La modernità, in Cina, è stata molto spesso immaginata come una palingenesi in cui il nuovo si sostituisce al vecchio incorporandolo, come un organismo che, per sopravvivere e prosperare, deve prima eliminare ogni sua vecchia cellula, e quindi sostituirla con un corredo di cellule interamente nuove, eppure dotate della memoria delle vecchie. Compito precipuo dello stato, almeno dalla fondazione della Repubblica Popolare, è stato quello di guidare questo processo di trasformazione, tenendone le redini dall’alto, dandogli simultaneamente motivazione, senso e direzione. La modernizzazione è dunque un processo controllato teso a dare forma: il cambiamento va bilanciato dalla continuità, la novità puntellata con il cemento della tradizione, i cavalli selvaggi del progresso imbrigliati attraverso la mano moderatrice della cultura, lo sradicamento e lo spaesamento mediati attraverso la reinvenzione dei legami d’identità, gli egoismi personali riadattati all’insegna dell’interesse collettivo, in maniera tale da modellare il corso della storia facendo sì che i suoi partecipanti si con-formino armoniosamente a essa.
A questo fine i “modelli”, con le loro radici saldamente affondate nella cultura tradizionale, ponti di passaggio tra tradizione e modernità, dispositivi atti a somministrare educazione e disciplina, fissare la norma e l’ideale, innescare controllo e ispirazione, costituiscono certamente un utilissimo strumento.
Ma cosa sono i “modelli”? Cosa intendiamo per modelli, qui, in senso ampio?
I modelli, potremmo dire, sono degli schemi che producono tassonomie, delle figurazioni che scaturiscono ingiunzioni e desideri, delle procedure, routinarie ma flessibili, che producono comportamenti regolati e regolari, socializzandoli. I modelli, innanzitutto, si manifestano nella storia sotto forma di figure esemplari. Non importa che si tratti di personaggi reali o fittizi, uomini importanti o gente comune, situati nel passato o assurti a gloria nel presente, creati ex novo oppure riciclati. Ciò che conta è che essi, simboli immanenti del loro ordine sociale, appaiano prima di tutto come figure storicamente vere, o realisticamente veritiere, ma servano soprattutto a ostendere delle immagini ideali: come nel caso dei personaggi “tipici” dell’epoca maoista, che, nel loro condensare “ciò che fu”, prefiguravano nel contempo “ciò che avrebbe dovuto essere”. Scopo di tali figure, infatti, è incarnare delle virtù e un certo ethos, delle aspirazioni e delle linee di condotta, utili al mantenimento della stabilità sociale o alla sua trasformazione, nella premessa che l’individuo, interiorizzandone i valori, prima o poi li faccia propri, prendendoli ad esempio, o, almeno, temendone l’autorità morale. Usati dai sovrani e dai funzionari del passato come mezzo per diffondere personificandole le virtù cardinali dell’etica tradizionale, i modelli esemplari traevano la loro ragion d’essere dalla tendenza della pedagogia confuciana a vedere nell’apprendimento attraverso l’imitazione un mezzo principe per impartire l’educazione morale dei soggetti, come attesta il saggio di Maria Franca Sibau, contenuto in questa raccolta, che esplora gli elementi di pedagogia esemplare contenuti nella novellistica di epoca Ming. Nel mondo moderno è il Partito Comunista a ereditare, nel modo più zelante e duraturo, tale pedagogia dei modelli, come dimostra il pullulante pantheon di santi, eroi e “viti” del sistema fabbricati in tutta l’epoca maoista per articolare ogni singola ipostasi del jingshen (spirito) rivoluzionario, dall’entusiasmo solidale alla tenacia nella lotta collettiva. Nella sua trattazione delle “opere teatrali modello” della Rivoluzione Culturale, Rossella Ferrari evidenzia come tali opere fossero modello in una doppia valenza: da un lato, nel loro essere un canovaccio rielaborato e riproducibile, approntato collettivamente, al fine di fornire dei parametri stilistici e ideologici da replicare nella creazione artistica. Dall’altro, nel loro fungere da script per la “mimesi sociale”, allo scopo di “fornire modelli umani, ovvero di foggiare prototipi concreti di socializzazione e condotta politica”. Ma il saggio di Ferrari mostra anche come i modelli, diffusi dall’alto e interiorizzati dal basso, non sempre vengono recepiti nel modo desiderato, e spesso invece generano appropriazioni non previste se non addirittura conflittuali, come nel caso delle numerose “vite postume” di tali opere ricreate nel periodo post-maoista.
Concepiti per trasmettere messaggi ideologico-morali, in un sistema in cui l’etica e l’ideologia sono plasmate dal “mandato della Storia”, i modelli esemplari, spiega Flora Sapio, hanno il compito di evolversi, cambiando pelle e significato, per adattarsi allo zeitgeist specifico di ogni macro-segmento storico, così da esemplificare le “missioni storiche” che il Partito di volta in volta assegna agli attori delle proprie campagne di progresso nazionale. I modelli, perciò, sono i cittadini più “avanzati”, coloro che più degli altri si sono spinti in prima linea sul fronte della Storia, mostrando a tutti gli altri le azioni giuste per avanzare a loro volta correttamente sulla strada del progresso. Se Sapio si concentra sui modelli promossi direttamente dal Partito, osservando come nella “nuova era” di Xi Jinping sia stato portato avanti uno sforzo di ri-centralizzazione politica nell’opera antropo-poietica di modellizzazione al fine di meglio radicare nella società i “valori essenziali del socialismo”, Børge Bakken e Jasmine Wang si soffermano invece sul processo di “commercializzazione” dei modelli avvenuto con l’affermazione del “socialismo di mercato” a partire dagli anni Novanta. Così, mentre un tempo il modello paradigmatico era “un eroe sacrificale, che si immolava per il bene della comunità, della nazione o della causa comunista e del Partito”, negli ultimi decenni i modelli più efficaci e pervasivi sono diventati quelli imprenditoriali e consumisti – uomini ricchi, celebrità, eroi del consumo –, persone che ostentano il loro successo e incoraggiano gli altri a ottenerlo, insegnandogli a “pensare positivo” e a “non lamentarsi mai”, come nei tanti libri self-help spuntati come funghi per divulgare il verbo del Sogno sino-americano. Tali modelli sono dunque complici, sostengono Bakken e Wang, con gli arci-valori dominanti su cui poggia oggi l’ideologia ufficiale, quelli di prosperità e armonia. Con questo saggio dialoga idealmente quello di Valeria Zanier, che esamina come i grandi businessmen cinesi siano stati elevati, in concomitanza con l’ascesa dell’economia di mercato, a “modelli autorevoli nell’etica del lavoro e nella società civile”, venendo spesso rappresentati (e indulgendo a loro volta in tale autorappresentazione) come leader morali “con caratteristiche non comuni capaci di produrre una trasformazione nei dipendenti e spingerli a comportamenti innovativi e di eccezionale impatto”. Analizzando due figure esemplari, i CEO di due aziende globali campioni del capitalismo cinese, Hai’er e Huawei, Zanier illustra la “filosofia aziendale” creata e incarnata da questi ultimi, ispirandosi tanto ai modelli di business americani quanto alle tradizioni filosofiche indigene. Che si tratti dell’approccio più olistico e “tradizionale” di Hai’er, che mira a integrare armoniosamente l’impiegato nell’azienda conferendogli fiducia e responsabilità, o quello più aggressivo di Huawei che si rifà a visioni più agonistiche mutuate dalla storia cinese moderna, in entrambi i casi le due “filosofie” mirano a fondere vita privata e vita aziendale dell’individuo, dando così il loro contributo alla diffusione di modelli di soggettivazione neoliberale con “caratteristiche cinesi”.
Ciò che si intuisce, leggendo questi interventi, è come il modello agisca operando su un doppio livello: da un lato, in modo esplicito, esso serve a ispirare e a motivare, spronando all’emulazione allo scopo di acquisire i tratti utili desiderati, nella convinzione che, così facendo, sia l’individuo che il sistema ne trarranno beneficio. Dall’altro, in modo un po’ più implicito o deliberatamente nascosto (ma non nell’epoca maoista, in cui i modelli positivi erano sempre accostati a quelli negativi, altrettanto essenziali nel loro ruolo normativo come simboli di azioni da evitare o tipi umani da attaccare), esso serve a distinguere e a gerarchizzare, producendo avvertimenti discreti ma fermi nei confronti di chi si allontana dal modello e intraprende una via di “deviazione”. Tutti possono essere come Yao e Shun, sosteneva Mencio, riferendosi alla possibilità di diventare virtuosi come i santi-sovrani dell’antichità; e chiunque può diventare un modello, aggiungeremmo noi: da qui, tutta un’organizzazione costante e capillare di classifiche e premi, istituzionalizzata nei vari ambiti della vita sociale, tesa a incentivare e a gratificare il comportamento esemplare, con il compito da un lato di esibire pubblicamente la virtù, e dall’altro di misurare le distanze che separano individui e istituzioni dal modello, come attestano le innumerevoli tavole o cartelloni esposti ovunque per attestare lavoratori modello, studenti modello, funzionari modello, esercenti modello, etc., o per stilare delle graduatorie degli stessi soggetti in base alla loro qualità (il carattere bang di bangyang, il termine oggi forse più usato per riferirsi a chi è un modello, inteso come una persona esemplare da imitare, si riferisce originariamente a una tavola di legno su cui è incisa una lista di nomi, in particolare quelli dei vincitori degli esami imperiali). Tale modellizzazione della società ha almeno due effetti ideologici notevoli. Il primo è che essa ristruttura la realtà, e il modo con cui l’individuo è portato a immaginarsi in essa, creando un mondo esemplare in cui l’ideale chiede di essere inteso come reale e il reale, qualora si discosti dal modello, è spesso sottaciuto come qualcosa di imbarazzante, vergognoso, in parte indicibile, finendo per diventare in molti casi perfino impensabile. Dall’altro ciò crea pressioni tanto in chi cerca di essere come il modello, ma non ne ha i mezzi per arrivarci, tanto in chi non ci tiene ad arrivarci, ma è incalzato a farlo; un meccanismo che in entrambi i casi costringe chi lo subisce a trovare strategie per convivere con la propria subalternità simbolica, ratificata socialmente proprio dal modello. Di questo parla l’articolo di Roberta Zavoretti, che confronta da un lato una tipica narrazione esemplare della “nuova era”, veicolata come spesso avviene da una serie televisiva, e dall’altro gli attuali orientamenti giuridici sul matrimonio con gli effetti che questi ultimi tendono a produrre sulle condizioni e sulle scelte delle donne nella Cina di oggi. Protagonista della storia è infatti un uomo, un indefettibile “deserving poor” che grazie alla sua bravura, ambizione e tenacia scala la società e contribuisce allo sviluppo di quest’ultima: trattasi della tipica parabola che divulga celebrandolo il “sogno cinese”, e dimostra mettendola in scena la sua natura meritocratica. Mentre però la storia fa passare deliberatamente sottotraccia lo sforzo del protagonista maschile di contrarre un matrimonio conveniente come mezzo necessario per costruirsi un capitale sociale e avere accesso alla proprietà privata – nascondendo perciò l’“altra metà del volto” del modello, come scriveva Wang Xiaoming un po’ di anni fa –, questa invece mette in luce le insufficienze della moglie, la sua mancanza di ambizione e di valore, insomma il suo non essere all’altezza del modello, per giustificarne l’abbandono da parte dell’eroe, naturalizzando così una disparità costruita sulle differenze di genere.
Ma per modello intendiamo anche qualcosa di più impersonale rispetto alle figure esemplari, ovvero qualsiasi matrice o disegno o piano “regolatore” che contiene gli schemi e le istruzioni necessarie per operare secondo certi meccanismi normativi, o quantomeno per immaginarli e farli immaginare come tali. Maurizio Marinelli, per esempio, ci parla di “urbanismo normativo” come forma di governamentalità tipica della Cina di oggi, applicata tanto nelle metropoli della mainland quanto a Hong Kong, dove in seguito al ritorno all’“abbraccio della madrepatria” avvenuto nel 1997 sono state applicate logiche di “disciplina, sanificazione e normazione” divenute caratteristiche del “modello urbano cinese di Hong Kong”. Risultato più evidente di questa riqualificazione implementata inflessibilmente dall’alto è stata la riproduzione socio-spaziale del “divario socio-economico”, in cui la città “per il profitto” ha represso la città “per le persone” e la città “verticale” ha soffocato la città “orizzontale”, creando una “dicotomia profonda” fra la “città della luce” (city of light) e la “città del degrado” (city of blight). Emblema di questo paradigma è stata la “progressiva rimozione dei mercati di strada per fare spazio ad alti edifici ultra-moderni e di lusso che si conformano al nesso visione politica/politiche concrete del governo cinese”, il cui esito è stato spazzare via forme di convivenza, solidarietà e resistenza dal basso. Di uno spazio fisico e culturale parla anche il saggio di Amandine Pèrronet, che analizza invece la funzione esemplare di un monastero buddhista, il tempio delle monache Pushou situato sul monte Wutai nello Shanxi. Sostenuto “finanziariamente e simbolicamente” dallo stato, il tempio opera come un “modello funzionale sia per l’intero saṅgha (o comunità monastica buddhista) sia, in particolare, per le monache della Cina di oggi”. Essendo riuscito a stabilire per se stesso “un’immagine di eccellenza”, il tempo si presenta come un “monastero-celebrità” (star nunnery) situato al “vertice della gerarchia dei templi per monache del buddhismo cinese”, e quindi, in virtù di tale collocazione, esse fornisce un metro con cui confrontarsi e su cui modellarsi per gli altri templi che si trovano nei gradini sottostanti di tale gerarchia. È da notare, però, che ad assegnare il ruolo e lo status di modello, facendosene in ultima istanza custode e amministratore, è primariamente lo stato stesso. Così, per ottenere e mantenere tale ruolo, e lo status privilegiato che ne deriva, l’istituzione monastica non è tenuta semplicemente a diffondere dei valori e delle norme intrinseche allo specifico ambito religioso di cui si occupa, operando esclusivamente come un modello per così dire di monache per le monache; esso deve, viceversa, dimostrare di poter svolgere una funzione utile da applicare nella società nel suo complesso. A questo scopo il suo operato deve essere integrato nella macchina ideologica dello stato, da un lato producendo visioni “corrette” della religione in linea con quelle approvate dallo stato (contribuendo per esempio a combattere superstizioni ed eterodossie), dall’altro partecipando all’edificazione e alla diffusione di norme e valori sociali secolari in sintonia con gli obiettivi di civilizzazione portati avanti dal Partito.
Di modelli relativi alla concezione e alla costruzione dello stato tratta infine Federico Brusadelli, che parla dell’ascesa e del declino, in Cina, del “modello federalista”, importato e discusso nel “periodo-sella” del primo Novecento e quindi abbandonato in seguito all’affermazione indiscussa del modello centralista, per quanto proiettato oggi esternamente come visione utile a immaginare le relazioni internazionali della RPC. Nel tracciare questa parabola, il saggio mette in luce alcune modalità significative con cui i “concetti” nella Cina moderna sono stati spesso scritti e riscritti, trasformandosi in modelli. In primo luogo, vediamo lo sforzo costante di elaborare creativamente idee operative, intese come bussole per orientare l’azione politica e sociale, al fine di applicarle adattandole alle esigenze e agli obiettivi storici concreti. Tuttavia, quando i concetti si impongono storicamente e vengono incorporati nella dottrina ufficiale, benché messi al servizio come si diceva pocanzi dello “spirito del tempo” (shidai jingshen) attribuito a una specifica “era”, essi tendono a essere in buona parte destoricizzati ed essenzializzati. Ogni era, in altre parole, richiede una “rettificazione dei nomi”, ma, ogni volta che i nomi sono stati rettificati sulla base dell’esigenze ideologiche specifiche di quella stessa era, essi sono transustanziati in valori assoluti e universali, come se fosse sempre stato così, e così sarà sempre. Unendo dunque piani temporali diversi a partire dall’episteme del presente, la modellizzazione dei concetti produce la “sincronicità del non-sincrono”, lavando via le rotture storiche e congiungendo in un continuum identitario presente passato e futuro (vedi il mito dei “cinquemila” anni di identità storico-culturale ininterrotta della Cina). Oggi più che mai vediamo questo meccanismo all’opera con Xi Jinping, che, nella sua ricorrente celebrazione dell’“eccellenza” della cultura cinese tradizionale, non fa altro che trasportare nel presente nozioni antiche e altre meno antiche in modo disinvoltamente selettivo, torcendone il significato per adattarlo agli obiettivi di modernità perseguiti attualmente dal Partito, creando così l’immagine di una cultura cinese modello eternizzata in cui tutte le linee di faglia e i traumi della storia e della società cinese sono armonizzati in un insieme idealizzato che da un lato mira a gratificare chi ne fa parte e dall’altro punta ancora una volta mira a impartire la norma esemplare.
Di Marco Fumian per Sinosfere*
**Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.