La tesi L’economia della conoscenza in Cina – Il ruolo dello Human Factor nella transizione cognitiva dimostra come esista oggi una vera e propria economia della conoscenza in Cina che, seppur ancora con le molte ombre che la caratterizzano, si stia affermando e sia il futuro della nuova potenza economica sulla scena mondiale.
Due importanti cambiamenti stanno caratterizzando il XXI secolo sotto gli occhi di molti che li sottovalutano o li respingono, rifiutandosi di accettare la grande trasformazione che sta avvenendo nella società e nell’economia. Il primo fenomeno è la transizione dal capitalismo fordista industriale al capitalismo cognitivo. Sempre più oggi si produce denaro a mezzo di conoscenza, una risorsa che grazie alle nuove tecnologie è diventata sempre più fruibile, accessibile e replicabile e che ha acquisito un immenso valore per la produzione di capitale immateriale alla base della futura economia mondiale. Il secondo grande cambiamento è l’avvento della Cina come potenza economica a livello mondiale. Da Deng Xiaoping in poi la Cina ha spalancato le sue porte ai mercati mondiali ed è arrivata oggi a essere seconda solo agli Stati Uniti.
Ho voluto analizzare come questi due avvenimenti del nostro secolo non siano tra loro scollegati, ma al contrario di come esista oggi una vera e propria economia della conoscenza in Cina che, seppur ancora con le molte ombre che la caratterizzano, si stia affermando e sia il futuro della nuova potenza economica sulla scena mondiale. In passato la Cina era un grande impero, il cosiddetto Regno di Mezzo, dove vissero molti intellettuali e dove nacquero alcune fondamentali invenzioni come la bussola, la carta, la polvere da sparo ecc. L’innovazione e la creatività erano però viste come minacce per la stabilità della società cinese, fortemente legata alle tradizioni e basata su motti come quello confuciano “Io non innovo, tramando”. Dagli anni Ottanta, con la politica della porta aperta di Deng Xiaoping, la Cina si è aperta al mondo e ai mercati esteri e da allora negli ultimi decenni si è assistito a una crescita annuale del PIL pari al 9/10%. Nel 2014, però, questa percentuale è scesa al 7,4%, la più bassa dal 1990. Molti prevedono per i prossimi anni un continuo rallentamento a cui il Governo cinese dovrà far fronte per rimanere tra le prime potenze economiche a livello mondiale. La leadership cinese ha dichiarato di non essere troppo preoccupata per questo rallentamento e che punterà sull’innovazione effettuando il passaggio, già annunciato, dal Made in China al Created in China.
Per anni l’economia cinese si è basata principalmente sulla produzione manifatturiera e su settori a basso contenuto tecnologico. Per la transizione verso un’economia della conoscenza è necessario puntare su settori quali l’Istruzione, la Ricerca&Sviluppo, le Ict, le Biotecnologie e le Energie rinnovabili. Nonostante le contraddizioni ancora esistenti, la Cina ha già fatto molti passi avanti in questi campi ottenendo ottimi risultati. Secondo il Global Innovation Index del 2014, uno studio promosso dall’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale (OMPI), sul ruolo dell’innovazione nella crescita economica a livello mondiale; la Cina detiene la 29° posizione ed è al primo posto tra i Paesi a reddito medio-alto e al secondo posto, a livello mondiale, per l’indice di efficienza. Il tema del report del 2014 è lo Human Factor, o capitale umano. Questo termine ha differenti significati in base all’ambiente in cui viene utilizzato. ma genericamente è definito come l’insieme delle capacità dei lavoratori e il loro apporto per migliorare il contesto sociale ed economico in cui vivono. Per poter sviluppare e diffondere conoscenza i creatori dell’innovazione hanno bisogno di un buon livello di istruzione e apprendimento, di ambienti di lavoro creativi nei quali creare reti di condivisione della conoscenza e nei quali poter collaborare e co-creare.
Analizzando la situazione attuale in Cina sono stati individuati i principali attori dell’economia della conoscenza cinese. I knowledge workers, ossia i lavoratori della conoscenza, secondo uno studio di Hong Zhan, Tian Tang e Yue Zhang, per l’American Journal of Industrial and Business Management possono essere definiti come i lavoratori che creano prodotti e servizi ad alto valore aggiunto grazie alla loro conoscenza e alle loro capacità continuando ad aggiornarsi e a migliorare. Secondo i tre accademici vi sono alcune differenze fondamentali tra i knowledge workers cinesi e quelli occidentali. Queste differenze sono: la preferenza di un posto di lavoro sicuro e stabile, a causa dell’instabilità del mercato lavorativo cinese, rispetto al desiderio di maggiori benefit e compensi richiesti dagli occidentali; la ricerca di una libertà individuale intesa come semplice accumulo di ricchezza privata e prestigio e non come libertà politica, a causa del rigido controllo del governo e per l’ancora diffusa diffidenza verso i “settori creativi”. E, infine, il maggiore interesse verso i propri obiettivi personali rispetto a quelli dell’azienda.
Se fino ad oggi moltissimi cinesi, interessati a un impiego nei settori ad alto contenuto tecnologico, sono emigrati all’estero per studi o lavoro, oggi il processo del brain drain si sta invertendo con il ritorno in patria degli haigui, tartarughe marine, termine che con un gioco di parole in lingua cinese indica coloro che hanno studiato nelle università straniere o lavorato all’estero, ma che decidono di tornare in patria. Questo, unito all’arrivo di molti stranieri attratti dalle possibilità del vasto mercato cinese. I secondi protagonisti del passaggio al Created in China sono le aziende cinesi, non solo quelle sviluppatesi nelle Zone Economiche Speciali (ZES) e focalizzate sull’esportazione, ma soprattutto quelle concentrate sulle potenzialità del mercato interno cinese. Ad esempio nella periferia di Pechino si è creata una vera e propria Silicon Valley cinese, Zhong Guan Cun, dove sono nate alcune de delle più importanti marche conosciute anche al’estero come Lenovo e Tencent. Le aziende straniere, invece, che dagli anni Ottanta fino a pochi anni fa delocalizzavano in Cina la propria produzione, prevalentemente in settori a basso livello tecnologico, preferiscono oggi de localizzare nei paesi del sud est asiatico, come Vietnam, Laos e Cambogia, dove la manodopera è più conveniente e dove la stessa Cina sta esportando la propria produzione manifatturiera.
Per continuare ad attratte Investimenti Diretti all’estero (IDE), la Cina deve quindi puntare sui settori ad alto contenuto cognitivo, promuovendo collaborazioni con gli altri Paesi, creando incentivi per attrarre knowledge workers altamente qualificati e soprattutto favorendo una migliore protezione della Proprietà Intellettuale, spesso causa di timore per le aziende che valutano di esportare il proprio know-how in Cina. Negli ultimi anni la Cina ha fatto molto per migliore la protezione della Proprietà Intellettuale, aderendo ai principali trattati internazionali, sviluppando una normativa nazionale in continua revisione (entro il 2015 ad esempio verrà completata la revisione della legge sul diritto d’autore); istituendo organismi nazionali specializzati e da ultimo nel 2014, ha creato due corti specializzate, i cosiddetti “super tribunali” di Pechino e Guangdong, proprio per le cause in materia di Proprietà intellettuale. Anche se i casi di falsificazione e violazione della Proprietà intellettuale sono ancora numerosi e a volte difficili da controllare molti passi avanti sono stati fatti per attirare le imprese straniere.
L’ultimo attore, forse quello che detiene il ruolo principale, è il Governo cinese. Pur riconoscendo il ruolo fondamentale dell’innovazione per il futuro sviluppo economico della Cina teme che la libera circolazione di idee e la nascita di ambienti creativi, in cui venga diffusa conoscenza, portino a una limitazione dei suoi poteri e a una richiesta di libertà politica da parte della popolazione. Ma se vuole affermare il ruolo della Cina come potenza economica mondiale e come modello di sviluppo per gli altri Paesi deve diventare promotore dell’innovazione favorendo lo sviluppo di istituzione pubbliche e private che favoriscano la diffusione di conoscenza. Il percorso perché la Cina si trasformi in una moderna società della conoscenza è ancora lungo, ci sono molte contraddizioni, un legame ancora forte con antiche ideologie e un’alta diffusione della corruzione. Spesso germogli di idee innovative che nascono vengono subito calpestate se in contrasto con le idee del Partito Comunista. Un concetto molto caro ai cinesi è quello di mianzi, la faccia, il prestigio: se il Governo vuole affermare il ruolo della Cina a livello mondiale deve diventare promotore un nuovo modello di sviluppo basato su conoscenza e innovazione.
*Veronica Ferrari, veronica.ferrari02[@]universitadipavia.it, nata a Genova il 22 Febbraio 1994, inizia a studiare la lingua e la cultura cinese al Liceo linguistico G. Deledda di Genova, dove la sua passione accresce anche grazie ad alcuni viaggi in diverse parti della Cina per studio e piacere. Si laurea a Pavia, nel febbraio 2015, nel corso di laurea triennale in Comunicazione, Innovazione e Multimedialità con una tesi sullo sviluppo dell’economia della conoscenza in Cina. Per approfondire la sua altra grande passione, il giornalismo, si trasferisce a Londra per studiare presso la London School of Journalism.
**Questa tesi è stata discussa presso l’Università degli Studi di Pavia. Relatore: prof. Andrea Fumagalli; correlatrice: prof.sa Simona Lavagnini.