SINOLOGIE – La doppia diaspora dei sinoindiani

In by Simone

La tesi La guerra sino-indiana: la diaspora dimenticata è un contributo alla studio della comunità cinese residenze in India. Attraverso testimonianze e racconti autobiografici ripercorre i cinquant’anni trascorsi dal conflitto sinoindiano cercando di ricostriure attrverso i ricordi una storia dolorosa di cui nessuno parla più.
Sono trascorsi cinquant’anni dall’inizio della guerra di confine sino-indiana (Cinese: Zhōng-Yìn Biānjìng Zhànzhēng 中 印 边 境 战 争; Hindi: Bhārat-Chīn Yuddha  भारत-चीन युद्ध ), conflitto che sebbene mai ufficialmente dichiarato è ancora vivo tutt’oggi, ammansito dalle crescenti relazioni economiche fra i due Paesi, ma mai realmente concluso, anzi prolungatosi nella finta calma di un dialogo infruttuoso che, alle porte del suo sedicesimo incontro, ancora non sembra trovare soluzione.

Gli scontri armati iniziarono il 20 ottobre del 1962 e durarono per circa 30 giorni portando la Cina alla riconquista dei territori dell’Aksai Chin e dell’Arunanchal Pradesh rivendicati come un furto dell’imperialismo britannico sin dal 1913 quando, durante la “Conferenza di Simla”, l’Inghilterra allargò senza autorizzazione alcuna i confini dell’India. Lo scontro armato si concluse il 20 novembre 1962, la strategia della guerra lampo si prefigurava infatti inevitabile per non scomodare la reazione internazionale, tanto più in un momento storico in cui l’attenzione era dirottata sugli avvenimenti della Baia dei Porci cubana. Pechino diede a Delhi una lezione indimenticabile e poi si ritirò prontamente dai territori conquistati, ma non dall’Aksai Chin, dichiarando il cessate il fuoco e respingendo in questo modo l’aiuto americano in soccorso dell’India.

Il 20 ottobre 2012 ha segnato il 50° anniversario del conflitto, diversi sono stati gli aspetti sottolineati dalla stampa internazionale in merito allo scontro, alle sue cause e alle sue ragioni, agli attuali rapporti fra i due Paesi e alle prospettive che si aprono per il futuro. La stampa indiana, che ha parlato diffusamente dell’evento, non ha mancato di tessere le lodi degli esempi d’eroismo con cui il suo popolo ha affrontato l’aggressione, investendo ancora una volta sull’ormai vacillante sentimento nazionalista. Di contro, la stampa cinese ha riservato alla questione la discrezione tipica degli avvenimenti scomodi, usufruendo per l’occasione di tutto l’armamentario diplomatico d’occorrenza.

La sconfitta del 1962, una ferita mai rimarginata per l’India, fece scattare l’ordine d’arresto per tutti i cittadini cinesi del subcontinente. La follia nazionalista, alimentata dall’orgoglio ferito dell’ancor giovane nazione indiana, si accanì su quanti avessero discendenze etniche cinesi. Le autorità indiane accusarono questi cittadini, ormai totalmente integrati nel tessuto sociale dell’India, di essere spie del governo comunista. Su tale base Delhi ordinò l’espatrio e la reclusione delle comunità sino-indiane presenti in India. Molti dei civili condannati quali “cittadini di uno stato nemico” (la Repubblica Popolare Cinese) non erano mai stati in Cina. La storia della migrazione cinese in India è infatti ben più lunga di quella del conflitto e affonda le sue radici nel XIX secolo, quando una prima ondata migratoria fece del subcontinente una meta ambita per le grandi possibilità economiche.

Una seconda migrazione portò sul territorio anche la presenza femminile, riunendo e creando allo stesso tempo nuove famiglie, infine la guerra civile e la presa di potere comunista in Cina nel 1949 contribuirono alla formazione e allo stabilimento delle prime comunità sino-indiane. La città di Calcutta, straordinario magnete culturale, si prestò quale terreno ideale per ospitare la presenza cinese che si concentrò inizialmente nell’area nota come “Chinapara” (zona dei cinesi), al centro della città, e poi nell’area più isolata di Tangra, riconosciuta come l’attuale Chinatown di Calcutta.

Fra le minoranze emigrate in India, quella cinese è probabilmente una delle meno note e meno comprese. Unica nel suo genere, offre un quadro significativo di una comunità che visibilmente, a livello sia linguistico sia etnico, differisce da quella dominante. La posizione della Chinatown è una questione affascinante da considerare, specialmente in termini antropologici, poiché la comunità, isolata spazialmente, politicamente ed economicamente nella periferia di Calcutta, ha mantenuto un altissimo livello di chiusura che non si presta né si è prestato ad alcuna assimilazione o acculturazione da parte della comunità dominante. I cinesi giunsero in India durante il periodo coloniale spinti da interessi puramente economici che limitarono l’interazione con il gruppo dominante e con gli inglesi ad un livello superficiale e puramente affaristico.

Differentemente dalle altre minoranze sul territorio, essi non cercarono l’assimilazione al paradigma inglese o indiano ma seppero, proprio in virtù della loro peculiarità, trovare un proprio spazio economico. Luogo d’origine e occupazione crearono una profonda connessione a Calcutta. La popolazione cinese che era giunta in India proveniva, per la maggior parte, da tre regioni della Cina: il Guangdong, il Fujian e l’Hubei. Tra queste persone, quelle di etnia hakka erano le più numerose. I tre gruppi etnici si occupavano di lavori diversi e svolgevano, rispettivamente, i mestieri di carpentieri (cantonesi), conciatori e calzolai (hakka), e dentisti (cinesi provenienti dall’Hubei).

Queste professioni, all’interno delle dinamiche economiche della città e per la natura della società indiana – fondata su un sistema castale piuttosto rigido – relegarono la minoranza cinese allo status di intoccabili, il gradino più basso sulla scala sociale. A questi fattori dobbiamo poi sommare l’idea di un’identità culturale molto forte, sopratutto nel caso degli hakka, che ha cercato di preservare le proprie radici in terra straniera e, nel contempo, rivendica il proprio spazio di cittadinanza indiana. Le dinamiche multiculturali, la formazione di un’identità ibrida, il concetto di appartenenza, il senso di comunità, l’esperienza diasporica che caratterizzarono l’esperienza sino-indiana sono gli ingredienti principali di The Palm Leaf Fan and other Stories, collezione di brevi racconti con cui la scrittrice Kwai-Yun Li offre uno spaccato della quotidianità del vivere nella Calcutta degli anni ’50 e ’60.

La realtà sino-indiana è presentata attraverso la narrazione di uno spostamento geografico triangolare che trova in Cina la propria origine, in India la propria formazione identitaria ed infine in occidente, a Toronto, la propria destinazione, ma non la propria casa. L’opera ritrae nel dettaglio la complessità della doppia migrazione sino-indiana, nell’individuazione di un’identità di formazione indiana ma di collocazione canadese. La stessa Kwai-Yun Li, è un esempio di scrittrice della diaspora, che non ha semplicemente lasciato un luogo per spostarsi in un altro, ma che abita uno spazio intermedio fra i due, un terzo spazio liminale ed ibrido, nella definizione che ne darebbe Homi Bhabha. Molte delle storie contenute nella raccolta sono evidentemente connesse all’esperienza della vita dell’autrice che, dopo essere emigrata in Canada, ha intrapreso una serie di ricerche sulla comunità sino-indiana le quali, nel 2006, hanno portato alla pubblicazione dell’opera in questione: la prima raccolta di racconti a narrare l’esperienza del vivere a Calcutta attraverso gli occhi di una diretta testimone della comunità migrante.

Se la stampa internazionale, al 50°anniversario del conflitto, ha continuato a tacere la tragedia che investì la comunità sino-indiana a seguito del conflitto del 1962, Yin Marsh ha invece scelto proprio questa ricorrenza per il lancio ufficiale del suo libro Doing Time with Nehru. La curiosità della figlia, il ritorno a Calcutta per un matrimonio e la scoperta, nel rincontrare i propri compagni di classe, che gli stessi indiani erano e sono ancora all’oscuro degli eventi che condannarono la comunità sino-indiana, hanno spinto Yin Marsh a far luce su un capitolo di storia ancora poco noto, nella speranza di incoraggiare quanti hanno subito la stessa violenza a raccontare e condividere la propria storia. Dopo 40 anni di silenzio l’autrice ha raccolto le sue memorie offrendoci all’interno della sua biografia un quadro completo degli eventi che interessarono la comunità sino-indiana, illustrando sapientemente come la politica fra i due Paesi e i loro scontri abbiano sconvolto la vita dei civili che si trovavano fra questi due mondi.

Allo scoppio della guerra, Yin Marsh, ancora tredicenne, risiedeva a Darjeeling, città relativamente vicina al confine conteso tra India e Cina, nella regione del nord-est indiano. Tale prossimità alla scena del conflitto causò non pochi problemi alla comunità sino-indiana che risiedeva in Sikkim e nella vicina regione dell’Assam. La maggior parte della popolazione di etnia cinese fu infatti trasferita in un campo di concentramento in Rajasthan, e ivi internata a Deoli. Doing Time with Nehru racconta la formazione scolastica a Darjeeling, l’atmosfera di tensione che precedette l’arresto della comunità e infine l’internamento e il rilascio a Deoli. Per ironia della sorte, il bungalow assegnato nel campo di concentramento a Yin e alla sua famiglia era esattamente lo stesso che era stato assegnato un tempo, durante la guerra per l’indipendenza, al presidente Nehru, colui che nel ’62 firmò l’arresto dei “traditori” cinesi residenti su suolo indiano.

La leadership indiana avviò un vero e proprio rastrellamento della comunità sino-indiana: intere famiglie furono arrestate e portate via nel cuore della notte, senza alcuna possibilità di avvisare i propri parenti o amici. Stipate sui treni, furono spedite in Rajasthan, in una regione che non conoscevano, senza sapere cosa sarebbe stato di loro. Sebbene il conflitto non ebbe che la durata di un mese, gli ultimi internati furono rilasciati soltanto nel 1967, cinque anni dopo la cattura. Il governo indiano proibì loro il ritorno nelle case in cui vivevano prima dell’arresto: le loro proprietà e i loro averi erano già stati confiscati e ridistribuiti tra indiani influenti, che avevano guadagnato moltissimo dalla carcerazione dei cinesi. Questi ultimi, di contro, non avevano più niente.

Due leggi emanate nel 1962 e nel 1963, il “Foreigners Law Act” e il successivo “Foreigners Law Order”, avevano fortemente ristretto la libertà della popolazione sino-indiana, la vita divenne ben presto intollerabile e le ingiustizie quotidiane. La comunità sino-indiana prima del conflitto contava circa 40mila membri. Di questi, quelli che non furono espatriati nell’immediato dopoguerra, furono rinchiusi a Deoli; quelli che sopravvissero alla prigionia furono espropriati dei loro averi e confinati nelle loro città, sempre che non gliene fosse impedito il ritorno. Queste enormi difficoltà portarono a una seconda migrazione. La comunità trovò rifugio in nuovi territori e un’interessante concentrazione sino-indiana è evidente nell’area di Toronto, in Canada. Sebbene in una nuova terra, il legame con l’India e la sua cultura rimane profondo.

L’India, pur rappresentando uno spazio intermedio nella doppia migrazione, è stato per la maggior parte di questi migranti il luogo di crescita e formazione identitaria: per loro, Calcutta è il luogo in cui si fa ritorno in occasione del Capodanno Cinese, è il luogo della propria infanzia per alcuni, e della scoperta delle proprie radici per altri. La doppia diaspora ha investito quanti hanno trovato rifugio in America di un nuovo tassello multiculturale: un’identità sino-indo-americana. Come Yin Marsh ha dichiarato nell’intervista, avvenuta tramite uno scambio di e-mail nel novembre 2012 e parte della tesi, la scrittura dell’opera è stata un’esperienza catartica:

Because the Chinese Internement, I was ashamed to be Chinese and never spoke of this for forty years. The four years of writing has been very cathartic for me. My daughter sums in up very well in the Forewood of my book – My mother seems more at peace than ever and complete in her identity. She is all at once, Chinese, American and Indian.”

Quello della deportazione cinese è un capitolo ancora poco noto fra gli stessi indiani: solo di recente alcune vittime hanno trovato il coraggio di raccontare questa dolorosa esperienza, sentendo il dovere di farsi portavoce di qualcosa che non può rimanere sepolto nel proprio passato. Yin Marsh, Kwai-Yun Li e altri come Hsieh Ming-tung, da parte cinese, e Rita Chowdhury, da parte indiana, hanno offerto con le proprie opere un vero e proprio spaccato della comunità sino-indiana e delle difficoltà che essa dovette subire all’indomani del conflitto, offrendo al lettore un quadro che sapientemente ritrae l’atmosfera, i cambiamenti e la triste realtà di quei giorni.

Ma cosa resta oggi della comunità cinese di Calcutta? Se di Chinapara è rimasto ben poco, Tangra sopravvive, anche se ridotta a una popolazione etnicamente cinese di appena duemila abitanti. La migrazione, tuttavia, non si è mai conclusa: sono molti coloro che continuano a spostarsi alla ricerca di migliori possibilità. D’altra parte nel corso della mia ricerca sono rimasta colpita dallo scoprire un crescente attivismo da parte di quanti sono rimasti. Sono diverse le associazioni e i blog che cercano di preservare l’identità della Chinatown, che si preoccupano di raccogliere e diffondere gli studi e le pubblicazioni crescenti a riguardo, che si propongono di rilanciare Dhapa e, nel contempo, di preservare la propria identità e poi di ricordare quanto è successo perché, anche se triste, è la propria storia e raccontarla al mondo significa poter condividere e ricordare, affinché quanto è successo non resti in balia del tempo ma faccia parte della memoria degli uomini e con essa si conservi.

*Maura Fancello mauraaa.89[@]gmail.com è nata a Nuoro il 25 ottobre 1989, dove ha vissuto e studiato fino al 2008. Lo stesso anno ha iniziato l’allora università di “Studi Orientali”, divenuta nel corso degli anni e degli accorpamenti “Facoltà di lettere e filosofia”, dove ha intrapreso lo studio delle lingue cinese e hindi laureandosi a pieni voti lo scorso dicembre. Tra il 2011 e 2012 ha trascorso alcuni mesi in Inghilterra, a Totnes, un piccolo paesino nel Devon in cui ha avuto modo di migliorare il suo inglese alla “Language in Totnes” e osservare da vicino il modello economico della Transition Town. Ha trascorso l’ultimo semestre universitario alla Beijing Foreign Studies University” dove ha seguito i corsi di cinese e sostenuto l’ultimo esame di lingua previsto dal suo corso di studi.

** Questa tesi è stata presentata all’Università degli Studi di Roma La Sapienza: relatore prof. Federico Masini. La prof.ssa Mara Matta, inoltre, ha collaborato a seguire la studentessa dal lavoro di ricerca alla stesura della tesi.

[La foto di copertina è di Federica Festagallo]