Sinosfere – Olimpiadi: La cerimonia come strumento di costruzione di un’identità nazionale

In Cina, Economia, Politica e Società by Redazione

Da quando la Cina è stata ammessa nel WTO e si è imposta come potenza mondiale, circostanze come le Olimpiadi sono diventate un’occasione cruciale per ostentare un riscatto morale ed economico, ma anche per affermare la propria rilevanza, ancor di più se si considera che proprio i XXIX Giochi ospitati dalla Cina (Pechino 2008) sono stati visti come la presentazione ufficiale della “nuova” Cina al mondo intero. Va da sé che il cerimoniale che accompagna queste occasioni sia altrettanto fondamentale per esprimere e rafforzare l’identità della nazione

 

I Giochi della XXXII Olimpiade (Tokyo 2020), da poco terminati, ricordano non solo quanto l’orgoglio nazionale possa essere periodicamente riacceso da eventi simili, ma anche che le cerimonie sono l’essenziale complemento di tutte le attività legate al concetto stesso di “nazione”. Come da due decenni a questa parte, anche l’ultima edizione dei giochi olimpici, rimandata di un anno per i motivi noti a tutti, ha visto la Cina protagonista di una spasmodica caccia al numero più alto di ori e questioni spinose come la malcelata insofferenza per la presenza della rappresentanza della “provincia” ribelle, il cui nome “olimpico” è stato cambiato da Taiwan a “Taipei cinese”.

Da quando la Cina è stata ammessa nel WTO e si è imposta come potenza mondiale, circostanze come le Olimpiadi sono diventate un’occasione cruciale per ostentare un riscatto morale ed economico, ma anche per affermare la propria rilevanza, ancor di più se si considera che proprio i XXIX Giochi ospitati dalla Cina (Pechino 2008) sono stati visti come la presentazione ufficiale della “nuova” Cina al mondo intero. Va da sé che il cerimoniale che accompagna queste occasioni sia altrettanto fondamentale per esprimere e rafforzare l’identità della nazione. Il concetto stesso di identità nazionale è però tanto generico quanto artificiale, perché costruito a tavolino e fondato su un lavoro minuzioso (e brutale) di omissioni e in ultimo eliminazione di tutto ciò che, restituendo l’aspetto variegato – dunque reale e plausibile – di un paese enorme come la Cina, contraddice la volontà di dare di esso un’immagine coesa e omogenea dal punto di vista culturale, rappresentando di fatto (quella che è percepita come) una minaccia all’unità politica.

Uno degli aspetti che più affascina chi si cimenta nello studio della lingua e della cultura cinesi è il nome stesso della Cina in mandarino – Zhongguo 中国, paese del centro. Chi trasmette questa informazione può spiegare quale parola/carattere indichi cosa – zhong 中 è centro, guo 国 è paese – ma incontra qualche difficoltà a chiarire il concetto di centro in modo esaustivo. Cos’è questo centro? È una nozione geografica, culturale o entrambe le cose? In modo forse poco concreto ma più romantico, vorrei suggerire che il centro è un palcoscenico: nucleo di una civiltà al momento della sua formazione – quello in cui essa diviene consapevole di sé e di ciò che è diverso da sé. Come un bambino che si riconosca per la prima volta allo specchio e inizi a processare intellettualmente la soluzione di continuità tra sé e gli altri, così un territorio si configura come civiltà unitaria e compatta quando inizia a riconoscere una ben definita differenza con tutto ciò che non fa parte di esso, che si trova quindi ai margini (di nuovo, geografici, culturali o entrambe le cose). Questo processo non è mai indolore e mette in moto meccanismi che nel caso della Cina continuano a evolversi e mutare a seconda delle contingenze storiche, determinando a loro volta nuove circostanze storiche.

Proprio perché l’identità, in particolare quella collettiva, non è un dato acquisito una volta per tutte, ma un processo precario e dinamico da costruire, convalidare, confermare e aggiornare di volta in volta, sin da tempi remoti si è reso necessario stabilire specifici codici di comportamento e una serie di gesti simbolici che coinvolgessero tutta la popolazione o i rappresentanti di essa. È quasi superfluo ricordare che in Cina suddetti codici e gesti hanno preso il nome di “rito” o li 礼. L’importanza del rito è data non tanto dalla sua funzione normativa – che è prerogativa della legge – ma dalla sua capacità di evocare e materializzare ciò che è intangibile e ineffabile, ovvero quello che ricade nella sfera del simbolico e riesce a convogliare valori condivisi che concorrono a generare il senso di appartenenza premessa per l’insorgenza di qualsiasi popolo e della sua cultura. Gli stessi riti in Cina hanno dato vita a un rigido sistema di validazione dell’appartenenza a un universo culturale di cui si riscontra la consapevolezza ben prima della fondazione della dinastia Han. In altre parole, solo chi accettava di conformarsi ai riti prescritti poteva dirsi legittimo appartenente del Regno di Mezzo: un cinese era tale perché riconosceva la necessità dei riti e li metteva in pratica. Precisazioni come queste possono apparire superflue ma ci consentono di fissare alcuni concetti cruciali ai fini di questa trattazione: il primo di questi è la condivisione. Un rito non può avere alcun impatto sul consolidamento dell’identità collettiva a meno che non sia condiviso, o quantomeno che la sua importanza e significato siano condivisi e riconosciuti collettivamente. Un rito può essere fruito attraverso una cerimonia che ne esalta la dimensione collettiva (quello che oggi viene chiamata “sfera pubblica”).

I suddetti termini acquistano una nuova valenza se traslati nel mondo moderno che ha visto la rivoluzione della fotografia nell’“epoca della riproducibilità tecnica”, per usare la famosa definizione di Walter Benjamin. Forse sarebbe ancora più corretto dire che fotografia, cinema e televisione hanno interagito con la componente performativa insita nel rituale e che la sinergia derivante ha coadiuvato la costruzione e il rafforzamento dell’identità nazionale. Il concetto stesso di “nazione” in senso moderno emerge quasi contemporaneamente alla fotografia (non a caso entrambe sono sorelle dell’industrializzazione), a suggerire che qualcosa di così astratto non possa esistere senza una sufficiente produzione di prove: una nazione ha bisogno di testimonianze a sostegno della sua stessa esistenza. In fondo entrambi sono manufatti culturali. Eppure, nel suo celeberrimo studio sulla nazione come comunità immaginata, Benedict Anderson afferma qualcosa che è (solo apparentemente) in contraddizione con questo bisogno di prove: la premessa per l’esistenza di una nazione non consiste nel fatto che i suoi membri si conoscano a vicenda; perché la nazione sia possibile è richiesto solo uno sforzo di immaginazione (immaginarsi parte di una più ampia comunità) e la fiducia nell’esistenza dell’entità in oggetto – la comunità stessa. Insomma si chiede loro di compiere un atto di fede: devono credere all’esistenza di ciò che non possono vedere o toccare, ma che esiste nel momento in cui anche altri vi credono. E difatti, secondo Anderson la nazione è anche parente stretta, se non erede, della religione, come il ricco coté di riti e cerimonie che accomuna entrambe sembrerebbe confermare.8) Se queste riflessioni possono distrarre dallo specifico oggetto d’indagine, esse sono indispensabili per fare luce sulla sua natura, effimera come l’immagine, tanto più se in movimento, e immateriale come la fede.

Da quanto detto finora si possono trarre alcune conclusioni utili a proseguire e ampliare l’analisi: se la consapevolezza del rito e del cerimoniale che lo accompagna sono necessari a forgiare il senso di appartenenza e a consolidare la coesione sociale, la concreta conoscenza di essi avviene in un arco di tempo relativamente lungo e si diffonde in un secondo momento tra la popolazione, in una forma di contagio discreto e progressivo. L’avvento dell’immagine fotografica, e con essa di ciò che è noto come “pubblicità”, ha inevitabilmente contribuito ad accelerare e consolidare la conoscenza e la consapevolezza della comunità (o nazione) che condivide il rito e il cerimoniale a questo associato. L’apice di un simile processo si raggiunge con la simultaneità che le tecnologie più recenti garantiscono e ha il potere di rafforzare in modo esponenziale l’esperienza di condivisione in virtù del valore aggiunto del qui e ora (non solo assisto allo spettacolo ma lo faccio mentre esso ha luogo e insieme a una moltitudine di persone), ma soprattutto del numero potenzialmente infinito di spettatori, erroneamente definiti virtuali, che raggiunge. In anni recenti, l’esempio perfetto e culmine del meccanismo appena descritto è stato rappresentato dalla già citata cerimonia di apertura di Beijing 2008, la XXVIII edizione dei Giochi Olimpici ospitata dalla Cina. La cerimonia e i suoi “coreografi” hanno innestato con successo, fondendoli, il rituale cinese tradizionale e la sua portata simbolica in quel rituale globale ante litteram che le Olimpiadi rappresentano.9) A sancire l’epocale portata simbolica dell’avvenimento, la scelta di affidare la direzione artistica della cerimonia a Zhang Yimou, il regista cinese nel mondo; Ai Weiwei, insieme allo studio svizzero Herzog & de Meuron, ha vinto il progetto per il nuovo stadio, il famoso “nido d’uccello” niǎocháo 鸟巢, nel settore nord-orientale di Pechino; all’artista Cai Guoqiang, noto per aver saputo incorporare nella sua ricerca concettuale l’arte cinese più spettacolare di tutte (i fuochi d’artificio), è stata commissionata la coreografia pirotecnica della cerimonia.

In quella specifica fase del suo cammino verso la modernizzazione e in vista di un evento globale di tale portata, la Cina ha fatto ricorso a figure di artisti e intellettuali che per la loro esperienza internazionale avevano già pronto un “pacchetto” informativo, un codice di fruizione culturale che potesse risultare efficace nel trasmettere il messaggio che la cerimonia doveva veicolare grazie al sapiente ricorso a simboli e immagini (quello che alcuni chiamerebbero “luoghi comuni”) che potessero risuonare nella mente e nell’immaginario dello spettatore medio non-cinese e risultare sufficientemente esotici e al tempo stesso vagamente familiari, in un’operazione che si potrebbe definire “auto-orientalista”. Come se si trattasse di un matrimonio in cui portare qualcosa di cinese, qualcosa di nuovo e qualcosa d’internazionale. La grandiosa coreografia di Zhang, che è un trionfo di sincronia funzionale a evocare la nozione di coesione e armonia sociale così centrali nel discorso politico degli ultimi venti anni, sembra rendere omaggio alla propria filmografia almeno quanto lo rende alla cultura cinese, integrando sapientemente immaginari ed epoche diverse: diverse “Cine” che in ultimo vengono riunificate sotto lo sguardo benevolo di Hu Jintao. Le schiere di figuranti che battono i tamburi all’unisono, o le centinaia di comparse vestite come dignitari di corte intenti a celebrare riti confuciani (in una forma di rito nel rito o meta-rito), sono esercito e massa. Il pubblico (il “popolo”) all’interno dello stadio diventa anch’esso figurante e con il suo boato di stupore segnala i momenti topici della cerimonia (e highlight della cultura cinese) ai più o meno consapevoli spettatori di tutto il mondo. Voli di apsaras umane intorno agli anelli olimpici luminescenti o danza di ballerini/pittori su gigantesco rotolo interattivo a parte, una delle immagini che mi colpisce come rivelatoria e sfuggente al tempo stesso – forse perché scontata agli occhi dello spettatore medio cinese, ammesso che qualcosa del genere esista – è quella dei variopinti gruppi di rappresentanti delle minoranze etniche presentati, o meglio inquadrati, nella fase iniziale della cerimonia, nel momento in cui risuona l’inno nazionale. Non si può dire che siano parte della scenografia o accessorio decorativo, ma nella loro immobilità non hanno l’autonomia di attori o figuranti. Cosa sono allora? Secondo me sono a tutti gli effetti un’affermazione e un’effige della capacità della nazione di riunire e al tempo stesso annullare le differenze.

È evidente che anche un simile cerimoniale è legato alla necessità di autoaffermazione nazionale. Ma se ogni cerimonia è uno spettacolo organizzato con un preciso intento e comporta un investimento di risorse mentali ed economiche, non tutti gli spettacoli sono cerimonie. Questo perché la cerimonia ha una finalità, o un insieme di finalità, che vanno ben oltre l’obiettivo di intrattenere. Il tipo di profitto che la cerimonia genera è più simile a quello di un investimento a lungo termine: crea coesione e adesione a un ideale condiviso, molte volte lo genera sul momento o lo rinforza. Altre volte, sancisce la fine di un’esistenza mostrandola nella sua veste più fastosa, proprio come avviene durante i funerali. Il maoismo più di altre correnti politiche (ed epoche storiche) ha incorporato l’esigenza del cerimoniale nella sua attività di propaganda, innestando nuovi significati e messaggi in quello che era il tradizionale apparato di corte, in modo ancora più efficace data la mobilitazione dei mezzi d’informazione a questo scopo. Se si osserva ad esempio il lungo preludio e l’ancor più lungo finale del film musicale (“song and dance epic”) The East is Red (1965), si noterà la presenza, proprio come nella cerimonia di apertura di Pechino 2008, di una parata di minoranze presentate nella loro colorata non-conformità. Quella parata di circa dieci minuti ricorda la teoria di rappresentanti delle minoranze etniche convocati ogni anno in occasione della riunione dell’Assemblea Nazionale del Popolo o Congresso Nazionale dei Rappresentanti del Popolo, anzi a ben guardare non ne è altro che la versione melodrammatica, condividendone premesse e finalità: ma se le premesse sono evidenti – mostrare il trionfo della Cina maoista nel riunire e conciliare gli elementi allogeni sotto un ideale indiscutibilmente superiore – quali sono le finalità di un simile cerimoniale? La finalità principale mi sembra essere quella di presentare il Zhonghua Renmin 中华人民 come un’unica, uniforme entità, nonostante alcune trascurabili discrepanze relegate a una mera questione “estetica”. Inoltre, affidare il messaggio di liberazione ed emancipazione – non solo dal giogo giapponese e nazionalista, ma anche dalle “catene di ferro” di credenze superstiziose (la religione) e usanze arretrate – a genti non-Han che ancora si faceva fatica a percepire (e che facevano esse stesse fatica percepirsi) cinesi, equivale a un’investitura o a quello che per i cattolici è il battesimo: rifiutare il “peccato originale” che in questo caso è la colpevole indifferenza nei confronti dei nemici della Repubblica. La varietà di costumi e linguaggi serve anche a suggerire la vastità del paese, ed è quindi fonte d’orgoglio. Almeno fino a quando non lo è più.

Un simile spettacolo, meno nobile delle sue premesse, ricorda il sinistro cerimoniale che nella storia si è ripetuto più volte in contesti anche molti diversi tra loro:  le parate di prigionieri di guerra fatti sfilare davanti alle folle per celebrare una vittoria; ma mette in scena anche un malinconico commiato, come quello degli attori che a fine spettacolo tornano per congedarsi dal pubblico, e sancisce l’imminente sparizione di coloro che sta presentando.

Un’attrazione di Disneyland, tempio dell’intrattenimento e potente propagatore della cultura popolare americana, ricorda la stessa retorica apparentemente benevola delle parate cinesi di minoranze: si tratta di It’s a small world – celebrata da Disney come “la crociera più felice che sia mai salpata” – e racchiude in una “dark ride” acquatica di pochi minuti, raffigurati attraverso diorami e animatronic colorati, una versione infantile e fiabesca tutti i luoghi e i popoli del mondo. Il visitatore di It’s a small world, presente in tutti i parchi a tema di Disney tranne (non a caso) Disneyland Shanghai, viaggerà idealmente attraverso i cinque continenti, incontrandone gli abitanti – sconcertanti bambolotti dalle fattezze identiche, diversi solo nell’abbigliamento e nel colore della pelle. Diversa da Las Vegas e dai parchi a tema per i viaggiatori che vogliono “scoprire” il mondo – o almeno una rassicurante versione di esso – senza il bisogno di avventurarsi fuori dai confini del proprio paese, l’operazione dietro It’s a small world nasce da premesse simili o meglio le anticipa, fornendo la rappresentazione simbolica di un mondo raccontato da e racchiuso in un unico punto di vista, e diventando così una smaccata rivendicazione del potere stesso di rappresentazione.

Tornando al Governo cinese e alla precisione con cui elenca le 56 minoranze etniche comprese entro il suo territorio, si può suggerire che la tassonomia serva ad avere una conoscenza migliore di un dato fenomeno; alla conoscenza segue il controllo; al controllo la repressione. Tra una fase e l’altra è necessario manifestare tutta la solidarietà per i popoli che si sta minacciando di estinzione, mostrando nei loro confronti tutte le migliori intenzioni, anche se di fatto non è chiaro quali esse siano. Il tema è più che mai attuale. Si hanno infiniti esempi di contesti in cui minoranze, dopo sanguinosi conflitti, espropriazioni e veri e propri massacri, sono state emarginate in riserve e ridotti a feticcio culturale a uso e consumo dell’industria turistica. Come a dire: puoi ostentare (e annientare) solo quello che possiedi. Sarebbe però sbagliato riassumere in modo univoco l’attitudine ufficiale nei confronti delle minoranze, e bisogna riconoscere che un aspetto fondamentale in larga parte inesplorato è la paura complementare all’ammirazione, nonché fascinazione, per esse: la vera e propria spinta verso l’altro “vicino” ma non per questo meno misterioso, anzi forse proprio per questo ancora più ineffabile, che scrittori, musicisti e registi hanno mostrato per buona parte del XX secolo e mostrano ancora adesso. D’altra parte Levinas associa l’altro sociale (che diventa automaticamente l’altro etnico, politico e religioso) all’alterità radicale e spaventosa rappresentata dalla morte, o meglio dal pensiero della morte.

È proprio da film e romanzi che spesso si ricava una storia non ufficiale delle minoranze e trapela quella che è la difficile dialettica tra poli contrapposti: centro-periferia (o città-campagna), unità e frammentazione, politica e storia (o presente-passato). Nel film Terra Gialla (Chen Kaige, 1984), espressione del movimento letterario del “ritorno alle radici”, il “ritorno” del soldato Gu Qing – membro della famosa Ottava Armata della Strada, cui era affidato il compito di codificare e diffondere la propaganda comunista – non è frutto di un moto interiore, ma una missione militare per educare i contadini di remote regioni ai precetti maoisti, con il vero obiettivo di raccoglierne le antiche melodie intonate durante riti e cerimonie, e abbinarle a nuovi testi di significato politico e intento celebrativo. Un’operazione all’apparenza pacifica, che richiama alla memoria il presunto pacifismo dei missionari europei, ma che evoca soprattutto la genesi dello ShiJing, Classico della Poesia, una raccolta di canti popolari, canti festivi, inni ed eulogie risalenti alla dinastia dei Zhou Occidentali (X-VII secolo a.C.), quando il concetto di minoranza etnica era ancora molto di là da venire, ma quello di coesione attraverso il controllo (del sistema di valori delle popolazioni “periferiche”) già ben presente. Nel monumentale La Montagna dell’Anima (1990), Gao Xingjian descrive un viaggio nel cuore di tenebra della Cina minacciata dall’urbanizzazione selvaggia, e l’incontro con esponenti di antiche tribù ormai quasi del tutto estinte insieme a oggetti, rituali, lingua e genealogie andate distrutte durante la Rivoluzione Culturale. Più recentemente, la regista Cao Jinling ha presentato il suo primo lungometraggio Anima (Mo Er Dao Ga莫尔道嘎), ambientato nella steppa della Mongolia Interna al confine con la Siberia, alcuni dei cui protagonisti sono gli sparuti esponenti della minoranza Ewenki che abita quel territorio. Il titolo inglese allude al culto animistico praticato dalle popolazioni dell’area remota eppure sfruttata come riserva inesauribile di legname; il film stesso può essere interpretato come allegoria dell’ambiguo rapporto esistente tra la minoranza in oggetto e gli Han (il protagonista adottato ancora in fasce da una famiglia Ewenki ha le fattezze di un piccolo Han come nota la madre adottiva). A chi si identifica con i valori espressi dalla maggioranza, invisibili come l’aria che si respira e come l’ideologia, le usanze di queste minoranze risultano tanto affascinanti quanto spaventose, tanto più perché sembrano evocare un passato remoto in cui la Cina non era ancora Cina.

Finora ho parlato di film e televisione come ambiti (relativamente) nuovi di costruzione ed esposizione di un cerimoniale funzionale a consolidare il senso di nazione e appartenenza nazionale. Se da una nozione principalmente metaforica di cerimoniale si passa a una più letterale, si potrà notare che quella tra la Cina e le cerimonie di inaugurazione o premiazione è una storia d’amore che non mostra segni di cedimento, ma che al contrario appare più che mai solida. L’affermazione di Marc Augé secondo cui “la forma del rito è la ripetizione, ma la sua finalità è l’inaugurazione, l’aprirsi al tempo, al nuovo”, appare perfetta per un paese come la Cina, ossessionata dal nuovo e dalla necessità di voltare periodicamente pagina creando di volta in volta un nuovo tempo, attraverso piani di riforma. Dal lancio sul mercato di un nuovo prodotto (o una nuova legge), a una premiazione o all’apertura di una mostra d’arte, quando si tratta di inaugurazioni in Cina non si bada a spese, perché si tratta di una forma simbolica di legittimazione spesso sancita dalla presenza di un’autorevole (in qualsivoglia campo) figura internazionale. La cerimonia stessa in fondo non è che uno strumento di adulazione del potere: durante il suo svolgimento non può mancare qualcuno da ringraziare e celebrare – il direttore di un cantiere, il CEO di un’azienda, il rettore di un’università o lo stesso Segretario del Partito… moderno koutou nei confronti di qualche nuovo imperatore. Coronata o meno dalla presenza di ospiti prestigiosi, una cerimonia che si rispetti deve comprendere inevitabilmente due momenti clou: un discorso (di solito più di uno) e un brindisi; l’evento deve avere risonanza pubblica ed essere ripreso e fotografato per facilitarne la visibilità. Come nel caso dell’apertura delle Olimpiadi, l’inaugurazione è spesso la più entusiasmante delle cerimonie, quella in cui si celebra l’inizio di qualcosa, molto spesso indipendentemente dal fatto che quel qualcosa avrà effettivamente seguito. I cinesi sono ossessionati dalle inaugurazioni perché è in queste che si dà il meglio di sé e si producono le immagini migliori. Per capire l’importanza della cerimonia e del cerimoniale in Cina, così come alcune caratteristiche aberranti di quella che si potrebbe definire “cultura della cerimonia”, può tornare utile citare alcuni passaggi sulla funzione della fotografia in Cina dal trattato di Susan Sontag Sulla Fotografia. Per Sontag, suddetta funzione risponde all’imperativo di veicolare l’immagine giusta, migliore e in questo senso ideale di qualcuno o qualcosa, indipendentemente dal fatto che sia la più reale, o che esista del tutto. Dato l’alto livello di manipolazione che la fotografia consente oggi come allora, l’immagine o la rappresentazione possono essere costruite a tavolino o essere del tutto inesistenti nel mondo “vissuto” e non “fotografato”. Sarebbe dunque lecito chiedersi perché preoccuparsi di portare avanti qualcosa, se si è già raggiunto il culmine della sua celebrazione durante una o mille cerimonie di inaugurazione? Come sempre la realtà è più complessa di una suggestiva ipotesi e mentre il cerimoniale avviene, garantendo e mettendo in scena l’unico rituale che legittima il potere – la partecipazione, decisioni epocali vengono prese e piani attuati. Lo spirito che sottende le cerimonie è di fatto comune a tutte le culture, quindi globalizzato, e risponde a determinati requisiti che sono poi le prerogative del potere così come viene concepito nell’epoca della dittatura delle immagini e della cosiddetta “società dello spettacolo”. Augé ricorda ancora che “invitandoci a considerare gli uomini politici come attori o personaggi e lo spazio pubblico come uno spazio del pubblico nel senso teatrale del termine, questa spettacolarizzazione rende ogni giorno più tenue il confine tra realtà e la sua rappresentazione, tra la realtà e la finzione. Essa ha effetti perversi: la sfumatura le è estranea; se la diversità è la sua materia prima, essa la tratta sempre nello stesso modo, con lo stesso linguaggio, nello stesso stile, uniformemente – un po’ come il sarto che mettendo insieme a suo modo i pezzi di un patchwork, confeziona sempre più o meno lo stesso abito. L’uniformità, insomma, è lo scotto che deve pagare la diversità quando è conosciuta superficialmente. Ma questo carattere superficiale è esso stesso la conseguenza della globalizzazione delle immagini e dell’informazione”. Si potrebbe pensare allora che il mantenimento di un pomposo cerimoniale centralizzato sia necessario per attivare una “globalizzazione interna”, a sua volta funzionale al monitoraggio più efficace della vasta popolazione cinese.

Al di là delle interpretazioni più scontate, occorre tenere a mente che se il rito è il modo migliore per dare una struttura (seppure apparente e transitoria) al disordine, o meglio alla cacofonia di voci implicita in tutte le società, è anche soprattutto un modo per garantire una temporanea e disciplinata liberazione dal normale andamento e normatività del vivere quotidiano. Per capire ancora meglio la funzione del cerimoniale nella Cina moderna e contemporanea potrebbe non essere superfluo analizzare brevemente la fenomenologia di eventi non solo del tutto opposti a riti e cerimonie, ma anche inversamente proporzionali: i movimenti di protesta. Se i primi sono infatti disciplinati e controllati, i secondi sono in linea di massima caotici, spontanei, imprevedibili e per niente rassicuranti; se i primi sono concepiti per cementare coesione, armonia e conformità, i secondi servono l’esatto opposto: in breve, a ricordare – o far notare per la prima volta – che “qualcuno” non è d’accordo con la visione dominante espressa dall’élite politica. Ho parlato di proporzionalità inversa perché tanto maggiore sarà l’enfasi posta sull’importanza e sul ruolo rivestito da cerimonie e cerimoniale, tanto minore sarà invece la propensione a tollerare manifestazioni spontanee e movimenti grassroot. Nel caso della Cina, un estremo porta con sé e alimenta l’altro, in nome della ricerca di coesione sociale “a tutti i costi”, che sembra essere la cifra ideologica della Cina contemporanea. Una cerimonia pubblica trasmessa sulle reti nazionali ha il vantaggio di rivolgersi a e andare bene per tutti, opera dunque attraverso la semplificazione e l’appiattimento, sebbene aspiri alla (e rivendichi la) più nobile universalità; invece il movimento più o meno pacifico, più o meno spontaneo, porta avanti le istanze e il sentire di una parte, non necessariamente una minoranza ma senza dubbio silenziosa (almeno fino a quel momento) e sottorappresentata. Anche solo attraverso il suo accadere – che in Cina è non solo scoraggiato ma anche duramente perseguito – una manifestazione riesce a squarciare il velo di apparente armonia dietro il quale si nascondono le (inconcepibili) falle del Governo. Si arriva così a un assioma che è soprattutto un paradosso: affinché qualsiasi movimento possa essere effettivo, esso deve trasformarsi in rito; ma nel momento in cui ciò avviene il suo potenziale dirompente è neutralizzato e disciplinato. In fondo se si pensa alla Rivoluzione Culturale, iniziata come rivolta di massa e “normalizzata” (nonché legittimata) dal cerimoniale affiancatole, si scorgerà un pattern ricorrente in Cina ma non esclusivo.

Lo stesso cortocircuito sembra essere stato di recente (ri)attivato con la sfarzosa cerimonia tenuta a Lhasa, davanti al palazzo del Potala, lo scorso 20 agosto, per celebrare i 70 anni dall’occupazione del Tibet per mano dell’Esercito di Liberazione Popolare. Quella che per molti tibetani e dissidenti, buddhisti e non, è un’invasione violenta cui sono seguiti decenni di altrettanto violenta repressione, per il PCC e tutti coloro che appoggiano l’azione del Governo cinese, è solo la “pacifica liberazione dei tibetani da un’opprimente teocrazia”, in altre parole una legittima rivendicazione di sovranità, interpretazione che appare particolarmente sinistra se si cala nell’attuale clima geopolitico caratterizzato da tensione e dalla crescente pressione, anche militare, che la Cina sta esercitando sulla “provincia ribelle” Taiwan.

La cerimonia di Lhasa, che ha visto diecimila presenze, ha ripristinato vessilli, veri e simbolici, cui non si ricorreva da tempo, tra i quali un’imponente effige di Xi Jinping collocata lungo la facciata del Potala; ma è servita soprattutto a ribadire, attraverso il discorso centrale di Wang Yang, membro del Comitato permanente dell’Ufficio Politico del PCC, che tutti i Tibetani devono condividere le regole dettate dal Partito Comunista nonché i simboli culturali e le immagini della nazione, conditio sine qua non (percorrere il cammino socialista) per lo sviluppo e la prosperità del Tibet. Ancora più forzosa appare l’affermazione secondo cui “in Cina tutte le religioni devono avere un orientamento cinese”, come dire che non devono rappresentare una minaccia, o essere anche solo vagamente divergenti dalla società socialista. Simili affermazioni possono apparire tanto vaghe quanto scontate, se si conosce l’attuale orientamento politico del paese, eppure il fatto che siano state fatte in una circostanza pubblica e ufficiale come la celebrazione di un importante anniversario, conferisce immediatamente loro lo status di principio politico e legislativo. La foto del palco mostra il delegato tibetano accanto ai rappresentanti di partito: l’immagine richiama alla mente la citata parata finale in The East is Red, ma sembra evocare anche i fantasmi di un film controverso come Sette Anni in Tibet, bandito in Cina insieme a regista e cast. Si torna così all’ipotesi iniziale per cui le celebrazioni pubbliche come concepite e orchestrate ai nostri tempi – multimediali, (apparentemente) democratiche, spettacolari e coinvolgenti senza rinunciare alla solennità – sono oggi più che mai, in tempi di grande instabilità sociale ed economica, un’inesauribile fonte di legittimità politica e omogeneizzazione culturale.

Che la repressione delle minoranze rappresenti la faccia violenta e meno presentabile di riti e cerimonie si è visto recentemente con il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan, che nel 2021 hanno celebrato l’insediamento del nuovo governo e le cui istanze la Cina sembra comprendere molto bene. Senza voler fare accostamenti impropri, mi limito a costatare che un potere fondato sul diritto di costruire consenso attraverso cerimonie e la costruzione (o distruzione) strategica di narrative intorno a minoranze, siano esse etniche o di altro tipo, è un potere che lotta strenuamente per la sua legittimazione, ed è quindi un potere intrinsecamente debole.

Di Mariagrazia Costantino per Sinosfere*

*Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.