Come si concilia il tentativo di proporre l’India patria dello yōga, dunque di ribadire l’immagine di tolleranza, con una politica discriminatoria e intollerante nei confronti delle sue minoranze? E’ la domanda alla base dell’elaborato di Giulia Nesi.
“India, the world’s largest democracy, has a strong civil society, vigorous media, and an independent judiciary, but also serious human rights concerns.”
Con queste parole di Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, si apre il report annuale degli eventi salienti del 2015. L’India, infatti, conosciuta in tutto il mondo per essere la “più grande democrazia” e patria della spiritualità, in realtà, ha diversi problemi nel gestire i rapporti intercomunitari con le minoranze che la popolano, principalmente musulmani e cristiani. Sorge spontanea la prima domanda, in parte provocatoria: come si concilia il tentativo di proporre l’India patria dello yōga, dunque di ribadire l’immagine di tolleranza, con una politica discriminatoria e intollerante nei confronti delle sue minoranze? Negli ultimi trent’anni, infatti, è stato registrato un aumento di casi di violenza antimusulmana, favorita da partiti che attingono dal repertorio ideologico hindutva.
È doveroso chiarire che quest’ideologia è il frutto di un progetto politico-culturale e non religioso, ragion per cui non è corretta l’identificazione col termine “fondamentalismo”; anche se durante la stesura verrà utilizzata l’espressione di “integralismo induista”, tengo a precisare che non intendo ipotizzare una necessaria matrice religiosa dello hindutva, nonostante questa galassia rivendichi una continuità con l’induismo tradizionale e le correnti neo-induiste. Per evitare di cadere in questo tranello, il primo capitolo del mio elaborato è dedicato alla definizione del quadro sociopolitico indiano dal periodo coloniale ai giorni nostri. Per questo lavoro di ricostruzione sono stati fondamentali due testi del politologo Christophe Jaffrelot: il primo, Hindu Nationalism: A Reader, analizza il repertorio hindutva; il secondo, Modi’s India: Hindu Nationalism And The Rise of Ethinc Democracy, esamina la politica di Narendra Modi, leader del BJP e Primo Ministro dell’India.
Per comprendere la situazione attuale, infatti, è necessaria la conoscenza dell’universo del Saṅgh Pārivār, la famiglia del Saṅgh, formato da tante piccole organizzazioni di varia natura, dalla moderata all’estremista, che sono affiliate al Rāṣṭrīya Swayamsevak Saṅgha (RSS), la Forza Volontaria Nazionale, formatasi nel 1925. Questa organizzazione militante, nata come corpo volontario, era dichiaratamente hindutva e non era rappresentata da alcun partito, perciò, per riuscire ad entrare in parlamento ha fondato negli anni ’80 il Bhāratiya Janatā Party (BJP), il Partito Popolare Indiano. Anche se apparentemente il BJP si presenta come un partito moderato, tuttavia, è riuscito a portare avanti il programma politico del RSS, costituito principalmente da tre punti: l’abrogazione dell’Art.370, la costruzione del tempio dedicato a Rāma ad Ayodhya e la richiesta di un Codice Civile Unificato; attualmente, il Primo Ministro Narendra Modi è quasi riuscito a realizzare tutti questi punti a discapito della minoranza musulmana.
Questo elaborato nasce dall’idea di rispondere ad alcuni interrogativi scaturiti proprio dall’apprendimento della vicenda di Ayodhya, centro dell’Uttar Pradesh, nota sia nella letteratura indiana per essere stata la città natale di Rāma, sovrano incarnante i valori comportamentali da seguire, sia per i fatti di cronaca. Infatti, nel 1992 la moschea della città, la Babri Masjid, fu distrutta da una folla di devoti militanti hindutva, i kar sevak, i quali rivendicavano il possesso del luogo, legittimati dalla credenza che in passato c’era un tempio dedicato a Rāma. Perciò, cosciente della polarizzazione intercomunitaria odierna, mi chiedo: la distruzione di un monumento culturale, dall’alto valore simbolico, può considerarsi una strategia politica finalizzata alla marginalizzazione della minoranza, in questo caso i musulmani? Inoltre, è stato un avvenimento isolato? O potrebbe esserci un piano già elaborato grazie al quale si potrebbero prevenire future distruzioni? Oltre a ciò, la vicenda di Ayodhya ha mostrato al mondo fin dove può spingersi una mobilitazione di massa sapientemente giostrata da un’organizzazione, che strumentalizza la religione e il patrimonio culturale per raggiungere i propri scopi.
Per rispondere a queste domande, è necessaria la comprensione della simbologia e della mitologia, utilizzate dal movimento hindutva per la costruzione di un’identità nazionale con cui plasmare la maggioranza della popolazione indiana. Come ha messo in luce la storica Audrey Truschke nel suo articolo Hindutva Dangerous Rewriting of History una delle strategie politiche è il revisionismo storico del passato basato sugli scritti britannici, che screditavano l’operato delle dinastie indo-musulmane per legittimare quello coloniale. In questo progetto hindutva, l’educazione gioca un ruolo importante, poiché subdolamente diffonde la visione de-storicizzata dei fatti attraverso la reiscrizione dei programmi e dei libri di testo scolastici e universitari; perciò, nella costruzione della coscienza nazionale si parla di saffronization, letteralmente tradotto come “zafferanizzazione”, per evocare qualcosa macchiato dallo zafferano, il colore distintivo degli hindutva. Compreso il sottile confine che divide gli avvenimenti storici da quelli mitologici, è stata fondamentale la lettura delle analisi fatte dalla politologa Simona Vittorini riguardo alla simbologia visiva adottata dai movimenti hindutva.
Il secondo capitolo del mio elaborato, infatti, tratterà gli elementi simbolici ed evocativi che hanno permesso la costruzione della nuova identità maggioritaria e, di conseguenza, capire com’è stata possibile la vasta mobilitazione politico-religiosa che causò la distruzione della Babri Masjid e l’ondata di violenze che sconvolse il Gujarat nel 2002. Imprescindibile in questo discorso è capire l’importanza attribuita al territorio, poiché la geografia è un altro elemento chiave nella definizione di nazione; altrettanto significativo è comprendere l’utilizzo dello spazio pubblico in relazione alle festività, come i sarvājanik, e i pellegrinaggi sacri, yatra, eventi in cui viene mobilitata una gran fetta della popolazione indiana. Se da una parte la galassia hindutva si mobilita per la creazione dell’identità attraverso il rito, le celebrazioni pubbliche e i pellegrinaggi, dall’altra, sembra che ci sia una vera e propria mobilitazione, in senso distruttivo, rivolta contro i musulmani. Perciò, è possibile distruggere l’identità culturale dell’”Altro”?
Il discorso sull’identità di una nazione può essere insidioso e pericoloso se non viene trattato con senso critico; perciò, chiarisco che nel contesto del mio elaborato metto in luce il processo di costruzione dell’identità maggioritaria che, specularmente, ha creato un’identificazione culturale distorta dei musulmani, attribuendole connotati negativi. Inoltre, riprendendo gli spunti iniziali, mi sono domandata se questo discorso si possa applicare anche all’ambito dei monumenti culturali. Molto significative sono state le riflessioni di Corinne Lefèvre esposte nel suo articolo Heritage Politics and Policies in Hindu Rashtra, in cui ha analizzato i programmi statali e privati in merito alla prevenzione e salvaguardia del patrimonio culturale indiano. Altrettanto utile, è stata la recente pubblicazione Gods in the time of democracy della storica dell’arte Kajri Jain, la quale ha analizzato l’importanza politica delle nuove costruzioni, templi e statue colossali, nel paesaggio indiano e ha mostrato l’impatto che possono avere nel processo di marginalizzazione della minoranza.
Il terzo capitolo segue la scansione tipica del modus operandi del movimento hindutva, messo in luce dalla storica Supriya Gandhi, ovvero preservare le tradizioni con cui far identificare la comunità maggioritaria, “distruggere” gli avvenimenti del passato discordanti con la visione hindutva e, infine, elaborare una nuova versione. Nel primo paragrafo del terzo capitolo, cercherò sia di fare una ricostruzione delle moschee distrutte in questi ultimi vent’anni sia di capire quali potrebbero essere le prossime. Nei discorsi hindutva, infatti, sono ricorrenti i riferimenti a delle liste di templi che sono stati distrutti dagli imperatori indo islamici e su cui sono state erette le moschee. Il progetto politico è di distruggere tutti questi monumenti religiosi islamici che sono riportati sulle liste? Allora, qual è l’approccio hindutva nei confronti del Taj Mahal? Il mausoleo islamico diventato una meta turistica così nota da essere considerato, in occidente, il simbolo per eccellenza dell’India. È possibile che, pure tra gli stessi monumenti islamici, ci siano dei trattamenti differenti in nome del turismo?
Inevitabilmente, ritorno a uno dei primi quesiti posti: la distruzione intenzionale di questi siti può essere ritenuto uno strumento per emarginare la comunità musulmana? In particolare, mi chiedo se sia possibile far rientrare questa strategia nella categoria di genocidio culturale. Con questo termine introdotto negli anni ‘40, infatti, il giurista Lemkin indicava l’atto di distruzione intenzionale dell’unità spirituale e morale, simbolicamente espressa dal patrimonio culturale, che provoca una perdita al pari di una distruzione fisica della nazione. Gli anni successivi alla fine dalla Seconda Guerra Mondiale, furono fondamentali per l’elaborazione di strumenti internazionali mirati alla prevenzione di ulteriori atrocità. Non a caso, il filo che collega le varie organizzazioni create dall’ONU è caratterizzato dalla protezione della cultura, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Nonostante ciò, negli ultimi trent’anni si sono intensificate le violenze nei confronti delle minoranze, protette da una politica che non interviene e, silenziosamente, incita l’odio intercomunitario. In questo discorso, il patrimonio culturale è stato ridotto a uno sterile simbolo con cui identificare l’”Altro”, il diverso, e non più come una testimonianza secolare dell’incontro e della collaborazione di culture differenti. Più che mai, perciò, è necessario indagare il significato del patrimonio culturale, perché, come insegna la storia, immancabilmente è sempre stato preso di mira durante i processi di annientamento di quelle comunità che non rientravano nella cultura maggioritaria della nazione. Come mai l’UNESCO e le altre organizzazioni mondiali non stanno intervenendo in difesa del patrimonio e dei diritti della minoranza musulmana? L’ultimo quesito che mi pongo è: stiamo forse assistendo a un massacro? Consapevole che quest’ultima domanda avrà una risposta solo nel futuro, mi ricollego a una frase del giornalista, e ammiratore dell’India, Tiziano Terzani che, nel suo libro Un Indovino mi disse, scrisse: “La storia esiste solo se qualcuno la racconta”.
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Di Giulia Nesi
Giulia Nesi è laureata in Storia e Critica d’Arte presso l’Università Statale di Milano, dove ha avuto l’opportunità di approfondire l’ambito filosofico-artistico dell’Asia Meridionale. Interessata alla storia dell’arte e alle questioni sociali dell’India contemporanea, ha conseguito la laurea in Scienze Storiche e Orientalistiche con una tesi politico-culturale sulle attività del Sangh Parivar nei confronti del patrimonio culturale musulmano-indiano.