Un morbo di “assenza” sembra affliggere oggi la città e contagiare intere categorie umane: persone negate, categorie sociali condannate all’invisibilità come gli yimin (immigrati, lett. “gente estranea”) e i mingong (la “bassa manovalanza”, i lavoratori migranti) cinesi.
La nozione di “spazio civico” è fondamentale per comprendere le dinamiche che hanno portato all’espropriazione di spazi e funzioni da parte dei governi ai danni alla popolazione urbana e dei privati. Quella che si è verificata in molti casi è la sottrazione di “governance” – la capacità e la possibilità di gestire luoghi e attività.
A entrare in gioco in questo processo non è solo la sovranità di un paese o di un’entità statale nella gestione del territorio, ma anche la sua connivenza con gruppi economici che conducono speculazioni nel mercato immobiliare.
Fenomeni di questo tipo si sono calcificati anche attraverso l’esercizio di un potere politico autoritario, divenuto tale per la necessità di consolidamento dopo vicissitudini storiche che hanno portato al limite del collasso.
In un simile sistema il ruolo dell’architetto, oltre che progettare edifici, è quello ben più difficile di mediare tra materia inerte e ciò che vive e cambia, siano esse le singole persone o l’intera città. Per un progetto simile è fondamentale la nozione di visibilità.
L’alternanza visibilità/invisibilità genera una dialettica: la visibilità fisica delle strutture si traduce nell’invisibilità sociale delle persone al loro interno, l’impossibilità di partecipare al discorso pubblico della e sulla città.
La metamorfosi delle strutture e delle dinamiche sociali sopraggiunta con la fine del collettivismo di stampo maoista ha reso la Cina il luogo dove si sono materializzati in modo esemplare i timori espressi da Henri Lefebvre e Edward Soja a proposito della produzione dello spazio nella città capitalista (o post-socialista).
Il massiccio programma di riforme lanciato da Deng Xiaoping dopo la morte di Mao Zedong (1976) e la campagna delle quattro modernizzazioni negli anni Ottanta, hanno spazzato via le ultime tracce del collettivismo, anche se molti blocchi di appartamenti di cinque o sei piani in stile sovietico rimangono nei centri urbani a rievocare un passato problematico.
Le nuove unità abitative, accostate o sovrapposte alle vecchie, hanno portato alla costituzione di infinite conclavi, città nelle città, veri e propri villaggi urbani che hanno segnato in modo pemanente l’identità dello spazio urbano, aggravandone la congenita mancanza di organicità.
Un modo per costruire la città che manca – ma anche, come suggerisce Lefebvre, per creare l’illusione di un maggiore spazio vitale a disposizione – è articolarne lo spazio in tante unità, che in Cina sono oggi chiamate shequ (quartieri recintati), una nuova versione di quelle che una volta erano le danwei, unità che racchiudevano insieme vita sociale e lavoro.
La shequ è contraddistinta da una notevole autonomia nella gestione dei suoi abitanti e delle loro attività, senza eliminare però la funzione essenziale delle vecchie danwei: veicolare le linee guida del partito attraverso attività di pubblico interesse, e rafforzarne il potere con l’infiltrazione graduale della sua etica e dei suoi fondamenti tramite la gestione e il coinvolgimento dei membri della comunità.
Lo smantellamento del sistema collettivo e con esso della vecchia danwei totalizzante, così come la massiccia privatizzazione delle abitazioni iniziata negli anni Novanta, hanno lasciato un vuoto difficile da colmare.
Il frazionamento implicito nella divisione in quartieri di piccola o media grandezza (che però possono arrivare a includere fino a diecimila famiglie) e il perseguimento di obiettivi e politiche mirate hanno disperso il senso di appartenenza alla comunità più che amplificarlo, e rischiano di rinchiudere i soggetti civili coinvolti in una forma di particolarismo; anche la razionalizzazione della città attraverso la mobilitazione delle sue cellule sembra inibirne l’effettiva esistenza.
Tra gli esperimenti urbani condotti per creare nuove forme organizzative finalizzate a fornire migliori infrastrutture sociali, il più importante è il programma di costruzione della comunità (shequ jianshe) che il Ministero degli Affari Civili (MOCA) ha promosso dalla metà degli anni Novanta.
La necessità di sviluppare un sistema di welfare più completo che sostituisca quello frammentato basato sull’unità di lavoro, ha spinto il ministero ad avanzare differenti modelli di comunità in via sperimentale.
Ma l’organizzazione virtuosa delle shequ, con i suoi appelli al senso di responsabilità civica e la pianificazione degli obiettivi da raggiungere, è in realtà un modo di portare avanti la collettivizzazione attraverso l’ultima cosa ancora collettivizzabile: la coscienza delle persone; questo avviene tramite una tecnica ampiamente collaudata, e con successo, durante il maoismo: la mobilitazione delle masse.
Anche il “discorso” ambientalista, come l’appello al mantenimento del verde urbano e ad un consumo cosciente e sostenibile, con pratiche connesse quali il riciclo dei rifiuti e un sistema di smaltimento più razionale, piuttosto che essere integrato in una pratica effettiva di governance che implichi un reale dialogo tra le comunità di cittadini e l’autorità municipale e nazionale, rimane ancora a un livello piuttosto superficiale di “abbellimento” dei quartieri, funzionale dal punto di vista estetico più che civico.
La trasformazione delle città in centri di consumo si è tradotta in un’estetizzazione del tessuto urbano, con la proliferazione di progetti finalizzati alla creazione di elaborati travestimenti che minacciano di ridurre lo spazio a un paesaggio destinato a essere visivamente “consumato”.
Anne-Marie Broudehoux fa notare che nell’esperienza urbana contemporanea, la centralità delle pratiche legate al consumo ha portato a trascurare altri aspetti vitali nella gestione della città, come la partecipazione individuale e collettiva nell’arena pubblica.
L’ideologia neo-liberista, associata al calo delle entrate, ha determinato la privatizzazione di molti spazi pubblici e il crescente coinvolgimento del settore privato nella fornitura e gestione dei servizi.
L’abbellimento dell’ambiente urbano e i miglioramenti a apportati a livello civico sono serviti per creare “riserve” per i ricchi, mentre la popolazione meno benestante è andata incontro a un crescente impoverimento; la divisione gerarchica dello spazio così determinata non può che ripercuotersi sulla sfera pubblica: mentre lo spazio urbano si privatizza, gli spazi del consumo divengono accessibili solo ai pochi che si possono permettere di “consumare”, ma anche produrre.
Così la rapida commercializzazione delle abitazioni ha introdotto un nuovo insieme di relazioni economiche e un vocabolario a esse associato (con termini come “mutuo” o “sviluppatori di proprietà”), ma ha anche trasformato la natura della vita comunitaria nella Cina urbana e urbanizzata.
Se il quadro di crescente privatizzazione si combina a forme di esclusione sociale direttamente proporzionali, il ridimensionamento delle funzioni del Governo significa anche un nuovo impegno, per lo Stato, a interpellare la società civile come partner fondamentale, cosa che crea nuovi obiettivi e opportunità per le organizzazioni sociali.
Alcuni dei fattori che si celano dietro l’espansione del ruolo del settore sociale in Cina riflettono da vicino le condizioni economiche e ideologiche che hanno fatto dell’auto-governo una soluzione popolare ai deficit e ai limiti che lo Stato ha mostrato altrove.
Per alcuni studiosi la finalità degli edifici statali di comunità (“state-led community building”) va ben oltre il miglioramento dell’efficienza a livello locale, ma è parte di un più ampio progetto di rafforzamento alla base della struttura organizzativa del Partito Comunista Cinese.
Le attività collegate agli edifici di comunità sono così caricate di un significato politico, dal momento che il partito vede in essi un’opportunità di mantenere la sua presenza e asserire la sua legittimità all’interno del nuovo “corpo sociale” emerso all’indomani delle riforme.
Ning Ying, regista di Pechino, affida al mezzo filmico la realizzazione di un diario visivo nel quale conservare memorie di una città che, mentre lei girava, affrontava già una programmatica dissoluzione, uno smantellamento pianificato delle sue strutture tradizionali che avrebbe portato, sulla carta, alla rilocazione di milioni di abitanti in nuove unità abitative, di fatto alla fine di uno stile di vita e con esso di un’epoca e della sua cultura.
For Fun (Zhao Le, 1993), primo capitolo della trilogia, si sofferma in modo apparentemente fugace sulla fase iniziale di smantellamento delle strutture di quartiere, compresi i centri ricreativi e i luoghi destinati ad accogliere categorie sociali (un tempo) rispettate come gli anziani, cui non sembra essere dedicato molto spazio nelle nuove politiche economiche.
Il film si sofferma sul profilo psicologico del signor Han, l’anziano e arcigno custode di un teatro d’opera tradizionale. Una volta in pensione, e ormai libero (a malincuore) dalle mansioni quotidiane, l’uomo tenta di mettere in piedi un piccolo circolo per gli appassionati d’opera del quartiere; ma la sua iniziativa, partita sotto i migliori auspici, naufraga per l’incapacità del pensionato di adeguarsi alla nuova società, e per l’avanzata inesorabile di attività commerciali come Karaoke Bar, che con la benedizione di Deng Xiaoping e del suo slogan “arricchirsi è glorioso” iniziano a diffondersi occupando spazi un tempo destinati alla comunità.
Il secondo capitolo della trilogia, On the beat (Min jing gu shi, 1995), coglie un momento cruciale del processo di ammodernamento a tappeto della capitale, quando la seconda fase – la più radicale – del piano di riforme, lanciata nel 1992, cominciava ad essere attuata a partire dalle infrastrutture.
Quello che la regista mette in evidenza con uno stile di ripresa molto vicino al documentario, sono le conseguenze immediate del piano e dei cambiamenti che questo ha portato nello spazio, nella vita quotidiana delle persone e nell’opinione pubblica.
Come nota Yomi Breaster, Ning ha costruito preziosi documenti filmici che evidenziano in modo esemplare la dialettica tra discorso politico, pianificazione e gestione delle unità abitative, mostrando come la comunità e le sue cellule di rappresentanza a livello locale (e di quartiere) siano determinanti, ma solo nella fase di esecuzione delle direttive impartite attraverso un sistema verticale rigido e implacabile, che non lascia scelta al di fuori di una completa adesione.
Dal film non emerge alcuna accusa o condanna sbrigativa, ma una conoscenza profonda del sistema politico cinese e del modo in cui questo si attua nella gestione delle comunità all’interno dello spazio urbano.
La pervasività normativa dei principi direttivi e la mobilitazione delle masse attraverso una capillare organizzazione sociale sono dinamiche ancora in atto nella Pechino del dopo-riforma.
L’hukou, il sistema di registrazione della residenza ormai naturalizzato, si rivela un’arma preziosa che facilita la mappatura sociale del quartiere, una vera e propria schedatura di ogni abitante in funzione dell’applicazione e adempimento di politiche nominalmente volte al mantenimento del decoro urbano e dell’ordine sociale, ma di fatto finalizzate a ottenere il plauso degli organi di gestione municipale come l’ufficio per la sicurezza pubblica, e quindi del Partito.
Non c’è aspetto dell’esistenza individuale e di comunità che non venga strettamente sorvegliato: le responsabili di quartiere del distretto occidentale – autoproclamatesi i “sette cigni” – archiviano dati sui mezzi di contraccezione usati dalle coppie e controllano le gravidanze, persino esortando giovani donne ad abortire.
Anche la presenza di cani randagi nel quartiere (nell’anno del cane) diventa un fenomeno da arginare in modo drastico: da simbolo di benessere gli animali diventano sintomo della lotta alla sporcizia e alle infestazioni epidemiche, anch’essa esito di direttive giunte dall’alto.
In questo quadro è difficile stabilire dove finisca la lungimiranza nella gestione della comunità e dove inizi la paranoia; o forse, nell’abitudine alla sorveglianza reciproca ereditata dal maoismo, si è innestata la necessità della nuova gestione semi-privatizzata di far quadrare il bilancio e giustificare le spese.
Le forze dell’ordine e i comitati di quartiere, organi che mettono in atto le direttive del partito a livello locale, sembrano sinceramente convinti della bontà di queste (sebbene il sonoro russare di un poliziotto davanti al telegiornale non faccia pensare a un profondo coinvolgimento), ma non si pongono troppi interrogativi sul senso, salvo poi rimanere vittime della loro incongruenza.
La portata del cambiamento e delle sue conseguenze materiali sull’esistenza dei cittadini direttamente coinvolti dal “discorso ideologico” sembra sfuggire, perché così massiccio da apparire ineluttabile, ma soprattutto perché riguardante un fenomeno in corso in quel momento e impossibile da afferrare in tutte le sue implicazioni.
È questo uno di quei casi in cui lo spettatore si pone a fianco del narratore e condivide con lui l’onniscienza dei fatti, o almeno una certa consapevolezza della loro portata. Il valore di una simile operazione sta nel suo approccio articolato e nella capacità di problematizzare le contingenze di un contesto culturale nel quale collocare i cambiamenti.
Lo scenario nello specifico delineato è quello della pervasività del discorso politico all’interno della società cinese, e più precisamente nella gestione municipale di Pechino.
Uno dei problemi che la narrazione apparentemente impersonale e distaccata evidenzia è lo sfasamento temporale tra la necessità di adesione della Cina al “progetto di modernità” e le condizioni di vita di chi queste imposizioni subisce dall’alto, fino a ieri fondate sul sistema collettivista (astorico proprio perché ideologico) che diventa nostalgico folklore, evocato nel film dalle canzoni rivoluzionarie e dai nomi delle persone nate in quell’epoca, con qualche residuo feudale in progressivo decadimento come la casa abbandonata del principe nel cuore del quartiere pattugliato, divenuta rifugio di un cane rabbioso.
La città vecchia vista dall’alto, con i suoi tetti grigi, i cortili quadrati e le mura basse che proteggono negando l’accesso allo sguardo, viene assediata e controllata da lontano da imponenti palazzi bianchi schierati uno accanto lungo la linea dell’orizzonte.
Come la modernità cinese filtrata dallo sguardo occidentale e dall’intepretazione che questo propone, anche quella presenza spettrale che minaccia e protegge mantiene valenze profondamente contraddittorie, riproposte dagli slogan politici e dagli attanti dell’arena urbana, che ripetono diligentemente il messaggio delle autorità, interiorizzandolo: è un bene che le vecchie strutture fatiscenti e ricettacolo di malattie vengano demolite, per permettere il rilocamento della popolazione in edifici nuovi e dotati di tutti in comfort.
Una simile visione viene però immediatamente contraddetta da altre constatazioni: nel quartiere di case basse e cortili tutti si conoscono e possono per questo controllarsi reciprocamente, ma è impossibile sapere cosa succede nelle palazzine a più piani, dove ogni appartamento è un’unità modulare che isola dall’esterno.
Elementi del passato come i comitati di quartiere e nuovi fenomeni come la demolizione programmatica di case tradizionali con cortile, coesistono in modo problematico nel processo di transizione materiale e concettuale.
La rilocazione delle settecentomila persone nei nuovi “apartment blocks” è vista dalla polizia di quartiere come un fatto positivo, perché riduce il numero di dispute nelle quali intervenire: di fatto rende gli stessi problemi solo meno evidenti.
In nessun luogo come a Pechino è stato possibile verificare con tanta efficacia come l’assetto urbano e le politiche ad esso collegate si ripercuotano immediatamente e drammaticamente sull’esistenza del singolo individuo e sulla sua percezione della realtà.
Il terzo film della trilogia di Ning, I love Beijing (Xiari nuanyangyang), è stato girato nel 2000 e testimonia un altro momento specifico della storia della città che non ritornerà più: se lo spazio urbano influenza la vita dei suoi abitanti, anche le persone rappresentate in quel frangente non torneranno più nelle stesse modalità.
La Pechino di I love Beijing è quella dei primi anni 2000, dei cantieri aperti giorno e notte, della frenetica costruzione di nuovi complessi abitativi, uffici e centri commerciali.
Il protagonista si chiama Dezen ed è un tassista – navigatore per eccellenza della città – che per il suo lavoro attraversa ogni giorno la capitale da parte a parte, percorrendone le circonvallazioni concentriche e costeggiando i cantieri.
I crateri che la deturpano creano uno scenario apocalittico, in realtà colossale preparativo per una festa continuamente posticipata. Dezen è talmente abituato alle sue corse quotidiane, frenetiche, da una parte all’altra della città, che non sembra notare né farsi turbare troppo da questo sconvolgimento: è l’occhio dello spettatore che si posa sullo scenario sconvolto, temporaneamente congelato nella logica del cantiere e in attesa di ritrovare una forma.
Il malessere urbano torna sottoforma di rapporti umani compromessi, precari e continuamente minacciati dall’instabilità strutturale ormai cronicizzata.
Gli interni non sono meno precari e i loro spazi continuamente adattati manifestano la necessità delle persone, soprattutto waidi – gli immigrati dalle campagne, di trovare un appoggio che consenta loro di prendere dalla città tutto quello che possono.
*Mariagrazia Costantino mgcostantino[@]gmail.com si è laureata nel 2003. Dal 2000 al 2006 ha soggiornato per lunghi periodi in Cina. Ha studiato all’Università Normale di Pechino e alla Beijing University; è stata inoltre borsista ministeriale all’Accademia Nazionale di Belle Arti di Hangzhou e tirocinante presso l’Istituto Italiano di Cultura dell’Ambasciata d’Italia a Pechino. Nel 2007/2008 ha frequentato un Master in Media and Film presso la SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra e ha da poco conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Cinema presso il Dipartimento di Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre. È coautrice di Arte Contemporanea Cinese (Electa) e ha contribuito alla stesura del testo World Film Locations: Beijing.
** Questa tesi è stata discussa presso L’Università di Roma Tre, Dipartimento di Comunicazione e spettacolo. Relatore: Prof.ssa Veronica Pravadelli.
[La foto di copertina è di Federica Festagallo]