Li Yaotang 李尧棠, in arte Ba Jin 巴金, nato nel 1904, quindi prima della Rivoluzione Xinhai 辛亥, e deceduto qualche anno dopo l’inizio del nuovo millennio, nel 2005, attraversò nella sua interezza il “secolo breve”, o “il lungo XX secolo” – a seconda di come si vuole definire il Novecento. La longevità, lungi dall’essere un dettaglio secondario, garantì allo scrittore una singolare esperienza di vita ed un rapporto privilegiato con la storia moderna cinese, come ben mettono in evidenza tanti studi prodotti dall’associazione Ba Jin Yanjiu hui 巴金研究会, la quale ormai da tre decenni si occupa della pubblicazione di biografie e saggi dedicati a colui che chiamano “la coscienza del secolo”.
Anarchico, romanziere celebre che influenzò almeno due generazioni di giovani rivoluzionari prima del 1949, traduttore poliglotta, esperantista, editore coraggioso e scopritore di talenti letterari; dopo il 1949, membro d’onore dell’Associazione Nazionale degli Scrittori e rappresentante della cultura cinese all’estero: a un tempo intellettuale eterodosso e uomo di apparato, Ba Jin fu tutto, ricoprì tutti i possibili ruoli. La sua parabola prese l’avvio dalla militanza nei circoli più radicali e pure più colti e internazionali del comunismo libertario cinese, proseguì con la sua marginalizzazione da parte della Lega degli Scrittori di Sinistra negli anni ’30, per poi riportarlo al centro della scena dopo la fondazione della Repubblica Popolare, quando fu ufficialmente riconosciuto come una figura di punta delle lettere cinesi. L’ufficialità – perfetta arma a doppio taglio – se dapprima portò a lui e alla sua opera il lustro che gli era stato negato in precedenza, poi lo costrinse a prendere posizioni vieppiù scomode, a parlare quando lui avrebbe preferito tacere e infine, a partire dal 1966, lo espose agli attacchi della gioventù ribelle, la cui insofferenza alle tradizioni e al principio di autorità era stata forgiata, paradossalmente, anche dai romanzi di Ba Jin stesso.
Bollato come controrivoluzionario durante la Rivoluzione Culturale, fu rinchiuso in una “stalla” e obbligato a svolgere i lavori più umili: di questo però lo scrittore non si lamentò mai, giacché il trauma che lo segnò per il resto della vita, piuttosto, fu il trattamento che le guardie rosse riservarono alla moglie Xiao Shan 萧珊, che, malata, si vide negate le cure mediche e venne ricoverata soltanto quando per lei ormai era troppo tardi.
Ba Jin, come vedremo, dopo la riabilitazione in epoca denghista riuscì a riscattare la propria coerenza e autenticità di pensiero, ma non senza prima essersi sottoposto a una severa autocritica finale, che nulla ha da invidiare alle autocritiche (ziwo piping 自我批评) che era stato costretto a stilare nel decennio precedente. I suoi “Pensieri”, Suixiang Lu 随想录 (tradotti in inglese come Random Thoughts), almeno nei loro momenti più lirici, tramutano in arte l’impellenza di mettersi a nudo e di “dire la verità” (shuo zhenhua 说真话) – quella verità che il regime discorsivo socialista aveva prima richiesto a tutti i suoi “lavoratori dell’intelletto” e poi rimosso. Questa tuttavia non è che l’ultima tappa di un percorso che si chiude negli anni ’80, con la pubblicazione dei “Pensieri”, e subito dopo con lo sviluppo del morbo di Parkinson, che oltre ad ostacolare Ba Jin nei più elementari movimenti, gli sfilò la penna di mano. Dobbiamo ritornare ora al principio di questa storia, ossia al 1920 e alle notti insonni in cui un quindicenne, un giovane rampollo di un’agiata famiglia di Chengdu leggeva, alla luce fioca di una lampada e con l’ansia di poter essere scoperto, dei testi stranieri tradotti di fresco in un neonato baihua 白话, come il dramma nichilista (nel senso russo del termine) di Leopold Kampf, La Vigilia; l’Appello ai Giovani, quello firmato non da Chen Duxiu 陈独秀 ma dal Principe Kropotkin; infine, gli scritti anarcofemministi di Emma Goldman, proposti da una piccola rivista studentesca dell’Università di Pechino, Shishe Ziyoulu 实社自由录. In fondo al volume di Kropotkin si accampava la massima: “non c’è piacere più grande del chiudersi in casa nelle notti di neve, a leggere libri proibiti” e il signorino Li Yaotang vi si attenne, consacrando così le sue notti alle letture proibite, mentre di giorno sempre più spesso preferiva la compagnia dei domestici a quella dei suoi pari, finché, pochi mesi dopo, non si unì a un gruppo anarchico di coetanei, con i quali fondò e diresse il quindicinale Ban Yue 半月.
L’esperienza della rivista non si protrasse oltre il primo anno, ma consentì a Ba Jin di farsi le ossa come editore; gli permise inoltre di scoprire la militanza attiva, condivisa con la famiglia putativa dei compagni, e quindi un modello di comunità alternativo al clan famigliare tradizionale – un’idea che tanta parte avrà nella genesi della sua trilogia più famosa, Jiliu Sanbuqu 激流三部曲, di cui fa parte il capolavoro “Famiglia” (Jia 家), e anche della trilogia rivoluzionaria Aiqing de Sanbuqu 爱情的三部曲.
Se Ban Yue 半月resta l’unica rivista che l’autore diresse in giovinezza, non fu certo l’unica su cui scrisse: negli anni 1923-1930 collaborò infatti con numerosi giornali, grandi o piccoli, in patria così come all’estero (vale la pena menzionare qui l’americana Pingdeng 平等, curata dal migrante Ray, o Red, Jones 刘钟时, tanto povero quanto brillante e politicamente engagé, che da San Francisco inviava a Ba Jin pubblicazioni straniere proibite e irreperibili in Cina, in cambio di articoli e traduzioni).
Dal 1925, grazie alle sue collaborazioni giornalistiche, Ba Jin iniziò a mandare in stampa una serie di interventi estremamente critici nei riguardi del bolscevismo e dell’Unione Sovietica, recanti titoli del tenore di “Lenin, il traditore della rivoluzione”, “La Cheka: la lama affilata dei bolscevichi”, “Cronache della rivolta di Kronstadt”, mentre in parallelo curava l’edizione cinese degli scritti di Alexander Berkman, rientrato dal viaggio in Russia con Emma Goldman, e le biografie delle eroine e martiri russe, anarchiche o socialiste rivoluzionarie, come Maria Spiridonova. Quarant’anni dopo, naturalmente, fu proprio tale produzione a prestare il fianco alle accuse delle guardie rosse e a far sì che all’autore venissero affibbiati gli appellativi di “erbaccia velenosa”, “bestia”, “serpe controrivoluzionaria”… Le critiche anarchiche al ‘socialismo reale’, del resto, risultavano alquanto incisive e pericolose, provenendo da sinistra, ossia da parte di altri comunisti, benché eterodossi rispetto al marxismo-leninismo. Basti pensare, ad esempio, al caso di Victor Serge, comunista libertario sodale dei trotskisti, che per primo coniò il termine ‘totalitarismo’, per definire il regime di Stalin.
Nel 1926, un anno dopo, Ba Jin ingaggiò un dibattito con Guo Moruo 郭沫若 sul concetto di Stato in Marx e sulla filosofia della storia, cercando di dimostrare di essere più marxista di questi, o almeno mettendo in luce le aporie di una lettura troppo lineare dei testi di Marx e Engels. Nel 1927, poi, all’indomani dell’esecuzione di Li Dazhao 李大钊, Ba Jin pubblicò un elogio senza riserve per il padre del marxismo cinese, in cui lo chiamava xundaozhe 殉道者, un uomo capace di sacrificare la vita per i propri ideali, al pari dei grandi eroi dell’anarchismo e del populismo russo.
Il rapporto di Ba Jin con il PCC di quegli anni, quindi, era controverso e ambivalente: se, come altri anarco-comunisti cinesi di terza generazione, l’autore avanzò delle critiche alle possibili derive autoritarie che a suo dire il bolscevismo e la struttura partitica stessa contenevano in nuce, d’altra parte si tenne sempre a debita distanza dall’anticomunismo della prima generazione libertaria, ossia da Wu Zhihui 吴稚晖 e Li Shizeng 李石曾, che all’epoca della rottura del primo fronte unito e in pieno “terrore bianco”, raccomandavano agli anarchici di entrare in massa nel Partito Nazionalista. Prima e dopo il 1927, Ba Jin fu e restò convintamente antisovietico; mai divenne anticomunista.
Dati questi precedenti, tuttavia, non è strano che circa dieci anni dopo, nel 1936, quando la guerra civile spagnola riportò a galla i vecchi attriti fra anarchici e comunisti, Xu Maoyong, allora a capo dell’ufficio della propaganda della Lega degli Scrittori di Sinistra, decise di attaccare Ba Jin, oltre ad altri intellettuali (fra cui Hu Feng 胡风) non in linea con lo slogan della “letteratura di difesa nazionale”. Ad ergersi in loro difesa intervenne Lu Xun 鲁迅 in persona, che, già molto malato e vicinissimo alla fine, dettò a Feng Xuefeng 冯雪峰 uno dei suoi impareggiabili saggi, in cui la vis polemica che sempre gli fu propria si sposa alla perfezione con l’estrema lucidità e la logica ferrea del ragionamento. In “Risposta a Hsü Mou-yung e sul fronte unito antigiapponese”, Lu Xun definisce Ba Jin non un “amico intimo”, ma già “un amico” e mette in guardia il destinatario del suo testo dalle facili prese di posizione guidate dal pregiudizio. Lu Xun già dal 1935 aveva stretto un sodalizio con l’anarchico più giovane di lui di oltre vent’anni, senza dar peso alle etichette o ai pettegolezzi dei circoli letterari, e anzi affidando a questi la pubblicazione di alcune sue traduzioni e poi, soprattutto, delle “Vecchie storie rinarrate” (Gushi Xinbian 故事新编, edito nel 1936 per i tipi di Wenhua Shenghuo Chubanshe 文化生活出版社, diretta appunto da Ba Jin). A Xu Maoyong perciò scrisse a chiare lettere:
“Pa Chin è uno scrittore appassionato, di idee progressiste, uno dei pochi buoni che si contano sulle dita; ha la fama di anarchico, ma non si oppone affatto al nostro movimento e ha sottoscritto la dichiarazione di lotta comune dei lavoratori dell’arte e della letteratura.”
Il gigante delle lettere cinesi, da sempre nemico giurato di ogni forma di dogmatismo, poteva permettersi il lusso di difendere pubblicamente un anarchico, attaccando frontalmente chi, come Xu Maoyong, lo aveva messo ai vertici della Lega degli Scrittori, facendone un’icona e un nume tutelare, salvo poi tradirne il pensiero nella sostanza. Ba Jin, che in quel momento stava dando alle stampe una serie di memorie provenienti dal fronte libertario delle brigate internazionaliste operanti in Spagna, godette della protezione di Lu Xun – ed altrettanto dicasi per Hu Feng. Dopo il 1949, invece, non ci sarebbe stato più nessuno a coprirgli le spalle. Esamineremo ora il suo ruolo di scrittore ufficiale e i suoi rapporti con il potere durante i primi diciassette anni della Repubblica Popolare.
In equilibrio precario: la vertigine dell’ufficialità
Tre anni prima della fondazione della Nuova Cina, uscirà dalla felice e prolifica penna di Ba Jin l’ultimo suo grande romanzo, Han Ye 寒夜, “Notti Gelide”, dopo il quale non è scorretto né ingeneroso dire che non seguirà alcuna opera letteraria di pari valore, almeno sino ai succitati “Pensieri”. Le ragioni di questo calo del genio creativo potrebbero facilmente riassumersi in una parola sola: paura – o anche: impotenza del singolo intellettuale di fronte alla gigantesca macchina del potere –; se non fosse che la dinamica fu più complessa, non riducibile al semplice schema dicotomico dell’artista vittima del sistema carnefice; d’altronde, l’autore stesso sempre si rifiutò di indossare i panni del martire. Nei “Pensieri”, difatti, sovente le sue accuse si trovano congiunte ad un’autoaccusa: io c’ero, non è che non sapessi; la responsabilità storica è sempre collettiva e quindi è anche mia.
Nel 1949, poco dopo aver dato alle stampe la sua traduzione delle memorie dal carcere di una delle sue “madri spirituali”, la rivoluzionaria populista Vera Figner, Ba Jin presenziò al primo incontro ufficiale della Associazione Nazionale degli Scrittori, ove gli venne assegnato un incarico dirigenziale. Al principio del 1950, inoltre, fu nominato vicepresidente dell’Associazione degli Scrittori di Shanghai e poco dopo il Wenhui Bao 文汇报pubblicò una sua dichiarazione, riassumibile nello slogan “sono venuto qui per studiare”.
C’era dell’astuzia in quell’atto di modestia? Non ci è dato sapere; di certo, erano reali l’entusiasmo per la pace finalmente acquisita dopo decenni di conflitto ininterrotto e la speranza per la rinascita della nazione. Ba Jin sapeva di aver avuto un ruolo assai marginale nella rivoluzione; alla vigilia della vittoria dei comunisti alcuni amici gli avevano addirittura consigliato di lasciare la Cina, ma lui rispose sicuro che il Partito non gli avrebbe chiesto il conto per la sua eterodossia e lì sul momento ebbe anche ragione.16) Il fatto stesso che un irregolare come lui, un anarchico, privo della tessera del PCC e più volte finito nel mirino degli intellettuali ortodossi, potesse assumere due cariche così importanti, a livello nazionale e a Shanghai, rivela quanto fossero elastiche e capaci di apertura le istituzioni culturali in quel momento. Il dibattito interno fra voci diverse era se non promosso, quantomeno non ostacolato.
Dunque, in qualità di rappresentante ufficiale della cultura cinese, Ba Jin venne inviato prima in Polonia, all’incontro degli scrittori affiliati al World Peace Council, poi nel 1952 in Corea, dove compose una serie di reportages dal fronte, che l’anno seguente la Casa Editrice del Popolo pubblicò: “Vivere in mezzo agli eroi” – questo il titolo, che già lascia intendere il senso di tutta l’operazione. Nel 1953, la scomparsa di Stalin indusse l’autore a slanciarsi in un panegirico che sconcerterebbe chiunque abbia letto “Famiglia”, o gli scritti politici degli anni ’20 o ’30: ivi infatti si sosteneva che “il nome di Stalin continuerà a vivere nelle felici esistenze delle generazioni future”, dacché fu “un gigante”, “il simbolo della pace e della gioia, l’incarnazione della stabilità e della gloria”. Se i comunisti di partito, negli anni in cui non era ancora stato divulgato il “rapporto segreto”, potevano ignorare le verità più fosche dello stalinismo, al contrario Ba Jin, proprio in quanto anarchico, inserito nei circoli dell’Internazionale libertaria, nonché amico personale di Emma Goldman e Alexander Berkman, era di certo e sin dal principio al corrente dell’esistenza della polizia segreta e dei gulag. Sapeva – e questo testo è in stridente contrasto con tutto ciò che negli anni ’20 aveva scritto e tradotto a proposito dei bolscevichi.
Tuttavia, l’ipocrisia, benché innegabile, è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è rappresentata dalla speranza, forse illusoria ma genuina, nella possibilità di contribuire davvero alla rinascita del paese, rettificando a un tempo se stessi e le istituzioni, agendo dal loro interno. Non suona perciò fasullo – semmai solo in buona misura ingabbiato nelle espressioni formulari dell’epoca – il discorso che l’autore tenne durante la prima sessione della Prima Assemblea del Popolo, nel 1954, presente Zhou Enlai 周恩来, in particolare quando dichiara:
“In questi anni, quanti lavoratori della letteratura hanno scritto, secondo la definizione del delegato Wang Yunsheng, dei ‘testi aridi e piatti, privi di qualsivoglia emozione’? Io per primo non mi sottraggo alla critica. (…) Noi da un lato non possediamo l’ardore necessario per decantare le nuove gesta e l’umanità nuova del nostro paese, dall’altro non additiamo per tempo né critichiamo ciò che di insalubre e arretrato ancora alligna nelle pieghe della nostra società. (…) Gli occhi del popolo sono candidi come la neve. Il Partito e il governo di nuovo convochino tutto il popolo per debellare le tendenze negative in atto, attraverso le armi della critica e dell’autocritica. Anche noi lavoratori della letteratura dobbiamo usare le nostre penne per criticare e fare autocritica, aiutando così il governo a far fronte ai fenomeni di arretratezza ancora presenti”.
Chiunque abbia una qualche dimestichezza con gli scritti politici del primo Ba Jin e nello specifico con le sue traduzioni dei populisti russi, non mancherà di notare come, sotto la patina del linguaggio ufficiale, si agitino concetti e slogan più antichi e longevi del maoismo (e pure del leninismo). Anche laddove è più smaccata la retorica, richiesta del resto dalla massima formalità del contesto, nel richiamo al popolo come unico e ultimo giudice del processo rivoluzionario, così come nella (auto)critica agli intellettuali burocrati lontani dalle masse, risuona potente l’eco dell’idea-guida dei narodniki, dao minjian qu 到民间去(“andare al popolo”).
Forse proprio qui è riposto, almeno per chi scrive, lo spunto di ricerca più intrigante, ovvero il fatto che, attraverso la figura di Ba Jin, o anche studiando l’anarchismo cinese in generale, diviene possibile analizzare la genealogia di certe idee e pratiche socialiste (quali ad esempio la “linea di massa”, con il suo doppio movimento, “dalle masse, per le masse”), le quali, almeno in parte, sono debitrici di precedenti esperienze storiche a cui però poi venne apposto il marchio dell’eresia e dell’infamia. Ba Jin in una certa misura contribuì a costruire quella cultura anti-intellettualista, iconoclasta, che finì per bollarlo come piccolo borghese corrotto, figlio di proprietari terrieri, nemico del popolo. Potremmo dire: confluendo nel maoismo, certi principi del populismo e dell’anarchismo subirono una mutazione tale da arrivare a giustificare la persecuzione di coloro che per primi li avevano sostenuti. Ecco allora che è interessante indagare come un concetto astratto si trasformi, evolva, o al contrario si distorca, una volta iniettato nella carne viva e pulsante della storia.
Tornando al suo discorso all’Assemblea del Popolo, nonché a molti altri testi del periodo, è evidente che nello scrittore convivevano l’opportunismo e la convinzione che i giochi fossero ancora aperti – e forse lo erano davvero, in quel momento. È possibile che Ba Jin, al pari di un Hu Feng, ad esempio, ritenesse che ci fossero ampi margini di tolleranza per il dibattito interno e che la parola d’ordine dell’autocorrezione e della riforma (gaizao 改造) non fosse vuota retorica, né tantomeno potesse divenire il sinonimo di una politica repressiva. Hu Feng ne era così convinto che fra il 1952 e il 1955 non solo difese con tenacia le proprie posizioni, ma criticò apertamente l’operato dei letterati organici al partito, innescando una reazione a catena che, anziché promuovere la discussione teorica, come lui avrebbe sperato, finì per ritorcerglisi contro e travolgerlo. Ba Jin purtroppo ebbe una sua parte in questa tragica vicenda. Come lui stesso scrisse nell’ultimo, conclusivo capitolo dei suoi “Pensieri”, Huainian Hu Feng 怀念胡风 (In memoria di Hu Feng), lo scrittore evitò di pronunciarsi contro Hu finché gli fu possibile. Altro figlio putativo di Lu Xun, oggettivamente più raffinato e preparato di Ba Jin nel campo della critica letteraria, Hu si prestava bene a incarnare l’ideale del “rosso ed esperto”: Ba Jin, che per sua stessa ammissione non aveva mai letto i suoi scritti, né seguito i dibattiti che il personaggio sempre provocava, dapprima si astenne da ogni commento, limitandosi a pensare che se un intellettuale di quella caratura poteva essere bollato come “antipartito” (fandang 反党) e in seguito, peggio ancora, come “antirivoluzionario” (fangeming 反革命) a capo di una cricca di cospiratori, allora virtualmente non c’era più scampo per nessuno.
Dopo che fu reso pubblico il primo dossier contro Hu Feng, nel 1955, Ba Jin, allora vicepresidente dell’Associazione degli Scrittori di Shanghai, non poté più mantenere la neutralità: tre furono gli articoli accusatori che redasse, uno più vuoto e più duro dell’altro, in cui ripeteva parole d’altri, essendo in realtà privo di argomenti e sapendo bene di nuocere a qualcuno che meritava solo il più grande rispetto. Questo il bilancio che l’autore tira nel suo “In memoria di Hu Feng”:
“Durante gli anni ’50 ero solito affermare che essere uno scrittore cinese era il mio orgoglio. Ma se adesso penso a quelle ‘lotte’, a quei ‘movimenti’, provo solo nausea e vergogna per la mia finzione (per quanto in quel momento non avessi alternativa)” (…) “La storia non lascia che gli uomini la riscrivano in base al loro capriccio e il silenzio non arginerà mai il flusso della verità; del fango dell’ingiustizia che si rovesciò addosso a Hu Feng alla fine non rimarrà niente – solo, io assolutamente non posso perdonare me stesso per tutte quelle ‘parole dette mio malgrado’ ”.
Così si conclude sia il lungo testo dedicato a Hu Feng, sia l’intera raccolta dei “Pensieri”. La chiusa è impietosa verso l’autore, che non può né vuole assolversi per le proprie menzogne, mentre resta viva la speranza nei riguardi della storia e del futuro. Già in questo breve passaggio si ritrovano alcuni dei concetti chiave dell’ultima grande opera di Ba Jin: in primo luogo, il senso di colpa, che gli causò tormenti continui da un lato, anche se, dall’altro, lo rese immune rispetto alla tentazione del vittimismo; in seconda istanza, la condanna di un regime che non è tanto reo di aver cancellato la libertà di espressione, come sostiene la letteratura di denuncia classica, quanto di aver negato agli intellettuali il diritto alla coerenza – ossia all’unità fra pensiero e parola, fra parola e azione.
Il rapporto fra verità e finzione è difatti un tema cruciale e bruciante in Suixianglu e l’incoerenza doveva risultare semplicemente intollerabile a chi, come l’autore, sin dalla giovinezza aveva fondato la sua fede politica sui precetti di una morale pratica, vissuta nella dimensione del quotidiano: proprio da lì del resto originava il suo amore per l’“Etica” di Kropotkin e per le vite esemplari delle populiste russe, ove l’unico dogma è rappresentato appunto dal principio dell’unità fra parola e azione, yanxing hey 言行合一.
Riassumendo, se nei primi anni ’50 ancora si riscontra un’adesione genuina dello scrittore alla vita culturale e politica della Nuova Cina, pur con le contraddizioni messe in luce (l’elogio sperticato di Stalin, la retorica degli eroi della campagna di Corea…), la vicenda di Hu Feng segnò l’inizio di una vera e propria perdita di sé, un primo fatale compromesso da cui non si poteva tornare più indietro, la discesa in un abisso che è a un tempo storico, collettivo e intensamente personale.
Lo specchio che ci tende la Rivoluzione Culturale
Nel 1990, Ba Jin aggiungerà la seguente avvertenza al XX volume della sua “Opera Omnia” e in particolare a San Tongzhi 三同志, composto nel 1961: “ho scritto di persone e fatti di cui in realtà non sapevo nulla, perciò ho fallito. È stata un’amara lezione per me”. Una candida ammissione che potrebbe valere anche per altri scritti risalenti al decennio precedente lo scoppio della Rivoluzione Culturale.
Quando nell’agosto del 1966 Ba Jin finì rinchiuso nella “stalla”, aveva già accumulato un tale senso di colpa per i propri compromessi che istintivamente diede ragione a chi lo accusava di essere un controrivoluzionario e un mostro. Dall’estate di quell’anno sino al 1970 le riunioni di critica si susseguirono ininterrotte, una dietro l’altra. I ribelli della zaofanpai 造反派 gridavano “abbasso Ba Jin!” e lui più forte di loro ripeteva: “abbasso Ba Jin!”; loro lo chiamavano “nemico mortale della dittatura del proletariato” e lui si riconosceva in quella definizione. In molteplici passi dei “Pensieri” l’autore ricorda come, prima della morte di Xiao Shan, lui fosse persuaso dell’assoluta legittimità delle punizioni inflittegli. Un testo significativo al proposito è un capitolo dei “Pensieri” scritto nel 1983: “Il desiderio di farsi terra” (Yuan hua nitu 愿化泥土). Qui, la vecchiaia chiude il cerchio delle esperienze di una vita, congiungendo la fine con l’inizio. Ba Jin rievoca “il sogno lungo dieci anni” (il decennio trascorso nella “stalla”), collegandolo a un ben più remoto ricordo di giovinezza, ossia alla memoria del proprio amato domestico, il portantino Vecchio Zhou, che il giovane Li Yaotang considerava un maestro di vita, uno xiansheng 先生, giacché da lui imparò che “al di fuori della famiglia, esiste una cosa chiamata società” e anche e soprattutto che la cosa più preziosa è la fedeltà a se stessi, che bisogna “vivere in accordo con il proprio credo”.
Rinchiuso in una cella in tutto simile alle abitazioni della servitù della vecchia Cina, Ba Jin sperò di poter vivere come il Vecchio Zhou, di potersi dimostrare alla sua altezza e “capire attraverso la sofferenza il senso della purificazione”. Il tentativo di espiare le sue colpe di classe tuttavia fallì, dal momento che “lo facevo soltanto per me stesso, agognando il momento in cui mi avrebbero liberato. I miei piccoli egoismi non vennero affatto sradicati e dunque la mia anima non fu purificata”.
Non stupisca l’uso di un lessico quasi religioso; l’impalcatura concettuale ed emotiva di tutto il testo si regge infatti su termini quali “mettersi alla prova” (kaoyan 考验), “passare il varco (e il vaglio)” (guoguan 过关), “purificarsi” (jinghua 净化), “temprarsi” (molian 磨练). Il testo risale agli anni ’80, ma ancora Ba Jin pensa e parla come se stesse scrivendo una ziwo piping; parrebbe un perfetto caso di sindrome di Stoccolma, se non fosse che il riferimento al portantino eletto a maestro ci porta assai più lontano, a un’epoca in cui lo scrittore traduceva le storie dei populisti russi, quella gioventù di nobili origini, assai benestante che sua sponte rinunciava a ogni bene materiale e partiva per le regioni più gelide ed inospitali della Russia, al fine di farsi rieducare dal popolo. Nella figura del Vecchio Zhou è presente inoltre un rimando intertestuale all’autobiografia di Kropotkin, su cui qui per ragioni di spazio sorvoleremo. Ad ogni modo, Ba Jin non deve essersi troppo meravigliato, in quel periodo, per l’esodo di massa dei giovani mandati in campagna: si trattava di un’idea e di una pratica su cui lui si documentava sin dai tempi in cui il PCC era ancora in fasce, nel 1921, quando mai si sarebbe detto che i comunisti avrebbero conquistato il potere. Un’idea populista e anarchica, parte di una dottrina per la quale in quel preciso momento veniva punito, per somma ironia della storia.
Il populismo riaffiora anche in questo giudizio conclusivo: “i milioni di parole con cui ho riempito interi volumi non valgono la formula a quattro caratteri del portantino Vecchio Zhou: ren yao zhongxin 人要忠心, ‘fedeltà a se stessi’” – dato l’anno di composizione del testo, si può essere certi che l’autore fosse sincero. I rimorsi e i sensi di colpa a cui Ba Jin dà la stura, in questa e in altre sezioni dei “Pensieri”, lo accompagneranno sino al suo ultimo giorno, soprattutto in seguito alla morte della moglie. La quale segnò anche una sorta di spartiacque: se fino a quel momento Ba Jin poteva ancora accettare la reclusione e le ingiurie che ogni giorno gli piovevano addosso, dopo la malattia e la tragica scomparsa di Xiao Shan sentì che qualcosa di folle e di totalmente aberrante stava capitando a lui e alla nazione tutta. In realtà, il pensiero della moglie e dei figli funse sempre da bussola per ritrovarsi in mezzo alle proprie e altrui bugie. In “Dire la verità” racconta che ad un certo punto
“l’arte della menzogna toccò le vette sublimi della perfezione: (…) se dapprima confessavo e scontavo le mie colpe con assoluta convinzione, poi mi bastava ripetere quello che dicevano gli altri, compilando meccanicamente più di cento ‘rapporti sul mio pensiero’. Non mi importava di proteggere me stesso, ma non potevo dimenticarmi di mia moglie e dei miei figli: non dovevo coinvolgerli. Verso di loro provavo dei sentimenti autentici e almeno in loro presenza ero ancora in grado di tirare fuori qualche frase vera”.
La condanna è durissima sia nei confronti della Rivoluzione Culturale – che in più passi dei “Pensieri” viene paragonata all’Inferno di Dante, tanto che si cita il noto verso, “Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate” – sia verso la propria condotta: come a dire che per fare davvero i conti con la storia occorre innanzituttosoppesare la propria responsabilità individuale, sondare l’io, cercando dentro di sé l’ombra del nemico e del carnefice. Non a caso un termine ricorrente nei “Pensieri” è “dissezionare”, jiepou 解剖.
Così, è logico e conseguente che il macroprocesso storico sempre coinvolga ogni singola individualità che lo ha vissuto, che in realtà di fronte agli eventi non si sia mai del tutto passivi, né del tutto innocenti, quindi, e che la linea di demarcazione fra sé e l’oppressore, fra vittime e carnefici, possa rivelarsi assai più sfumata di quanto non si immagini. Tale riflessione rappresenta uno dei fili conduttori dell’opera e culminerà nella proposta di fondare un museo della Rivoluzione Culturale, la cui costruzione è, secondo Ba Jin, “responsabilità di ogni cinese”. Solo in questo modo, sostiene lo scrittore nel capitolo “Wenge” Bowuguan ‘文革’博物馆, la memoria storica potrebbe essere riattivata e mantenuta viva, scongiurando il rischio di una rimozione che spesso è la più sicura garanzia del ritorno del trauma. Ba Jin era infatti ossessionato dalla paura che potesse scatenarsi una seconda Rivoluzione Culturale. In un altro capitolo di Suixianglu il ragionamento si fa ancora più esplicito:
“Vorrei fondare un museo, o un edificio commemorativo (…) affinché nessuno di noi dimentichi la sua responsabilità, quella responsabilità che va assunta per il disastro in cui sono state trascinate più generazioni; che si sia stati vittime o carnefici, giovani o vecchi, che si abbia o meno avuto un ruolo attivo nella Rivoluzione Culturale e a prescindere che si sia stati ribelli della zaofanpai 造反派, filo-capitalisti della zouzipai 走资派, o anche, semplici spettatori della xiaoyaopai 逍遥派, tutti dovrebbero recarsi qui [al museo] e guardarsi un po’ allo specchio…”.
Ecco allora che il “sogno lungo dieci anni”, lungi dal costituire una mera parentesi, una tragica ma in fondo breve deviazione rispetto all’ordinato avanzare del progresso, diviene uno specchio in cui il popolo cinese nella sua totalità può ritrovare riflesso il proprio volto. Riguarda tutti: il soggetto storico essendo sempre collettivo e, nel caso delle rivoluzioni, secondo lo scrittore, siano esse momenti di emancipazione o di terrore, l’agente primo coincide con le masse popolari. Già negli anni ’30, scrivendo della Rivoluzione Francese, un argomento che interessò sia il Ba Jin anarchico che il Ba Jin romanziere, egli aveva sostenuto la tesi di Kropotkin, in base alla quale “la Rivoluzione Francese non è che l’espressione di un agire eroico, ma l’eroe in questione non è né Mirabeau, né Danton, né Marat, né Robespierre: l’eroe è il popolo”. Nei “Pensieri” ritorna il medesimo ragionamento, anche se il bilancio è ora di segno contrario e la collettività è tenuta ad assumersi la responsabilità di una pesante sconfitta.
L’idea del museo, come è ovvio, non fu raccolta e anzi deliberatamente venne lasciata cadere nel vuoto, perché in effetti ben poco si accordava alla linea ufficiale del Partito ed alle granitiche certezze dell’aritmetica politica, ove la semplice proporzione 70/30 e la dicitura “banda dei Quattro” (o “Quattro più Uno”, come talvolta si sente dire…) chiudono il conto con il maoismo. Errori e fallimenti vanno imputati all’operato di una sparuta manciata di dirigenti; la figura del leader storico, con un gioco di prestigio davvero notevole, verrà fatta scomparire mettendone l’effigie in primo piano, ben in vista sulla piazza Tian’anmen e sulle banconote di piccolo e grosso taglio; in breve, il Partito è salvo.
Ba Jin, di nuovo, con la sua proposta avrebbe potuto arrecare un qualche fastidio al potere, se non fosse che a quel punto era già anziano e facilmente neutralizzabile tramite i riconoscimenti ufficiali di facciata, che il Partito non mancò di conferirgli. Comunque, nella “Prefazione all’edizione in un volume unico” dei suoi “Pensieri”, nel 1987, due anni prima dei fatti di Tian’anmen, scriverà: “Loro non vogliono che si costruisca un museo della Rivoluzione Culturale, taluni nemmeno permettono che si discuta della Rivoluzione Culturale, vogliono farci dimenticare le cose che sono accadute sul nostro suolo”.
Non ci è dato sapere a chi esattamente si riferisse l’autore quando citava questi generici tamen 他们, youderen 有的人, anche se, vista l’odierna amnesia storica, non è difficile immaginare che il suo dito puntasse in alto, molto in alto. Mancando l’edificio fisico, ricorda la suddetta “Prefazione”, saranno i “Pensieri” stessi, con le loro settecento pagine, a fare le veci del museo. E forse è racchiuso in una sola frase il segreto della Rivoluzione Culturale per Ba Jin, una frase che solo un anarchico può pronunciare, o fors’anche un bambino, perché è così semplice, scritta in una lingua così cristallina da risultare quasi piatta; apparentemente banale, eppure abissale – e del resto questa è la cifra stilistica dell’autore. Una frase che coglie non solo la visione storica dello scrittore, ma anche e soprattutto il rapporto fra questi e il potere:
Laddove non ci sono Dei da venerare, non ci sono neppure mostri o bestie da punire – e siamo solo e semplicemente uomini.
[Qui per leggere l’originale]Di Gaia Perini per Sinosfere*
**Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.