Sinologie – Hong Kong: integrazione o sinizzazione?

In Cina, Sinologie by Redazione

Introduzione

«马照跑舞照跳» (I cavalli continueranno a correre e le persone a danzare) è una citazione di Deng Xiaoping da collocare nel periodo in cui iniziarono i negoziati per la “ripresa dell’esercizio della sovranità su Hong Kong”. Il leader si riferiva alle due grandi passioni che da tempo accendevano gli animi degli abitanti di Hong Kong: le corse di cavalli nella Happy Valley e la frizzante vita notturna dei night club. Il messaggio che si voleva trasmettere era l’idea di un cambiamento graduale e armonioso che la colonia inglese avrebbe dovuto affrontare per tornare sotto la giurisdizione cinese. Una lunga serie di promesse disattese comincia con la Sino-British Joint Declaration che, a parole, sarebbe dovta essere garanzia di un alto livello di autonomia conferito alla nuova HKRAS (Regione Amministrativa Speciale).

Con questo elaborato analizzeremo il processo di “sinizzazione” sperimentato da Hong Kong, ovvero dell’assimilazione politica, economica, sociale e culturale del cosiddetto “Porto Profumato” da parte del gigante cinese.

Nel primo capitolo, dopo una breve contestualizzazione storica, verrà descritto il processo di negoziazione per il ritorno della città alla Cina, da cui la voce della popolazione locale fu totalmente esclusa. Seguirà poi una descrizione dell’assetto politico della HKRAS stabilito con la Basic Law (“One Country, Two Systems”). Nel secondo capitolo, si procederà con il presentare una serie di eventi scaturiti dalla mancata partecipazione locale alla transizione, oltre che delle suddette promesse sistematicamente disattese. Seguiranno i fatti del 2003 (protesta contro il tentativo di emendamento dell’Art. 23 sulla Pubblica Sicurezza), la proposta di riforma del governo di Hong Kong del 31 agosto 2014 a seguito delle richieste riguardo al suffragio universale e il suo rifiuto da parte popolare che sfocia nella radicalizzazione di Occupy Movement, supportato poi dagli studenti: il cosiddetto Movimento degli Ombrelli. Verrà fatto un accenno anche alle proteste per la Legge di Estradizione che, mentre scriviamo, stanno scuotendo l’ex colonia britannica. Il capitolo finale sarà invece dedicato alle misure d’integrazione economica, sociale, culturale e politica messe in atto dalla Repubblica Popolare. Tra gli esempi più rilevanti, l’esclusione dal Consiglio legislativo di quattro deputati democratici (2016); il progetto di costruzione di una “Greater Bay Area”, di cui è parte il ponte, recentemente inaugurato, che funge da collegamento tra Zhuhai-Macao-Shenzhen e l’ondata di turisti e lavoratori cinesi, che grazie al “one-way permit” entrano ad Hong Kong ogni giorno per stanziarvisi definitivamente.

Hong Kong tra proteste e tetativi di riforma

Dopo aver inserito Hong Kong in un contesto storico-istituzionale, procederemo a esaminare i tentativi di negoziazione di Hong Kong con Pechino per ottenere una maggiore autonomia e per ricercare una svolta a favore della democrazia. Le negoziazioni sono fortemente influenzate dalle richieste della popolazione, che scende in strada sempre più frequentemente con la speranza di un cambiamento. E’ proprio a partire dalle contestazioni popolari che il Governo Centrale si è reso conto della necessità d’inasprire la propria linea politica verso le Regioni Amministrative Speciali. Il processo d’integrazione politica, economica, sociale così come culturale che è oggetto d’ analisi, subisce, soprattutto dopo il Movimento degli Ombrelli, una significativa accelerazione.

Espressione e dissenso a Hong Kong

Il discorso sui movimenti di protesta è fortemente plasmato dall’ibridismo del sistema di Hong Kong: il suo essere una “civil oligarchy”, infatti, presuppone l’esistenza di strumenti atti alla limitazione dei cambiamenti. In altre parole, le riforme semi-democratiche avanzate dal governo sono promosse da una cerchia ristretta che ha interesse ad evitare disordini, più che a dar voce alle richieste degli hongkonghesi. Ed è proprio la mancanza di partecipazione popolare a generare malcontento, il quale sfocia poi in proteste che l’apparato governativo non è capace di contenere. Tuttavia, è bene ricordare che, sempre per effetto del citato ibridismo, i residenti della HKRAS “have enjoyed meaningful, institutionalized channels for political input”, per questo motivo, i manifestanti tendono ad essere piuttosto “law-abiding”, così come la risposta dell’amministrazione prevede in genere un limitato uso della violenza.

I movimenti di opposizione al governo e le richieste di maggiore partecipazione politica si registrarono a Hong Kong già prima del 1997. La società civile, soprattutto a ridosso dello Handover, si mostrava piuttosto attiva, uscendo da quella condizione di apatia politica che alcuni studiosi avevano riscontrato nell’epoca precedente. La speranza era quella di giungere ad una piena democratizzazione di Hong Kong, concretizzando le riforme di apertura avviate dall’amministrazione Patten. L’attività dei gruppi democratici non cessò dopo l’Handover, anzi, crebbe in modo proporzionale alla consapevolezza che la Cina avrebbe difficilmente portato a termine le promesse inserite nella Sino-British Joint Declaration. Ad alimentare la speranza degli attivisti vi era la certezza dell’impossibilità della Repubblica Popolare di reprimere brutalmente l’opinione pubblica nella RAS: innanzitutto Hong Kong doveva fungere da polo attrattivo per Taiwan, sperando di aggiudicarsene il consenso riguardo all’applicazione del “One Country, Two Systems”; in secondo luogo la HKRAS era stata pensata come centro finanziario mondiale, utile all’internazionalizzazione del RMB, la valuta cinese. Tale azione avrebbe opportunamente richiesto un sistema legale credibile, una libertà di stampa effettiva e soprattutto una concreta stabilità politica.

La trasformazione dei movimenti di contestazione popolare è riscontrabile nel cambiamento lessicale: fino al 2006 le proteste a Hong Kong venivano indicate con il nome di “youxing 游行” o “jihui 集”, ovvero dimostrazioni o manifestazioni; queste (fatta eccezione per gli eventi del 2003) erano limitate a piccoli gruppi di persone che rivendicavano gli interessi della propria cerchia di riferimento. Le manifestazioni erano prontamente organizzate, con tanto di slogan progettati dagli esperti: “this practice indicates the absorption of street protest into electoral politics”. In altre parole, la protesta popolare assunse nella HKRAS un ruolo non propriamente tipico delle democrazie occidentali, non più mezzo di espressione della popolazione, ma mero strumento politico dell’opposizione al governo, che lo utilizzava come fonte di pressione per ottenere l’approvazione di riforme di apertura politica.

Con il tempo, il dissenso si fece più radicale, sposando il principio per il quale “moderation would never yield genuine change”. La moderazione, dopotutto, non era incentivata, come oggi, neanche dal sistema elettorale che, con il calcolo dei resti, attribuisce voti anche a candidati impopolari o fuori dalla scena mainstream.

Il cambiamento nella cultura delle proteste nella HKRAS è verificabile con alcuni dati visibili nella Tab. 1. Nella categoria “legal processions” sono incluse le manifestazioni precedentemente

autorizzate: è significativo il loro aumento, da un totale di 1974 nel 2004; esse raggiungono il picco nel 2012, con 7529 dimostrazioni. Un altro dato rilevante, come sottolinea Cheng, è l’aumento negli anni dei processi per assemblea non autorizzata o aggressione ad agente di polizia, che l’autore traduce con un incremento della “civil disobedience”.

A spiegare tale sviluppo vi sono i dati di un sondaggio condotto dall’Asian Barometer, che osserva come i giovani d’oggi siano più istruiti e più vicini alla politica rispetto a nonni e genitori. Il malcontento generato dalla situazione politico-istituzionale del loro paese fa sì che essi prediligano la mobilitazione di massa più che le forme tradizionali di partecipazione politica. Anche il bersaglio delle proteste nella RAS subisce un cambiamento nel corso del tempo: dapprima il governo locale, diventa poi il Governo Centrale nel momento in cui la popolazione prende coscienza dell’effettiva ingerenza di questo negli affari della Regione.

Ponendo invece l’attenzione sulla natura delle proteste nella HKRAS, è riscontrabile una variazione nel tempo dalla centralità dell’elemento politico (che si riscontra alla fine del periodo coloniale, come detto prima) a quello economico. Il punto di svolta fu la crisi finanziaria che colpì alcuni paesi dell’Asia Orientale proprio nel 1997, anno dello Handover. L’amministrazione Tung si scoprì incompetente, si coprì di scandali (e.g. quello legato all’edilizia residenziale pubblica11), e non fu in grado di alleviare il peso della crisi economica sulla popolazione, specialmente sui meno abbienti. Il peso morale di un Chief Executive non direttamente eletto gravò su Tung e il malcontento raggiunse l’apice con la diffusione dell’epidemia di SARS.

La scintilla che accese le proteste nel 2003 fu la proposta della Legge sulla Sicurezza Nazionale, elaborata dal governo sulla base dell’obbligo costituzionale previsto dall’Art. 23 della Basic Law, che recita:

The Hong Kong Special Administrative Region shall enact laws on its own to prohibit any act of treason, secession, sedition, subversion against the Central People’s Government, or theft of state secrets, to prohibit foreign political organizations or bodies from conducting political activities in the Region, and to prohibit political organizations or bodies of the Region from establishing ties with foreign political organizations or bodies.”12

Tung Chee-hwa, il primo Chief Executive della HKRAS, aveva atteso il suo secondo mandato per portare a termine il compito assegnatogli da Pechino: la messa in pratica del sopracitato articolo 23 della Basic Law. La reazione popolare fu la più significativa mai registrata dopo l’Handover: il 1° luglio 2003, a sei anni dalla nascita della HKRAS, 500.000 persone marciarono per 6 ore consecutive, esprimendo il proprio dissenso contro la normativa. Ciò che spinse un così elevato numero di abitanti a manifestare fu la paura di perdere quei diritti e quelle libertà che erano state loro concesse nella Basic Law. Anche autorevoli voci di giudici, avvocati e giuristi espressero la propria contrarietà, contestando le “vague definitions of subversion, sedition, treason – all these traditional things which would greatly put you in danger of the law”. Oggetto di critiche erano appunto la definizione di “sovversione”, termine piuttosto lontano dalla tradizione di Common Law britannica e di “secessione”, che chiaramente sarebbe stato un appiglio per Pechino contro ogni tentativo di distacco di Hong Kong. Anche l’ipotesi di dare più poteri al corpo di polizia fu piuttosto avversata così come la possibilità di bandire alcune organizzazioni per ragioni di sicurezza nazionale causò non poco malcontento tra i membri del tanto contrastato Falun Gong13 (Tong, 2018). L’azione popolare si diffuse in tutto il territorio di Hong Kong, riunita in un Civil Human Right Front,

di cui facevano parte circa 40 gruppi differenti (dalla comunità LGBT a gruppi religiosi, associazioni di studenti, e attivisti democratici). Il Front era una piattaforma utile allo scambio d’informazioni ma quanto a coordinamento e pianificazione ogni gruppo interno dettava la propria agenda e le proprie priorità. I due gruppi più attivi in queste proteste furono quelli legati alla Chiesa Cattolica e i professionisti del settore legale. Si unirono alla contestazione anche alcuni membri interni al LegCo, non appartenenti al gruppo filogovernativo, nonché governi e multinazionali straniere che conservavano legami con Hong Kong. Un ruolo esclusivo fu rivestito da media e dai social media che facilitarono la mobilitazione di massa come mai prima (Wright, 2018).

Tornando allo svolgimento dei fatti, i manifestanti indissero un’altra dimostrazione per il 9 di luglio, fuori dal palazzo del LegCo. Entro il 6 luglio fu però già chiaro che la legge non avrebbe avuto la maggioranza necessaria per l’approvazione nel Legislative Council, a seguito dell’azione del Liberal Party, che fece mancare il proprio sostegno alla proposta. Di conseguenza, il governo dichiarò il giorno seguente che avrebbe rinviato la questione (sarebbe stata poi ritirata definitivamente a settembre). Sull’onda della vittoria, i manifestanti scesero ancora in strada e alzarono la posta, chiedendo l’elezione diretta del Chief Executive e del LegCo.

La società civile aveva, così, avuto la meglio sui partiti politici: si può addirittura affermare che i partiti stessi dipendessero dall’opinione pubblica più che guidarla. A cavalcare quest’onda erano le organizzazioni a supporto della democrazia, i cui membri iniziarono ad inserirsi nel campo istituzionale ottenendo buoni risultati nelle elezioni del District Council nel 2003 e del LegCo l’anno successivo.

Mi permetto a questo punto di tornare sul discorso del capitolo precedente riferito alla cooptazione, portata avanti nel periodo coloniale sia dalla Corona inglese sia dalla Cina. È evidente come, con la comparsa di strumenti tipici della democrazia elettiva (seppure non si possa etichettare Hong Kong come regime democratico), il sistema istituzionale si complichi e la cooptazione risulti un po’ meno efficace. A differenza dell’assoluta fedeltà e del certo supporto che l’élite cooptata forniva all’autorità nel periodo coloniale, nella HKRAS i singoli membri del governo perseguono i propri interessi, i quali talvolta possono coincidere con quelli del PCC, altre volte, si trovano a viaggiare su strade opposte. James Tien fu, nel 2003, l’esempio concreto della mancata efficienza della cooptazione da parte cinese: egli, divenuto leader del Liberal Party, membro del LegCo e del Chinese People’s Political Consultative Conference, si dimise dall’Executive Council, di cui faceva parte dal 2002, per opporsi alla Legge sulla Sicurezza Nazionale. Seguirono poi le dimissioni del Chief Executive con il conseguente innalzamento delle tensioni tra governo ed élite, nonché tra governo e popolazione (Cheung, Wong, 2004). Le dimissioni di Tung e la sospensione della legge ebbero un effetto positivo sulla società civile, la quale ebbe la prova del fatto che “the mere size of the majority (as shown by polls) is not as important as the intensity of public sentiment and the organisation and manner of its expression”.

Si può definire questo evento uno spartiacque nella storia politica di Hong Kong perché, se da un lato a trionfare fu la popolazione scesa in strada, dall’altro, il Governo Centrale mise in atto una strategia di “reconfiguration”. Avviò cioè “un processo d’integrazione economica, adeguamenti istituzionali e costruzione dell’identità che miravano a subordinare la società locale alla propria sovranità”

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Di Jessica Milano*

*Orginaria di un piccolo paese sulle colline del canavese, Caluso (TO), Jessica ha trascorso un anno a Shanghai, presso la East China Normal University, grazie ad una borsa di studio dell’istituto Hanban. Ha recentemente conseguito la laurea in Scienze Politiche, Sociali e Internazionali a pieni voti presso l’Università di Bologna. Durante la triennale ha svolto un semestre presso la City University of Hong Kong. Attualmente studia Sciente Internazionali, indirizzo China & Global Studies all’Università degli studi di Torino.

**Questa tesi è stata discussa presso l’Università degli Studi di Bologna nell’anno accademico 2018/2019 con il titolo “Hong Kong: integrazione o sinizzazione?”. Relatore: Antonio Fiori