La tesi La montagna svuotata. Traduzione e commento di alcuni capitoli del romanzo di A Lai ci porta in un villaggio immaginario e ci rende testimoni del doloroso processo di sinazzazione del Tibet dal punto di vista della gente comune e della sua quotidianeità. Un romanzo costruito come un mandala, un viaggio dagli anni ’50 agli anni ’90 del secolo scorso.
Tra le montagne del Tibet si trova il villaggio immaginario di Jicun, che nella trilogia Kōngshān "la montagna svuotata" dell’autore sinotibetano A Lai diventa lo scenario e il simbolo dei cambiamenti che hanno animato il Tibet dopo l’annessione alla Repubblica Popolare Cinese.
I volti e le azioni di chi ha subito questi sconvolgimenti storici sono presentati grazie ai sei romanzi brevi che costituiscono l’opera e ai dodici brevi racconti che li intervallano, in cui la società rurale tibetana è la vera protagonista della scena. Dal coro uniforme degli abitanti del villaggio si distaccano personaggi sempre diversi che, al termine del loro breve assolo, tornano a confondersi con la massa omogenea che non fa solo da sfondo alle vicende, ma ne è anche parte attiva.
La tragica morte di due bambini causata da dei petardi han che celebravano le innovazioni della Repubblica Popolare Cinese; la fine dell’ultimo stregone ribelle che manteneva in vita la fede tibetana e ne praticasse i riti; la follia omicida di un ex-soldato d’occupazione britannico rimasto in Tibet per amore; la fallita ricerca di una terra promessa in cui emigrare o il completo disboscamento delle montagne per venderne il prezioso legname sono solo alcuni dei drammi che hanno scosso gli abitanti del villaggio dagli anni ’50 agli anni ’90.
Quella che la Cina chiama jiěfàng "liberazione" del Tibet, e l’Occidente "conquista", è descritta in Kōngshān in modo inedito: l’attenzione non è più rivolta ai grandi meccanismi politici diretti da Pechino, ma alla sottile voce degli abitanti di un piccolo villaggio, la cui esistenza non è minimamente influente nel corso della storia ufficiale.
Si tratta di una presentazione della questione tibetana del tutto nuova: non più deduttiva, in cui dai grandi eventi si arriva a capire il dettaglio dei singoli gesti quotidiani, ma induttiva, dove dall’unione dei più piccoli particolari si arriva a dipingere il quadro completo e generale.
Il processo induttivo è aiutato da due caratteristiche inedite della trilogia: la struttura e lo sguardo attento verso i personaggi minori. La struttura, chiamata dall’autore stesso "a petalo", è molto frammentata: sperimentalismi formali s’inseguono tra continui cambi di prospettiva e focalizzazioni dapprima interne e poi esterne, che diventano il simbolo della confusione in cui vive il popolo tibetano.
Nonostante la forma contorta e spezzettata, tutti i romanzi brevi che costituiscono la trilogia vanno a unirsi in un centro concettuale, basato sull’identità culturale tibetana, creando così un meraviglioso fiore la cui corolla è formata dai drammi del popolo tibetano.
I personaggi minori diventano quindi eroi dei loro fatti quotidiani e nella scala ridotta del villaggio diventano epici eroi di grandi gesta. Anche la gente comune che vive, cresce, s’innamora, soffre e muore all’ombra delle sperdute montagne del Tibet può occupare ora il centro dell’attenzione.
Il mosaico degli abitanti del villaggio lascia spazio, in ogni romanzo breve, alle azioni di chi prova a barcamenarsi tra la jiù shèhuì "vecchia società", caratterizzata da tradizioni secolari, superstizioni e forte fede religiosa e la xīn shèhuì "nuova società" in cui dominano le organizzazioni sociopolitiche comuniste e il credo maoista sostituisce quello buddhista.
Il confine segnato dall’annessione alla Cina condiziona l’abito mentale degli abitanti, divisi in due gruppi distinti: i progressisti che cavalcano l’onda della "nuova società", fieri dei cambiamenti che la Repubblica Popolare porta in Cina che non si preoccupano di sotterrare la loro identità culturale e chi ancora rimpiange la "vecchia società", vivendo invece schiacciato dai cambiamenti e soffrendo di fronte alla crisi dei valori e all’ibridazione culturale di cui è inconsapevole testimone.
Questa organizzazione dei personaggi lascia al lettore un’immagine del Tibet violato e non liberato dalla potenza cinese (il che ha attirato alcune critiche negative sul romanzo) ma l’amara conclusione lascia intendere che ormai il processo di sinizzazione del Tibet è pressoché completato.
Nell’ultimo romanzo breve infatti si proporrà la costruzione di un museo che ricordi a chi abita il Tibet degli anni ’90 l’identità culturale che un tempo animava quelle terre.
Dopo la "liberazione", gli abitanti del Tibet sono paradossalmente meno liberi, la loro economia improntata sulla dimensione del villaggio deve adattarsi alle esigenze di una nazione e le decisioni politiche non dipendono più dal tǔsī, dal signore della zona, ma da un governo centrale e distante che impone i suoi meccanismi, le sue ideologie e addirittura la sua lingua.
Questo diverso ambiente sociale non è visto però nelle opere di A Lai come una limitazione delle libertà personali del singolo individuo, né come un freno per l’autore nel descrivere la vita quotidiana della gente comune: quanto si legge non è frutto di censure o di polemiche, ma il ritratto completo della vita del villaggio con l’amara consapevolezza che nei grandi meccanismi che reggono uno stato, l’esistenza o meno di un misero villaggio non crea alcuna differenza.
La categorizzazione spaziale non è quindi un semplice dettaglio, ma anche una componente fondamentale della trama che A Lai ha saputo sfruttare e presentare in ogni sua sfumatura: per quanto piccolo o limitato, ogni spazio ha la sua caratteristica peculiare quando diventa teatro di determinate azioni ed è compito del lettore coglierne il significato.
La piazza centrale del villaggio, ad esempio, ospita quasi tutti gli eventi più tragici; i boschi e le aree periferiche sono i testimoni di quello che rimane della spiritualità del popolo, mentre tutti i fattori destinati a sconvolgere la quiete degli abitanti arrivano dall’esterno, insieme alle innovazioni han e ai fattori che danneggeranno la cultura del Tibet.
Tanti sono i segnali del declino culturale che si possono leggere nel libro, primo fra tutti è la necessità di una nuova lingua: la lingua tibetana non è più sufficiente per descrivere la nuova realtà sociale o materiale introdotta dagli han e sempre più abitanti, utilizzando il mandarino, onorano la silenziosa morte della loro identità culturale.
Le pratiche religiose vengono poi sostituite dalle pratiche politiche: i ritrovi al tempio sono sostituiti con i comizi e le riunioni di partito, la recita dei Sutra prima dei pasti con la lettura del Libretto Rosso, le statue dei bodhisattva con le foto di Mao, il rispettoso timore verso il clero da quello verso le autorità civili.
L’uso della lingua è stato scelto ad arte: se lingua e cultura sono strettamente legate, a una crisi culturale corrisponderà anche una crisi linguistica. Osservando l’incidenza di determinati gruppi di termini all’interno della trilogia si può notare, quindi, che nei primi racconti, in cui l’identità culturale tibetana è ancora viva (anche se sulla via del declino), compaiono con grande frequenza i termini che si riferiscono ad abitudini quotidiane distintive della religione buddhista e della tradizione tibetana.
Procedendo nella lettura, però, questi vengono dapprima affiancati e poi sostituiti da un’altra categoria di termini: quelli relativi all’organizzazione sociopolitica cinese e all’ideologia comunista. Anche a livello lessicale, quindi, la trilogia riesce a dimostrare come la religione buddhista sia soppiantata dal maoismo e il sistema politico dei clan e la sua economia di sussistenza sia stato ridimensionato su scala nazionale.
La componente etnografica è il filo conduttore non solo dei racconti che formano la trilogia, ma di tutta l’opera di A Lai. Nato nel 1959 nella provincia cinese del Sichuan, al confine con il Tibet, da madre tibetana e padre di etnia hui, A Lai è, anche per motivi biografici, l’autore più indicato per raccontare alla Cina le particolarità delle minoranze etniche, dalla loro storia ai loro sviluppi presenti.
Grazie ai colori inediti con cui ha tratteggiato la regione in cui è nato, l’autore è riuscito a portare la sua terra dai margini geografici e culturali della Cina al centro del panorama letterario internazionale.
Già noto in Italia per il bestseller Chén’āiluòdiǹg, Rossi Fiori Del Tibet,(ritradotto però dall’inglese), A Lai abbandona lo stile favolistico e di semplice lettura di Rossi Fiori Del Tibet per arrivare all’estrema difficoltà stilistica di Kōngshān, in cui la struttura contorta, la ricerca di un certo realismo e i toni crudi ne fanno una lettura difficile che richiede una certa maturità e capacità critica nel lettore.
Non vuole trascinare in una lettura scorrevole, ma costringere il lettore a fermarsi a riflettere. Consapevole che una lettura più impegnativa avrebbe scoraggiato alcuni lettori, A Lai vuole comunque adattare il proprio stile agli eventi narrati, che richiedono una preparazione diversa e un’acuta capacità di riflessione.
Il pubblico di giovani che ha saputo apprezzare Rossi Fiori Del Tibet dovrà trovare la maturità necessaria ad affrontare una lettura più impegnativa, ma il pubblico di adulti che non riteneva il romanzo abbastanza profondo potrà ora apprezzare maggiormente le opere di A Lai. I lettori che si sono affezionati a Rossi Fiori del Tibet e al suo stile scorrevole e di facile lettura sono sicuramente rimasti spiazzati da Kōngshān e dalla sua complessità.
La crisi dei valori del presente e le difficoltà incontrate nella creazione di un nuovo ordine, non possono essere descritte a cuor leggero.
Proprio la crisi dei valori e la fine dell’identità linguistica e culturale tibetana spinge a tradurre il titolo dell’opera, Kōngshān, con "montagna svuotata": anche il titolo, infatti, testimonia il passaggio da un passato con una cultura forte e ben definita, ad un presente in cui i valori sono sbiaditi fino a lasciare il territorio privo di ogni sua caratteristica e depredato della sua identità culturale. L’aggettivo kōng non indica quindi "vuoto" in senso statico, ma il processo dinamico che a partire dagli anni ’50 arriva, racconto dopo racconto, agli anni ’90.
Il tramonto della cultura tibetana è però descritto in modo nuovo: non si legge in A Lai rabbia, critica o indignazione, solo un senso d’inevitabilità e rassegnazione. Il popolo tibetano è inconsapevole dei rischi che corre la propria identità e indipendenza culturale e con la mansuetudine che lo caratterizza vive (o meglio, subisce) il cambiamento.
L’oggetto della tesi è tradurre un passaggio chiave all’interno della trilogia e portare una nuova voce al dibattito sulla questione tibetana, cioè quella di chi si mette dal lato del popolo e riesce a rendere il lettore partecipe del disagio culturale che il Tibet sta vivendo, pur senza attraversare il confine della dissidenza.
Dopo un’analisi narratologica sull’opera, si è quindi proceduto con la traduzione e con un commento traduttologico che mettesse in luce le interessanti questioni emerse nel processo traduttivo. Ad un’analisi dei fattori lessicali, linguistici e culturali che hanno caratterizzato la traduzione nei suoi aspetti pratici ed operativi specifici, segue poi un breve glossario che mette a confronto le diverse aree tematiche a cui appartengono i termini collegati alla cultura Han e alla cultura tibetana: i primi saranno collegati alla nuova realtà sociopolitica (con riferimento all’organizzazione sociale comunista), i secondi invece riguardano la realtà religiosa che sta tramontando per lasciare spazio alla nuova società.
Per poter meglio valorizzare il confronto culturale, si è inoltre scelto di seguire una macrostrategia traduttiva straniante che avvicini il lettore al testo di partenza e a tutte le sue peculiari caratteristiche. Diversamente dal solito, in cui la traduzione coinvolge solo una cultura emittente e una ricevente, si vedono qui coinvolte tre culture, (cultura han, tibetana e italiana): per non sottovalutare l’importanza dello scambio culturale e avvicinare il lettore ad entrambe le culture, si è deciso di non addomesticare nessun passaggio della traduzione e sfidare la cultura italiana nella lettura di un testo in cui non mancano riferimenti a tradizioni distanti, pratiche religiose sconosciute e una realtà materiale formata da gesti o oggetti mai incontrati.
La dominante del testo di partenza è istruire il lettore modello (cioè gli han dotati della giusta preparazione culturale) sul doloroso processo di sinizzazione del Tibet. Nel testo d’arrivo si avrà invece una leggera modifica: ad una dominante che vuole mostrare al lettore italiano la difficile situazione del popolo tibetano, si associa una sottodominante che vuole coinvolgerlo in questa questione storica e politica che è sempre stata vista attraverso il filtro dell’opinione pubblica Occidentale e mai con gli occhi della Cina.
In una situazione sociopolitica intricata in cui gli oscuri meccanismi del potere adombrano la serenità del popolo, A Lai ha saputo spostare l’attenzione del pubblico dalla Storia alla vita della gente comune, vera vittima degli eventi. La lettura rappresenta una sfida per il lettore occidentale che sia disposto a vedere i fatti da un punto di vista nuovo e a farsi trascinare nella lettura, pagina dopo pagina.
* Beatrice Ceresini, beatriceceresini[@]fastwebmail.it, nata a Chiavari (GE) il 25/01/1989, si laurea nel 2011 in Mediazione Linguistica e Culturale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dopo un periodo di studio alla East China Normal University di Shanghai e un periodo di lavoro presso la Camera di Commercio Italiana a Hong Kong in cui seguire la promozione del made in Italy in Asia, la laurea in Interpretariato e Traduzione Editoriale, Settoriale segna un’altra tappa nell’avvicinamento al fascino della cultura cinese.
**Questa tesi è stata discussa presso Università Ca’ Foscari di Venezia. Relatore: prof. Paolo Magagnin. Si può leggere uno stralcio della traduzione su Caratteri cinesi.
[La foto di copertina è di Federica Festagallo]