera. Ammontando a circa 113,79 milioni, corrispondono a un terzo dell’intera “popolazione indigena” del pianeta. Di questi sarebbero non meno di 2,9 milioni i membri dei vari gruppi minoritari che nel 2007 figuravano tra i ranghi del PCC con ruoli chiave nell’amministrazione locale, ai livelli regionale, prefetturale e di contea. Nel 2012, attraverso intense sessioni di formazione, il numero dei quadri appartenenti a questi gruppi avrebbe superato 5 milioni, l’equivalente del 6,6 % del totale dei tesserati al partito.26) Alcuni di essi hanno rivestito o rivestono tutt’ora massime funzioni dirigenziali all’interno del Politburo, come Hui Liangyu 回良玉 (1944-), “musulmano” Hui che ha ricoperto il ruolo di Vice Primo Ministro della RPC dal 2003 al 2013, e i mongoli Fu Ying 傅莹 (1953-) e Yang Jing 杨晶 (1953-), rispettivamente l’attuale Presidente del Comitato per gli Affari Esteri e il Segretario Generale del Consiglio di Stato nel quinquennio 2013-18. Altre personalità di rilievo cui sono state conferite nomine ministeriali comprendono: il Vice Segretario dell’Accademia di Scienze Sociali (CASS), Hao Shiyuan 郝时远 (1952-), marito di Fu ed anch’esso originario della Mongolia Interna; il Consigliere di Stato di etnia Tujia, Dai Bingguo 戴秉国 (1941-), rimasto in carica fino al marzo 2013 al fianco di Wen Jiabao; e l’ex Governatore della Regione Autonoma del Guangxi, Ma Biao 马飚 (1947-), membro della minoranza Zhuang. Inutile dire che esponenti della classe politica e quadri etnici con un background simile svolgono un ruolo cruciale nel facilitare le interazioni tra stato-partito e comunità locali.
3. I casi studio: Lijiang e Dali sul palco della modernità (post)-socialista
I casi che seguono sostanziano l’ipotesi, finora poco esplorata, per la quale l’agentività dei quadri amministrativi e dei membri dell’élite locale possa tradursi nell’uso strumentale di questi ultimi del proprio status di minzu, del proprio credo religioso e dell’alta reputazione di cui godono nella comunità di appartenenza per impartire, mantenere o consolidare direttive nazionali, non senza proteggere gli interessi della comunità stessa – una manovra politica a cui con una leggera vena di cinismo taluni, riferendosi in specie a piccole realtà rurali in transizione, hanno riservato l’epiteto “dal doppio volto.”
3.1. (A)simmetrie di genere e spettacolarizzazione dell’alterità Naxi
Un ottimo esempio di questo intreccio fra egemonia statale ed “agentività etnica” ci viene da una minoranza del ceppo tibeto-birmano, i Naxi, che al presente contano appena 326.295 individui. Contrariamente ad alcuni segmenti della popolazione turcofona uigura, tibetana e con meno frequenza mongola le cui istanze indipendentiste sono da sempre vivo oggetto di attenzione mediatica, il caso dei Naxi di Lijiang, come d’altro canto quello dei Bai illustrato nella sezione successiva, attesta che esiste un margine di negoziazione in materia d’identità etnica. Gli studi di Heather Peters, Su & Teo ed Emily Chao sui piani di sviluppo turistico e gli interventi di modernizzazione urbanistica di Lijiang suggeriscono che dopo il trentennio maoista (1949-76), la (ri)scoperta dello sciamanesimo Dongba e il mantenimento del patrimonio Naxi hanno dato impulso a “progetti di empowerment” volti ad accrescere il prestigio di gruppo, incrementare le rendite turistiche e cementare un’immagine della diversità etnica in linea con le articolazioni gerarchiche dell’apparato minzu.
Nell’ambito delle attività di promozione turistica di questa cittadina sulle pendici orientali della catena sub-himalayana e sito UNESCO dal gennaio 2008, l’autenticità Naxi viene esaltata come uno dei principali fattori di attrazione. Questa è non casualmente forzata entro dicotomie misogine che rinsaldano vecchie concezioni sinocentriche sull’incivilimento dei “barbari” e la loro assimilazione della più “evoluta” cultura Han. È con l’apertura di un nuovo aeroporto nel 1996 e il crescente afflusso di visitatori da tutto il mondo – 46,4 milioni quelli stimati nel 2018 – che la trama di queste rappresentazioni stereotipate ha cominciato a infittirsi e gli elementi dell’antico matriarcato Naxi, ritenuto estinto da almeno un paio di secoli, sono stati magicamente resuscitati e sottoposti a profonda rivisitazione. La figura dello sciamano Dongba che ai tempi della Rivoluzione Culturale (1966-76) personificava la “creduloneria feudale” (fengjian mixin 封建迷信) viene adesso innalzata come baluardo della saggezza popolare al pari dell’erudito confuciano, mentre il suo corrispettivo femminile, la Sanba, suscita associazioni negative congruenti con la mentalità patriarcale Han che vuole la donna sottomessa ed asservita. Significative divergenze di genere si riscontrano anche nel tasso di scolarità e nell’abbigliamento. Sono infatti quasi esclusivamente uomini i Naxi che parlano mandarino e vestono alla maniera Han. Al contrario, le anziane Naxi del posto sono di fatto analfabete, si esprimono nell’idioma locale e indossano abiti etnici. Sul solco di questo processo di gerarchizzazione e femminizzazione del “primitivismo culturale”, culti e pratiche rituali sono stati gradualmente riabilitati tramutando ciò che precedentemente all’avvio della politica di riforma e apertura era demonizzato come superstizione in “patrimonio culturale immateriale.” Il primo passo in questa direzione risale al maggio 1981, quando, per volontà dell’allora vice segretario del PCC, He Wanbao 和万宝 (d. 1996), è stato fondato l’Istituto di Ricerca sulla Cultura Dongba (Dongba Wenhua Yanjiuyuan 东巴文化研究院), estensione della sezione provinciale del CASS. Seguendo l’esempio di He, altri quadri Naxi si sono prodigati nell’opera di recupero, preservazione e traduzione dei testi sacri recitati dai Dongba (dongbajing 东巴经), anch’essi nella lista del patrimonio UNESCO. Alcuni, di concerto con il suddetto istituto e alcuni enti privati per lo sviluppo territoriale, come il Jade Dragon Mountain Tourism Development, si sono offerti di condurre complessi cerimoniali, noti sotto il nome di shugu 署古, per ammansire gli spiriti delle montagne durante i lavori per la rete funiviaria.
Anche i residenti sono consapevoli della natura teatrale di queste rappresentazioni idealizzate del proprio passato e spesso ne partecipano attivamente alla messa in scena attraverso formule e modi che, a detta di molti, hanno trasformato Lijiang in un enorme parco tematico. Esibizioni coreografiche, sarabande, canti e balletti, come la danza circolare (datiao 打跳) che viene eseguita con cadenza regolare in buona parte dalle donne nella piazza del centro storico (sifangjie 四方街), contribuiscono a “museizzare” le tradizioni indigene confezionandole per il consumo turistico (vedi il seguente esempio di Danza circolare Naxi nel breve video qui disponibile girato dall’autore a gennaio 2012). La parodia “Impression Lijiang” che, ideata dall’arcipremiato cineasta Zhang Yimou 张艺谋 (1950-), vede centinaia di residenti inscenare l’immaginario della vita rurale Naxi sullo sfondo del massiccio innevato della Montagna del Dragone di Giada a un’altezza mozzafiato di 3100 metri, ne è la più sublime manifestazione. Nel 2018, l’insieme di queste iniziative avrebbe generato un profitto massimo pari a 99,845 miliardi di RMB. Si prevede che la recentissima linea ferroviaria rapida che collega la cittadina con il capoluogo di provincia, Kunming, consentirà di incrementare ancor più le rendite negli anni a venire.
3.2. L’Identità Bai dalla tradizione rurale Han al revivalismo ‘benzvtista’
Le vicende della comunità Bai che ci accingiamo a considerare sono ulteriore dimostrazione che processi di costruzione identitaria e relazioni etniche non sono necessariamente di natura contrastiva e che piccoli gruppi minoritari, anziché respingere etichette loro affibbiategli, possono scegliere di manipolarle per perseguire i propri fini. Il caso dei Bai, la cui popolazione censita ammonta a 1.933.510 ed è insediata per la maggior parte sulla Piana di Dali, lungo le sponde del Lago Er’hai a un centinaio di chilometri a sud di Lijiang, delinea processi diametralmente opposti a quelli sintetizzati nella sezione precedente. Se infatti la “tradizione reinventata”41) dai Naxi attesta la graduale interiorizzazione di categorie, usi e costumi tipici degli Han, quella Bai è invece il frutto di un acculturamento di segno inverso, ossia dalla cultura dominante a una minoritaria.
Quando nel 1958 venne compilata una lista preliminare dei gruppi etnici nazionali, Bai era un etnonimo del tutto ignoto sia ai membri della omonima minoranza che ai loro connazionali cinesi dello Yunnan. In precedenza, gli autonimi più frequenti erano baini 白尼 e baihuo 白伙, e già nei primi studi pubblicati a ridosso della fondazione della RPC da antropologi allineati al KMT si era convenuto che gli odierni Bai erano i discendenti delle antiche tribù baiman 白蛮 (lit. barbari bianchi) delle fonti Tang che a partire dal Regno di Dali (937-1253) si erano assimilate agli Han. “Le uniche differenze che si possono rilevare”, rimarcava Rui Yi-fu 芮逸夫 (1898-1991) nel 1953, “riguardano i riti funebri e alcune varianti dialettali” (白蠻亦頗受漢化 […],惟除喪葬之俗及少數語言外,大都已無法分辨). L’anno successivo il PCC istituì un team di 46 esperti con a capo Lin Yaohua 林耀华 (1910-2000) per accertare le loro origini e quelle di altre 20 minoranze della provincia. Con gran sorpresa, si scoprì che il mito di una remota discendenza dalla Cina centrale era piuttosto radicato fra le genti della piana, e anche che molte altre etnie sparse entro i confini provinciali rivendicavano una simile discendenza. Si assodò che i Bai erano figli dei cosiddetti minjia 民家, un termine apparso nell’epoca Ming (1368-1644) per distinguere gli autoctoni da un contingente di coloni Han che erano stati lì trapiantati. Coloro che vivevano all’interno degli insediamenti minjia erano così tipicamente Han che fino a quasi l’inizio degli anni 1970 si reputava che il loro sistema di parentela e credenze ancestrali – come delineato da Francis L. K. Hsu 徐烺光 (1909-99) nel suo celebre resoconto etnografico su Xizhou (喜洲) – esemplificasse più compiutamente la società e cultura rurale cinese di quegli anni. Nelle parole dello stesso Hsu, “la cittadella, con al suo interno la sede distrettuale e alcuni villaggi satellite, ospita una delle più note colonie minjia dello Yunnan. Gli abitanti di Xizhou e ben otto dei nove villaggi limitrofi insistono sulle proprie origini cinesi. La leggenda che sono soliti narrare specifica che i loro antenati raggiunsero lo Yunnan dalla Cina centrale. La località comunemente individuata come terra d’origine è Nanjing. […] Alcune genealogie sostengono che sia la provincia di Anhui. […] Sono tutti talmente gelosi di questa loro discendenza che si mostrano irritati ogni qualvolta vengono espressi pareri discordi.”
Cionondimeno, numerosi aspetti del folklore, incluse manifestazioni della religiosità popolare, canti e danze rituali, opere architettoniche e componenti del paesaggio, vengono (ri)qualificati con l’attributo Bai non senza provocare lo sgomento di parte della popolazione. Scrive in merito David Y. H. Wu 吴燕和 (1940-),“le famiglie Han sono assai scontente di queste nuove forme di discriminazione etnica. […] Gli abitanti dei villaggi classificati come Han si risentono per il trattamento di favore concesso ad alcuni dei loro compaesani che fino a [qualche] anno fa non avevano niente a che vedere con quell’essenza minoritaria che è ora appannaggio dei Bai i quali sono i soli a goderne i privilegi.” Questi risentimenti non appaiono certo infondati quando raffrontati alle pretenziose richieste di intellettuali e quadri etnici di servizio presso l’Ufficio Culturale della Prefettura Autonoma di Dali che si sono addirittura spinti a elevare il festival gwer sa la (raosanling 绕三灵) e i culti dei patroni benzvt (benzhu 本主) a nuovo movimento religioso alla stregua di buddismo, taoismo e monoteismi abramici sanzionati dallo stato.51) Nel maggio 2006, il festival è entrato nell’elenco del patrimonio immateriale nazionale, e dopo anni di pressioni da parte delle élite Bai, nel 2009 il governo locale ha sottoposto una proposta al Ministero della Cultura con la quale se ne chiedeva la candidatura all’UNESCO. Sebbene nel novembre 2011 la domanda sia stata respinta, i dati indicano che dal momento in cui venne inoltrata la candidatura ad oggi Dali ha registrato un incremento dei flussi turistici del 2% solo per i giorni in cui si tengono le celebrazioni, e un PIL complessivo di circa 1,1 miliardi di RMB. Ciò conferma quanto il coordinamento tra gruppi minoritari in posizioni di potere e le autorità statali a vari livelli sia precondizione non solo per il risveglio della religiosità popolare ma anche e soprattutto per massimizzare, tramite l’adeguamento delle tradizioni indigene, l’impatto economico dell’attività turistica.
Conclusioni
Questa sommaria rassegna di casi studio sulle comunità Naxi e Bai dello Yunnan invita a una riconsiderazione della posizionalità dei soggetti coinvolti nella produzione e rappresentazione dell’identità etnica. Ed è unicamente da un esame critico della (multi)posizionalità che possiamo trovare le risposte al quesito di partenza in merito a come le minoranze, oscillando tra alterizzazione e auto-alterizzazione, rappresentano sé stesse. Se è indubbio che per buona parte della storia dinastica e moderna il paradigma centro-periferie ha avuto il sopravvento su ogni altra modalità di rappresentazione dell’identità etnica al punto da essere assurto a criterio assoluto di giudizio sul “grado di civilizzazione” delle minoranze indigene, l’idea che persista oggigiorno un nucleo politico a trazione Han che capitalizza sulla cultura dominante di cui questi sono espressione per espletare la sua “missione civilizzatrice” nelle zone di frontiera più arretrate del paese, poco si presta a descrivere la situazione riassunta dai casi sopra trattati in cui processi di alterizzazione ed agentività etnica risultano saldamente interconnessi l’uno all’altro. Che siano le proiezioni egemoniche dello stato-partito a fabbricare identità periferiche incastonandole nella rubrica dell’unità nazionale, o che sia al contrario l’élite culturale-religiosa a esoticizzare più o meno intenzionalmente le tradizioni per meglio adeguarle a tali proiezioni, non esclude pur sempre la possibilità – contradditoria ma non per questo improbabile – che quest’ultima sia al contempo passiva recipiente di una “soggettività alterizzata” sovraimposta e produttrice attiva di quelle stesse forze che la relegano ai margini del discorso sull’unità nazionale. Alla luce di queste considerazioni, reputo quindi inutile e pure controproducente arrovellarsi sulle dinamiche di relazione fra centro-periferie e stato-minoranze ignorando la posizionalità dei soggetti che in realtà è la vera sostanza dell’identità etnica, di per sé situazionale, performativa e reversibile. Scansare la questione rischierebbe di eternare quell’insieme di antagonismi e tassonomie dicotomiche che ostacolano lo sviluppo di una società idealmente priva di conflitti etnici. Ci rammenta a riguardo Günther Schlee che “l’etnicità non è causa di conflitto, bensì […] uno strumento di mobilitazione e integrazione sociale [che malgrado] emerga o acquisisca nuove sembianze e funzioni nel corso di conflitti”, spesso funge da “ponte istituzionale” fra gruppi che passano da un contenitore culturale all’altro, da un’appartenenza all’altra, da uno spazio di confine all’altro.
Le strategie adottate dalle minoranze Naxi e Bai sono testimonianza lampante di quanto non esista una narrazione omogenea e coerente sulla partecipazione delle singole minzu al progetto di modernizzazione (post)- socialista cinese. I leader delle comunità etniche, quadri di partito, istituzioni religiose e culturali, e non ultima gli studiosi di scienze sociali chiamati a elaborare, implementare e supervisionare le politiche etniche contribuiscono tutti a forgiare una narrazione “parallela” fatta di negoziazioni, spazi di raccordo e concessioni occasionali, la quale rinsalda e completa quella creata a livello centrale. Non sussiste pertanto una narrazione univoca e lineare che, calata dall’alto in modo programmatico, occulta iniziative affermatesi localmente, ma piuttosto una che di esse si alimenta ed espande a loro scapito. Ammesso che siffatte iniziative non divergano dal discorso ufficiale, e i vari gruppi minoritari assurti a simbolo della sua diversità intrinseca continuino a comportarsi nel modo dovuto – ovvero non sfregino gerarchie territoriali, equilibri di potere e rapporti di forza consolidati – (re)inventare l’autenticità di tradizioni, istanze e categorie identitarie – autoreferenziali o infuse dall’esterno che siano – rimane per il momento l’unica “arma” nelle mani di questi gruppi per intervenire sulle politiche etniche senza venirne inghiottiti. Che poi ciò riesca o meno a dare un reale slancio al moto di emancipazione politica e sociale delle comunità in questione, sarà il tempo a deciderlo. Come sarà, d’altro canto, soltanto il tempo a decidere se la periferia saprà portare ancora una volta quella ventata di rinnovamento di cui tanto parla Tu Weiming e da cui rinascerebbe la civiltà in tutto il suo vigore.
[QUI PER LEGGERE L’ORIGINALE]Di Tommasso Previato per Sinosfere*
**Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.