La tesi I Raduni del Gelsomino in Cina si propone di descrivere e analizzare l’ultimo tentativo da parte della nascente società civile cinese di promuovere un movimento dal basso e, in parallelo, di illustrare le cornici entro cui quest’azione ha cercato di attecchire.
A partire dal 17 dicembre 2010 e a seguire per tutto il mese di gennaio 2011, una serie di manifestazioni di piazza in alcune città centro meridionali della Tunisia, per denunciare l’autoritarismo, il nepotismo, la corruzione e le cattive condizioni di vita, hanno aperto la strada a quella che è stata definita la Rivoluzione del Gelsomino (espressione coniata dal blogger e giornalista tunisino Zied El Hani). Proteste e rivolte popolari che, per le stesse ragioni, si sono propagate, in un impressionante effetto domino, in altri paesi della regione del Nord Africa e del Medio Oriente, scatenando il risveglio spontaneo e improvviso di queste popolazioni, in quella che è stata definita una Primavera del Mondo arabo.
Sulla scia dei movimenti democratici nel Nord Africa, anche in Cina alcuni organizzatori anonimi hanno cercato di dare il via a una Rivoluzione del gelsomino cinese (Molihua geming), pubblicando su alcune piattaforme web e social network, a partire dal 17 febbraio 2011, degli appelli che invitavano i cittadini cinesi a radunarsi, “passeggiare e guardare in lontananza”, in alcuni luoghi prestabiliti delle maggiori città cinesi, per chiedere maggiori aperture democratiche e più diritti civili nel paese.
Questo tentativo, del tutto pacifico, di ristabilire la legittimità delle forze sociali, auspicando l’apertura di un canale di autonomia per la popolazione o, al contrario, la rinuncia del potere da parte del partito, è però fallito, traducendo la preannunciata rivoluzione in qualche assembramento di giovani coraggiosi, subito dispersi dall’ingente schieramento di forze di polizia.
Un quadro che mette in evidenza il complicato rapporto che intercorre tra lo Stato-Partito, il cui obiettivo principale è il mantenimento a tutti i costi di un ambiente sociale “armonioso e stabile”, e la nascente società civile, che, sebbene ancora impreparata a una trasformazione democratica, a partire dal post-Tiananmen, desidera acquisire maggiore libertà di espressione e stabilire uno spazio di autonomia, che funga da terreno fertile per coltivare diritti civili e politici.
Questo rapporto è il risultato della rapida crescita economica cinese degli ultimi trent’anni, motivo di vanto per le autorità governative, ma sorgente di una moltitudine di contraddizioni sociali. Ciò, unito alla mancanza di una reale indipendenza del sistema giudiziario e di canali di espressione per vari strati della popolazione, ha reso inevitabile l’emergere di un movimento per la difesa dei diritti civili (weiquan yundong), che grazie alla crescente popolarità di internet, si è diffuso negli ultimi anni in maniera sempre più capillare, aprendo la strada a un vero e proprio attivismo nel cyberspace.
Sebbene il ricorso a strumenti e modalità d’azione sempre più diversificati ed efficaci – internet e le nuove tecnologie digitali – abbia fornito un efficiente supporto tecnico alla crescita della coscienza democratica nelle masse cinesi, allargando il diritto all’informazione dei cittadini e riesumandone il diritto di parola, tuttavia non si può decontestualizzare la loro rapida diffusione in Cina, dal ruolo antagonista dello Stato-Governo, che tiene sotto stretto controllo tutti i mezzi di comunicazione, nondimeno le nuove tecnologie.
Così se da un lato la sempre maggiore popolarità di forum e social network, abbia permesso di creare un ponte tra la realtà dei fatti e l’azione comunicativa – fatta di analisi, critiche e trasmissione di informazioni – tra le masse di osservatori-cittadini, che fanno capannello (weiguan) intorno a questioni che toccano gli interessi e i diritti di ognuno, dall’altro il controllo sociale da parte del Partito, non ha tardato a manifestarsi mediante la potentissima macchina della censura; censura attiva sia per mezzo del Great Firewall, la Grande Muraglia Elettronica capace di bloccare l’accesso ai siti che trattano temi scomodi per il governo cinese – facebook, twitter e youtube ne sono tre esempi chiave –, ma anche per mezzo di un altro filtro che, in maniera ancora più mirata, individua e rimuove manualmente parole sensibili, canalizzando così l’accesso alle informazioni delle forze sociali.
Il tradizionale botta e risposta tra la dirigenza politica e la società civile cinese è andato, quindi, a occupare un nuovo campo di battaglia, questa volta on-line. Ciò spiega perché sebbene il recente movimento del Gelsomino abbia preso forma mediante la rete internet e le piattaforme di microblogging – strumenti di gran lunga più efficaci rispetto ai mezzi di comunicazione tradizionali –, il numero delle persone comuni venute a conoscenza della chiamata alla rivoluzione, sia stato molto esiguo, facendo sì che le passeggiate nelle vie del centro delle maggiori città cinesi si rivelassero più una sorta di “performance di arte rivoluzionaria”, come l’ha definita il poeta e scrittore cinese in esilio negli Stati Uniti, Bei Ling.
Classificare, dunque, queste modeste azioni pacifiche in nome del gelsomino, con il termine rivoluzione risulta essere alquanto sproporzionato. Anche un’analisi della Lettera aperta all’Assemblea Nazionale del Popolo da parte degli organizzatori dei Raduni del Gelsomino, postata sul celebre portale internet americano in lingua cinese Boxun.com, il 22 febbraio 2011, palesa come le richieste dei manifestanti, sebbene chiare e risolute nel rivendicare il riconoscimento della legittimità al popolo, tuttavia non sono esplicitamente volte a chiedere che si instauri un governo di tipo democratico.
Piuttosto ciò che i redattori della lettera tengono a precisare è che, se queste richieste non vengano prese seriamente in considerazione, il popolo dovrà allora avvalersi del diritto di richiamare la fiducia affidata a chi sta al governo. In breve, ciò che si chiede è un cambio di leadership (“Se il Partito non combatte coscientemente la corruzione e non accetta la supervisione dei cittadini, allora lo invitiamo a uscire dal palcoscenico della storia”) e non il perseguimento di riforme politiche.
Paradossalmente a rivendicare i meccanismi della democrazia è, invece, una delle voci più risonanti del Partito comunista, il quale pur ricoprendo la carica di vicedirettore dell’Ufficio di compilazione e traduzione del Comitato Centrale del Pcc, tuttavia risulta essere uno dei teorici cinesi più liberali e distaccati dalla visione politica dominante. Si tratta di Yu Keping, che in un articolo pubblicato sul Nanfang Zhoumo, il 21 gennaio 2011, spiega, mediante tre formule, che ben richiamano la politica orientata al popolo (yiren weiben) della leadership Hu Jintao-Wen Jiabao, perché il Partito comunista cinese possa trovare legittimazione solo nella ricerca degli interessi del popolo e, soprattutto, prova che l’unico modo attraverso cui ridare valore e autonomia ad esso, siano i meccanismi democratici.
Alla luce di quanto appena detto e riprendendo le parole di Bei Ling “sarebbe più appropriato definire quest’azione dei manifestanti cinesi un movimento; un movimento che, sebbene si sia sviluppato in maniera abbastanza moderata, presenta obiettivi, invece, molto definiti”. Ciò che è, invece, venuto a mancare ai gelsomini cinesi è stato il passaggio dal cyberspace al physical space, lasciando che l’unico terreno di protesta per i manifestanti restasse quello virtuale, senza evolversi in un reale processo di trasformazione, ma semplicemente inscenando una rivoluzione senza rivoluzionari.
Ma quali sono le cause che potrebbero giustificare il fallimento di questo tentativo rivoluzionario cinese? Di certo al primo posto resta il timore di una reazione violenta da parte del partito, pronto a tutto pur di proteggere la propria legittimità, anche a reprimere la voce della società, proprio come è successo nel 1989; una reazione che, per quanto si sia cercato di eludere, si è invece manifestata in tutta la sua potenza, nonostante l’esigua portata del movimento in Cina, distruggendo qualsiasi velleità di autonomia e d’indipendenza per la popolazione e giustificandone la smodatezza attraverso la medesima formula del mantenimento della stabilità a tutti i costi (wending yadao yiqie).
Dallo scoppio dei movimenti democratici nel Maghreb e in Medio Oriente sino alla mancata rivoluzione cinese, per la Cina il capitolo più consistente di questa forte ondata capace di generare cambiamenti, riguarda la reazione del governo, preventiva, risoluta, aggressiva e significativamente sproporzionata.
Una reazione che ha avuto inizio con il mutismo nel trattare la situazione nordafricana sui principali quotidiani governativi e che ha aumentato la sua intensità con il discorso di Hu Jintao alla scuola centrale del Pcc, il 19 febbraio 2011, a un giorno dalle prime passeggiate. Un discorso in cui si fa presente che il web potrebbe rappresentare uno strumento troppo potente nelle mani del popolo, così efficace da mettere in pericolo il sistema retto dal Partito comunista e di affermarne un altro capace di dar voce autentica alla popolazione. Internet rappresenta «‘il muro della democrazia’ del XXI secolo», su cui qualcuno potrebbe affiggere un post in cui rivendica il diritto alla “quinta modernizzazione”, ovvero la democrazia, proprio come Wei Jingsheng fece il 5 dicembre 1978, all’incrocio Xidan di Pechino. Questo è un rischio troppo grande, bisogna riaffermare l’indiscutibilità del partito e per farlo c’è bisogno di migliorare e rafforzare la gestione sociale (jiaqiang he chuangxin shehui guanli), mobilitando tutte le strutture a disposizione e soffocando ogni voce di dissenso.
Così si spiega la violenta ondata di arresti messa a segno dal partito, che ha colpito molti cittadini, dissidenti e attivisti pro-democrazia per aver ritweettato gli appelli che invitavano il popolo cinese a passeggiare nei centri delle loro città in nome del gelsomino, o per aver pubblicato messaggi o articoli sul web, i cui contenuti palesavano la volontà di “sovvertire l’ordine statale”. In sintesi, il movimento del gelsomino cinese, ha unicamente consentito alle autorità di stringere sempre di più la morsa attorno a quelle persone legate al movimento weiquan, in un certo qual modo coinvolto indirettamente in queste chiamate rivoluzionarie.
E proprio mentre le forze di polizia rafforzavano i controlli nelle maggiori città cinesi e si avvalevano di maggiori poteri di repressione nei confronti di attivisti e dissidenti coinvolti nella “rivoluzione del gelsomino virtuale”, la dirigenza tracciava le linee guida del quinquennio successivo, consapevole delle tensioni interne e quindi decisa a volerne alleggerire la portata.
Approvato il 14 marzo 2011 dalla IV sessione dell’XI Assemblea Nazionale del Popolo, il 12° Piano quinquennale (2011-2015) sembra la risposta del governo cinese alla “lettera aperta” inviata all’Anp qualche settimana prima, vista l’attenzione che il documento riserva proprio a quelle deficienze del sistema che i manifestanti avevano fatto chiaramente notare e per le quali esigevano una risposta.
Misure e obiettivi impeccabili quelli che la leadership del partito affida al nuovo piano quinquennale, ma, evidentemente, non sufficientemente impeccabili da affidargli senza alcuna precauzione le sorti della nazione e dunque del partito stesso. Infatti, prima ancora dell’approvazione del piano, alla vigilia dell’apertura dell’Assemblea Nazionale del Popolo, venivano diffusi i dati sul bilancio dello Stato, che sancivano che le spese della Cina per la sicurezza interna avrebbero superato, nel 2011 e per la prima volta nella storia, quelle per l’ammodernamento dell’esercito. I dati allora diffusi, indicavano un budget per la sicurezza pubblica, il cosiddetto weiwen – abbreviazione della formula weihu shihui wending, ovvero ‘mantenere la stabilità sociale’- di 624,4 miliardi di yuan (95 miliardi di dollari), con un aumento del 13 per cento rispetto al 2010, e quello per la difesa di 601,1 miliardi di yuan (91,5 miliardi di dollari), rafforzato invece del 12,7 per cento. Il partito fa dunque sapere con questi dati, che non solo non intende rinunciare al proprio mandato governativo, ma soprattutto che non permetterà che alcuna minaccia alla stabilità si concretizzi.
Indiscutibilmente la reazione del Pcc ai raduni domenicali nelle piazze cinesi ne ha modificato le sorti, ma per alcuni osservatori la motivazione principale per cui la rivoluzione del Gelsomino non è esplosa in Cina, riguarda il fatto che essa non sia stata scatenata da un sentimento interno, che non abbia appiccato fuoco a una scintilla propriamente cinese, ma piuttosto abbia seguito la scia delle rivolte nei Paesi arabi, la cui situazione risulta essere, tuttavia, molto diversa da quella della Rpc. A conclusione di questo lavoro vanno a incastonarsi, dunque, delle analisi comparative, che mettendo a confronto le due realtà, quella mediorientale, in particolar modo quella egiziana, con quella cinese, spiegano cosa le contraddistingue e le differenzia. Ma sebbene questi interventi partano col medesimo presupposto di sottolineare l’estrema lontananza e diversità della situazione egiziana rispetto a quella cinese, gli obiettivi perseguiti risultano diametralmente opposti.
Se per i due giovani attivisti e sostenitori del movimento rivoluzionario, Kong Lingxi e Ran Yunfei, la difformità cinese rispetto al più grande paese del mondo arabo non debba affatto porsi come limite alla mobilitazione della società civile, ma piuttosto debba essere un incentivo per le giovani generazioni a sollevarsi e azionarsi per il proprio paese, dall’altro invece la propaganda ufficiale del Partito ha voluto, piuttosto, far presa proprio su queste differenze per smorzare il timido tentativo rivoluzionario online, perché privo di fondamenta se si considera l’efficacia del sistema cinese rispetto a quelli dei paesi Arabi e la predisposizione dei più alti vertici a compiere miglioramenti in seno alla popolazione; un’angolatura piuttosto inconsistente e volta esclusivamente a non mettere in discussione lo status quo attuale, e quindi per nulla incline a concedere garanzie sul piano delle libertà e dei diritti individuali.
Più obiettiva ci è sembrata la posizione espressa dal ricercatore della Stanford University, Xue Litai, sul Xinbao caijing xinwen (l’Hong Kong Economic Journal), il quale, sebbene consapevole che i tempi per una rivoluzione di portata pari a quella del Nord Africa e del Medio Oriente non siano ancora maturi in Cina, tuttavia suggerisce alle massime autorità del Pcc di accelerare il processo di trasformazione, avanzando la creazione di un tessuto sociale e ricercando soluzioni adeguate per coinvolgere gli abitanti stessi nelle loro attività; altrimenti “sarà troppo tardi rimediare a un pericolo ormai sempre più imminente”.
*Cinzia Losavio, cinzia.losavio[@]gmail.com, consegue nel dicembre 2009 la laurea triennale in Lingue e Civiltà Orientali, presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza e immediatamente dopo ottiene la borsa di studio del progetto Lisum, che le permette di frequentare un semestre presso la Wuhan University. Nel 2011 è, prima, stagista presso l’ufficio stampa dell’Ambasciata d’Italia a Pechino e, poi, borsista Erasmus all’École Pratique des Hautes Etudes di Parigi. L’11 luglio 2012 consegue la laurea magistrale in Lingue e Civiltà Orientali con il massimo dei voti e la lode presso la medesima università di Roma. Potete leggere alcune delle sue traduzioni su Caratteri Cinesi (qui e qui)
** Questa tesi è stata discussa presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza: relatore prof. Paolo De Troia, correlatrice prof.ssa Eugenia Marina Miranda.
[La foto di copertina è di Federica Festagallo]