SINOLOGIE – Diritti umani a confronto

In by Simone

La tesi “Diritti umani a confronto: centri di detenzione per migranti tra Cina e Italia” analizza i sistemi di custodia per migranti in Italia e in Cina e le numerose violazioni di diritti umani che queste strutture comportano. Per non dimenticare che la schiavitù e la scarsa considerazione della dignità umana esistono anche a casa nostra.
La Cina è sempre più un argomento di quotidiano interesse e non solo a causa della sua esponenziale crescita economica ma anche per la sua politica in tema di diritti umani, sempre molto criticata dalle potenze occidentali. In riferimento alla potenza asiatica, infatti, si sente spesso parlare di schiavitù, sfruttamento, solitudine, maltrattamento, totale assenza di rispetto dei diritti fondamentali; tutti termini che nell’immaginario collettivo appartengono ad uno Stato autoritario e non certo ad una democrazia, come ad esempio è l’Italia, in cui i diritti di tutti dovrebbero essere garantiti.

Tuttavia queste parole sono alcune tra le tante che ho avuto modo di leggere sui quotidiani italiani quando si parla di migranti e del trattamento che lo Stato italiano riserva loro. Mi sono allora chiesta se fosse davvero così pacifico che la democrazia, così come concepita ad esempio in Italia, sia in assoluto il sistema migliore, al punto da imporlo anche con la forza laddove esso manchi e da compiere torture e omicidi in nome di essa sebbene negli Paesi democratici si assista di continuo a gravi violazioni dei diritti. E se non fosse invece che il modello universale di diritti fondamentali tramite il quale l’Occidente misura il grado di civiltà di un altro Stato non sia solo un altro modo di esercitare l’antico imperialismo occidentale, dietro cui si celano ragioni forse più politiche ed economiche che etiche e morali.

Per dare una risposta concreta a questi interrogativi ho deciso di affrontare un tema che racchiude molte problematiche legate al rispetto dei diritti fondamentali, ovvero la custodia dei migranti, per comprendere meglio le somiglianze e le differenze che esistono in materia tra due sistemi statali che dovrebbero essere all’opposto.

Inizialmente, però, ho ritenuto fondamentale condurre un’analisi storica sull’evoluzione del concetto dei diritti umani nella tradizione occidentale e in quella cinese, dalla quale è innanzitutto emerso che l’idea dei diritti umani deriva dal pensiero politico e filosofico occidentale con la conseguenza che anche il linguaggio usato è culturalmente specifico per l’Occidente. Da ciò ne deriva che certamente l’attuale discorso sui diritti umani non sia stato pensato in modo da essere condivisibile o accettabile incondizionatamente dalle altre tradizioni culturali.

Un altro elemento di rilievo è che raramente l’universalità dei diritti umani è stata intesa come possibilità per tutte le persone di godere dei diritti fondamentali indipendentemente dalla nazionalità, la condizione sociali, il sesso o la religione. Questo è vero anche nei Paesi occidentali, in cui alcuni diritti fondamentali come l’uguaglianza razziale e di genere o la libertà di espressione non sono tuttora garantiti. Per queste ragioni, e per il fatto che in nome dei diritti umani siano state condotte azioni politiche, economiche e militari e ingerenze negli affari interni dei singoli Stati, la contestazione all’universalità è sempre stata piuttosto accesa.

Perché ci sia un’opinione condivisa sui principi basilari dei diritti fondamentali e perché se ne diffonda la promozione e la tutela è fondamentale tenere in considerazione le differenze storiche e culturali. Per quanto, infatti, gli Stati occidentali possano dire la loro opinione sulle pratiche concernenti i diritti umani in Asia, essi non possono pensare, così come per la democrazia e lo Stato di diritto, di imporre la propria visione in altre parti del sistema mondiale anche perché questo non fa che ostacolare la diffusione di un discorso costruttivo che possa soddisfare anche le esigenze dei popoli non occidentali. Solo così probabilmente i diritti umani potranno diventare quello per cui erano stati pensati: uno strumento tramite cui abbattere le ingiustizie profonde create dalla logica capitalista e colonialista, e un tentativo di risposta alle richieste di giustizia, uguaglianza e di tutela della dignità umana.

Prendendo poi in esame un caso concreto come quello della detenzione dei migranti, ci si rende maggiormente conto di quanto i diritti di base non siano rispettati nemmeno in una democrazia come quella italiana. Il secondo capitolo illustra tutta la legislazione italiana in materia di immigrazione, con particolare riferimento alla detenzione amministrativa dello straniero e all’istituto dei Centri di Identificazione ed Espulsione. L’excursus storico mostra come si sia arrivati alla situazione attuale e, per una migliore comprensione della stessa, ho preso in esame numerosi rapporti sulle condizioni in cui versano queste strutture di trattenimento, redatti sia da organizzazioni indipendenti che da commissioni ufficiali appositamente istituite.

Un contributo molto importante arriva però anche dai racconti di ex trattenuti che danno voce alle quotidiane violazioni dei diritti umani fondamentali e alle violenze subite che sono molto simili a quelle che avvenivano nei centri di Custodia e Rimpatrio cinesi prima della loro chiusura nel 2003. Le analogie sono incredibili, a partire dagli elementi strutturali dei centri: scarsissime condizioni igieniche, grandi camerate con letti di cemento e dotate di inadeguati servizi igienici, alte cinte murarie o sbarre. Anche sul fronte del trattenimento e del trattamento le caratteristiche sono piuttosto simili e mi riferisco in particolare alla custodia di categorie di persone ritenute vulnerabili e che dovrebbero quindi godere di programmi di assistenza specifici e alle violenze subite, sia fisiche che psicologiche.

Ad ogni modo ritengo più allarmante la situazione dei centri italiani, soprattutto a causa della somministrazione forzata e priva di controllo di psicofarmaci e per la spropositata lunghezza del trattenimento. Si potrebbe obiettare che in Cina, come ho analizzato nel capitolo sulla normativa cinese, chiunque poteva essere trattenuto nei centri a causa della vaghezza delle norme in materia. Tuttavia in Italia la situazione non è poi così diversa: le leggi ci sono, e sono anche piuttosto specifiche, ma a determinare poi il trattenimento o meno di un migrante è la casualità, e non certo la condizione di pericolosità del soggetto. In entrambi i Paesi, poi, le normative vengono interpretate arbitrariamente quando si tratta di garantire un giusto processo con il risultato che il trattenuto raramente conosce i suoi capi d’accusa e può far sentire la propria voce tramite un legale.

Va inoltre sottolineato che, nonostante tutto, in Cina i centri sono stati ufficialmente aboliti in seguito alla morte di un trattenuto e alle proteste popolari che sono seguite mentre in Italia, sebbene sia i decessi che le denunce pubbliche siano ugualmente presenti, si persevera nel portare avanti una politica di reclusione che, oltre che inutile, è estremamente costosa. Un’altra grande somiglianza è poi l’impiego dei migranti per lo sviluppo economico del Paese, senza che poi a questo corrisponda un sistema di garanzie o maggiori diritti. Lo sviluppo delle grandi città cinesi, e spesso anche di quelle italiane, si poggia tutto sulle spalle della forza lavoro migrante che lavora per ore a testa bassa e sovente senza rivendicare i diritti che le spetterebbero. A questo grande impegno però non corrisponde mai un riconoscimento: non esiste alcun piano di integrazione, c’è solo sfruttamento e continue richieste.

Nonostante tutto, spesso l’Italia critica, a ragione, la politica cinese per il trattamento che riserva ai lavoratori migranti che arrivano dalle campagne, ma tralascia le condizioni in cui sono costretti a lavorare gli stranieri nelle piantagioni delle regioni del Sud Italia. La società civile italiana si indigna di fronte alle storie di tentati suicidi dei lavoratori cinesi nelle grandi fabbriche, ma pochi guardano all’enorme numero di stranieri che ogni anno muore in Italia mentre lavora, e quasi sempre in condizioni di totale sfruttamento. Si guarda con giusto sospetto all’impossibilità per i migranti lavoratori cinesi di accedere alla sanità o di iscrivere i figli a scuola come un qualsiasi altro cittadino cinese, ma si dimentica che la situazione dei migranti in Italia non è poi così diversa.

Alla luce di ciò è allora lecito affermare che il raggiungimento degli obiettivi dei diritti umani e il reale compimento del modello democratico sono ben lungi dall’essere realizzati, anche nelle odierne democrazie. In esse, dal momento che la critica e i programmi alternativi dovrebbero essere una presenza forte, contrariamente a quanto può avvenire in uno Stato come la Cina, i gruppi dirigenti dovrebbero temere di compiere errori sempre più gravi. E invece questo non accade, in Cina come in Italia, così come non è minore la paura delle autorità, altro elemento che dovrebbe costituire una delle basi della democrazia.

La democrazia è quindi un modo per cercare di risolvere i problemi interni ad uno Stato ma le istituzioni politiche che hanno il compito di attuarla non è detto che siano una garanzia per la risoluzione di tali problemi. Le critiche all’assolutismo dei diritti umani continueranno ad essere legittime finché le ingiustizie e le disuguaglianze persisteranno anche all’interno delle democrazie; pertanto, alla luce di ciò, non credo che esista un collegamento necessario e imprescindibile tra modello democratico e rispetto dei diritti umani. Credo invece che le battaglie per avere maggiori diritti, libertà e dignità debbano essere condotte dal basso, dalla società civile, che si oppone, critica e mette in discussione l’autorità dello Stato di cui è parte, e questo in ogni luogo e a prescindere dal modello politico imposto.

Con questo discorso non intendo esaltare la direzione in cui si sta muovendo la Cina nel campo dei diritti civili e politici né tanto meno sminuire la gravità degli abusi che molti cinesi sono costretti a subire. Lo sviluppo cinese, e la leadership che lo guida, ha sicuramente dei grossi limiti ma non bisogna pensare che tra l’Italia e la Cina ci sia una differenza abissale in campo di tutela delle libertà civili e politiche. L’intento del mio elaborato è quindi dimostrare che spesso usiamo la Cina come grande giustificazione per dimenticarci, almeno per un momento, che la schiavitù e la scarsa considerazione della dignità umana esistono anche a casa nostra.

*Ilaria Ippolito ippolitoilaria[@]hotmail.it ha studiato presso l’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea triennale in Lingue, mercati e culture dell’Asia e la laurea magistrale in Cooperazione internazionale e tutela dei diritti umani, con votazione 110 e lode. E’ interessata alle politiche internazionali in tema di diritti umani e migrazioni e alla sociologia cinese. E’ attivista presso uno sportello di consulenza legale per migranti.

** Questa tesi è stata discussa presso l’Università di Bologna. Relatore: prof. Gustavo Gozzi; correlatore: prof. Antonio Fiori.

[La foto di copertina è di Federica Festagallo]