SINOLOGIE – La Cina e l’ambiente

In by Simone

La tesi La Cina e l’ambiente. Il ruolo della Cina nelle Conferenze Internazionali sul clima esamina l’approccio scientifico, sociale, economico e legislativo ai problemi ambientali sotto una duplice prospettiva: interna e globale. L’analisi parte dalle conferenze internazionali sul clima, da Rio de Janeiro (1992) a Copenhagen (2009).

I problemi ambientali costituiscono un’urgenza ormai inderogabile, tanto più per un Paese come la Cina, che da sempre ha tenuto poco in considerazione la tutela del pianeta. Eppure la sua crescita economica, realizzata a ritmi estremamente accelerati, ha generato deficit ecologici senza eguali: polveri e fumo asfissiano le città, generando non pochi problemi di salute pubblica, i principali fiumi sono gravemente inquinati, siccità, inondazioni e frane sono fenomeni sempre più frequenti, mentre l’incessante attività estrattiva esaurisce le risorse naturali. La produzione cinese si basa, infatti, sull’utilizzo massiccio di combustibili fossili, in particolare il carbone, responsabili dell’aumento vertiginoso delle emissioni di biossido di carbonio e causa di gravissimi danni ambientali.

Quindi, se il Paese è ormai da tempo sotto i riflettori internazionali per la sua ascesa economica incessante, è anche fortemente criticato per i suoi standard di sviluppo, ancora molto lontani da modelli di sostenibilità ambientale, economica e sociale. Nonostante alcune manifestazioni di facciata, come le Olimpiadi verdi di Pechino (2008) e l’Expo di Shanghai (2010), dei quali la Cina si è servita per mettere in risalto davanti al mondo intero il proprio impegno per la causa della sostenibilità, in realtà, è inconcepibile per il Paese rallentare la crescita economica, in nome di motivazioni ecologiche: la priorità rimane quella di sollevare dalla povertà i milioni di cinesi, che, in particolare nelle aree interne, fanno ancora fatica a sopravvivere.

Infatti, sebbene il “gigante giallo” sia ormai una potenza economica a livello mondiale, le dimensioni del suo mercato siano in continua espansione e i prodotti made in China invadano ogni giorno i mercati di tutto il mondo, le contraddizioni al suo interno sono ancora molto marcate: il gap tra Nord e Sud del Paese, i problemi creati dall’espansione della popolazione, il livello medio di istruzione e i problemi ambientali rappresentano ancora profondi squilibri, che giustificano l’appartenenza della Cina al gruppo dei Paesi in via di sviluppo e, quindi, la necessità di anteporre la crescita economica a tutto il resto.

Eppure, è innegabile che la Cina sia il Paese con il più alto tasso di emissioni e ospiti ben sette delle dieci città più inquinanti al mondo. Questi fattori rendono sempre più difficile l’assimilazione della Cina all’interno del blocco dei Paesi in via di sviluppo e sorge spontaneo domandarsi come sia possibile che la seconda potenza economica mondiale, le cui emissioni, nel 2006, hanno addirittura superato quelle degli Stati Uniti, appartenga ancora a tale gruppo.

Sebbene la tutela ambientale non sia ancora tra i suoi obiettivi fondamentali, il governo cinese ha cercato in qualche modo di regolamentare la crescita, tenendo conto anche dei problemi ecologici, attraverso la promulgazione di numerose norme, a partire dalla “Legge sulla protezione ambientale” del 1979 fino alla “Legge sull’energia rinnovabile” del 2006. La normativa ambientale cinese non soffre, quindi, di carenze quantitative, ma qualitative: le leggi sono spesso troppo vaghe e la loro applicazione si scontra, quasi sempre, con gli interessi particolaristici delle amministrazioni locali.

Inoltre, in questi ultimi anni, anche in alcuni settori della popolazione cinese, stanno cominciando a manifestarsi alcuni tentativi, seppur timidi, per il miglioramento della propria condizione: ne è la prova la nascita del movimento ambientalista cinese, le cui proteste sono una forte fonte di instabilità per il Paese. Parallelamente, si è assistito all’insorgere, intorno alla metà degli anni novanta, delle prime ong cinesi impegnate per la causa ambientale, altra testimonianza che la Cina sta sviluppando una propria coscienza ecologica.

Nonostante siano ancora nella loro fase germinale e rappresentino, per il momento, un “fenomeno di nicchia”, incontrando spesso gli ostacoli imposti dal governo centrale, queste iniziative sono di fondamentale importanza e testimoniano che, in certi luoghi e in determinate fasce della popolazione, qualcosa sta cambiando e il Paese sta acquisendo maggior consapevolezza riguardo ai problemi ambientali.

Quindi, nonostante alcuni piccoli passi avanti, i risultati raggiunti non sono ancora minimamente soddisfacenti: l’industria cinese non riesce a superare il suo status di “fabbrica mondiale, con il risultato che la crescita attuale del paese non è certo condotta all’insegna della sostenibilità. 
È chiaro che la crisi ecologica non riguarda solo la Cina, ma è un fenomeno globale, causato proprio da livelli di consumo eccessivi, che sono alla base dei cambiamenti climatici e implicano uno sfruttamento non sostenibile della natura, un utilizzo massiccio del petrolio e del carbone e il depauperamento del suolo, in particolare attraverso la deforestazione.

Questa situazione, tuttavia, si è acutizzata con l’emergere di alcune economie in forte crescita, che, in questi ultimi anni, hanno aumentato massicciamente la produzione globale e premono in modo preoccupante sui limiti ambientali, come nel caso dei cosiddetti paesi del BASIC (Cina, India, Brasile e Sud Africa).

A ciò si aggiungono gli influssi della globalizzazione, che riconosce prioritaria la libertà di mercato, favorendo maggiormente gli interessi delle imprese transnazionali e dei Paesi più ricchi, piuttosto che concentrarsi sullo sradicamento della povertà, sulla ricerca dell’equità sociale e della sostenibilità ambientale.

La difficoltà principale per un cambiamento di rotta verso un mondo ecosostenibile, consiste nel fatto che le questioni economiche e politiche sembrano spesso avere la supremazia sui problemi ambientali, impedendo una collaborazione leale e fattiva tra i vari Paesi.  Questo è, infatti, ciò che emerge delle varie conferenze internazionali su clima ed ambiente, che ho analizzato considerando, in particolare, il ruolo che vi ha svolto la Cina, le sue strategie diplomatiche e la sua posizione nel blocco dei Paesi in via di sviluppo.

Se il “Paese di mezzo”, nella Conferenza di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo (1992), non è ancora al centro del dibattito internazionale, sarà, poi, nel periodo compreso tra la Conferenza di Kyoto (1997) e la successiva ratifica dell’omonimo protocollo (2005), che la crescita economica e le emissioni cinesi non potranno più passare inosservate. Infatti, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, il Paese ha confermato la sua ascesa come potenza economica mondiale, diventando un interlocutore su scala globale. Questo “passaggio di ruolo” della Cina, fu il risultato di una commistione di eventi: in primis, la crisi finanziaria asiatica (1997 – 1999), della quale il Paese riuscì a evitare il pieno impatto, assumendo un ruolo geopolitico fortissimo nell’area; poi, nel 2001, l’ingresso nel wto (World Trade Organization), che permise alla Cina di aprirsi maggiormente al commercio internazionale, accelerandone notevolmente la crescita economica.

Comunque, già a Kyoto, nel 1997, l’entità delle emissioni cinesi attirarono enormemente l’attenzione della comunità internazionale. La conferenza portò all’adozione di un protocollo, che entrò in vigore il 16 febbraio 2005. Il documento stabiliva tagli vincolanti per i Paesi industrializzati, obblighi che non venivano previsti, invece, per quelli in via di sviluppo e, quindi, anche per la Cina, che ne faceva parte. L’esclusione dai vincoli delle economie emergenti, tra cui spiccavano Cina e India, venne fortemente criticata dagli Stati Uniti, che, proprio in considerazione dell’alto tasso di emissioni di questi due Paesi, rifiutarono di ratificare il documento. A partire dal vertice di Kyoto del 1997, la Cina e gli Stati Uniti hanno rappresentato, nelle varie conferenze internazionali sul clima, le due posizioni più difficilmente conciliabili, per il raggiungimento di un accordo globale ed efficace.

Gli argomenti principali, sui quali si scontrano maggiormente le due più grandi economie mondiali, riguardano le rispettive responsabilità in quanto a emissioni, inquinamento e investimenti in energie pulite e quale dei due Paesi debba fare il primo passo sulla via della sostenibilità. Infatti, gli Stati Uniti, che, sotto l’amministrazione del presidente George Bush, si erano ritirati dal protocollo di Kyoto, premono perché anche la Cina e le altre economie in forte crescita vengano incluse nei tagli vincolanti, in quanto altamente inquinanti. Da parte sua, la Cina non vuole invece rinunciare allo status di Paese in via di sviluppo e rivendica il proprio diritto prioritario alla crescita economica, non accettando vincoli di riduzione di gas serra.

Questi contrasti esplosero nella Conferenza di Copenhagen (2009), che doveva rappresentare il punto d’arrivo per il raggiungimento di un accordo concreto, da mettere in atto per la seconda fase del protocollo di Kyoto, ovvero nel 2012. Su Copenhagen si concentravano grandi aspettative e il cammino era stato “spianato” dalle due conferenze sul clima precedenti, quella di Bali (2007) e quella di Poznan (2008). In particolare, si sperava nel ruolo del neo eletto presidente degli Stati Uniti Obama, che, fin dalla campagna elettorale, si era mostrato propenso ad un trattato globale, che concretamente potesse mettere un freno al surriscaldamento globale. Eppure, anche in questo caso, le nazioni partecipanti, a causa della mancanza di collaborazione e del perseguimento di interessi particolaristici, non riuscirono a partorire un trattato vincolante, facendo svanire le speranze di raggiungere risultati concreti entro i limiti prefissati.

La Cina e le altre economie emergenti non accettavano imposizioni vincolanti e giustificavano la loro posizione negoziale scaricando gli obblighi sui Paesi di antica industrializzazione, il cui sviluppo economico procede ininterrotto da oltre duecento anni; questi, in particolare gli Stati Uniti, d’altra parte, erano disposti ad accettare un trattato, soltanto a condizione che anche i paesi del BASIC venissero inclusi negli obblighi di riduzione. I Paesi più poveri, dal canto loro, poiché maggiormente minacciati dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, a Copenhagen premevano perché venissero presi dei provvedimenti immediati, vitali per la loro sopravvivenza.

L’accettazione da parte della Cina di tagli vincolanti di CO2 è ulteriormente complicata dal fatto che il Paese non tollera interferenze internazionali nelle decisioni interne, quindi eventuali riduzioni di emissioni di gas serra non devono essere imposte “dall’alto”, ma derivare da una scelta volontaria. Il rispetto del principio di sovranità, infatti, è uno dei fondamenti della nazione, anche perché è stato, per il “Paese di mezzo”, una conquista estremamente travagliata, ottenuta nel 1949, dopo oltre un secolo di ingerenze delle potenze straniere.

Da chi, a Copenhagen, l’accusava di essere la causa del mancato raggiungimento di un accordo concreto e soddisfacente, la Cina si difendeva dicendo che, sebbene le sue emissioni globali siano le più alte al mondo, lo stesso non si può dire di quelle pro capite, che rimangono in proporzione, piuttosto basse, rispetto a quelle dei Paesi industrializzati. Si deve, inoltre, considerare il fatto che, tra le emissioni “addebitate” alla Cina, si contano anche quelle di aziende straniere delocalizzate nel Paese, dove esistono meno controlli, si può inquinare più liberamente e si può usufruire della manodopera locale a basso costo.

Da questo panorama emerge che la collaborazione tra i vari Paesi del mondo per l’abbassamento del livello di CO2 nell’atmosfera e la salvaguardia del pianeta sono ancora obiettivi molto lontani, principalmente perché, a livello globale, i problemi ambientali passano troppo spesso in secondo piano rispetto alle questioni economiche.

Per porre rimedio a questa situazione di stallo e di immobilismo, sarebbe necessario mettere, per una volta, da parte il principio del business as usual e guardare ai disastri ecologici che lo sviluppo non sostenibile sta provocando sul nostro pianeta, in modo che la prossima conferenza internazionale sul clima non segua le orme delle precedenti.

Il raggiungimento di un trattato vincolante è infatti davvero indispensabile per contrastare le conseguenze del cambiamento climatico, prima che sia troppo tardi e non vi sia più mezzo per invertire la crisi ambientale che sta investendo il nostro pianeta. Occorre individuare una via alternativa allo sviluppo, quella di un mondo eco compatibile, in cui economia ed ecologia non siano più due concetti divergenti e il petrolio e il carbone divengano una fonte di energia sempre meno utilizzata.

I movimenti ambientalisti si muovono proprio in questa direzione e le loro proteste contro la globalizzazione dei mercati, spesso incurante dei danni ambientali e delle peculiarità e differenze di ogni singolo Paese, non hanno cessato di farsi sentire nelle varie conferenze internazionali, a cominciare da quella di Seattle (1999), fino all’ultima presa in analisi, il vertice di Copenhagen (2009). Qui gli attivisti di tutto il mondo, in particolar modo i contadini, gli ambientalisti, gli abitanti delle piccole isole e dell’Africa, le zone che saranno più duramente colpite dal cambiamento climatico, si scontrarono fortemente con la linea seguita dal mondo industrializzato e, soprattutto, con l’atteggiamento delle nazioni che continuano a non accettare l’imposizione di limiti alle emissioni di gas serra.

La speranza è che la situazione cambi non per una disastrosa emergenza climatica, ma grazie a nuovi modelli di vita e di sviluppo, orientati a relazionarsi con la natura in modo più rispettoso e basati sulla giustizia sociale e ambientale, rivedendo con attenzione le priorità e i doveri degli esseri umani nei confronti del pianeta.

La sfida sarà, quindi, quella di passare dagli intenti alle azioni, per conseguire obiettivi concreti, prima che il sistema si inceppi e il clima impazzisca. È infatti indispensabile rallentare la macchina del consumo fuori controllo che guida l’economia globale, rivalutando attentamente il concetto di ricchezza e povertà. Dovranno quindi essere il diritto dei popoli e la natura il focus dei dibattiti delle conferenze internazionali sul clima, non solo gli interessi economici, mascherati spesso da false soluzioni, che peggiorano il problema e rinviano immancabilmente “al prossimo vertice”, come fino ad ora è successo.

* Roberta Picco (24/09/1985) roberta_picco[@]yahoo.it ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue ed Istituzioni Economiche e Giuridiche dell’Asia e dell’Africa Mediterranea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, laureandosi nel marzo 2011 con 110 e lode. Dopo aver trascorso oltre un anno a Kunming, nello Yunnan, dove si era recata per uno stage presso una società di consulenza, si è da poco trasferita a Genova per lavoro. Inoltre, collabora dal 2010 con una cooperativa di mediatori linguistici, in varie scuole e ospedali sul territorio della provincia di Cuneo.

**Questa tesi è stata discussa presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Relatore: Prof. Roberto Peruzzi; correlatore: Prof. Valeria Zanier.

[La foto di copertina è di Federica Festagallo]