Anche nella Cina contemporanea, dove una società sempre più plurale è sempre più avvezza a spendere il proprio reddito in beni di consumo, si è cominciato negli ultimi anni a parlare di pink yuan.
La comunità gay cinese discute delle implicazioni del nuovo interesse rivolto loro dagli attori del mercato interno. A parte alcuni scettici, la maggioranza si dichiara entusiasta della visibilità garantita all’omosessualità da questo fenomeno, visibilità che fino a poco tempo prima sarebbe stata impensabile – in Cina l’omosessualità è ancora in gran parte un tabù.
Sarebbe opportuno tuttavia interrogarsi sui significati profondi di questa “visibilità” di cui gli omosessuali cinesi si rallegrano, e chiedersi se una maggiore presenza nei discorsi pubblici è davvero un passo verso l’emancipazione di una comunità.
La rivoluzione sessuale cinese
Pan Suiming parla di una vera e propria rivoluzione sessuale in atto nella Cina contemporanea, specialmente fra i giovani dei ceti urbani; essa è attribuita non alla sola influenza occidentale, bensì a radicali cambiamenti nel ciclo vitale primario, ovvero l’insieme delle relazioni sociali e sessuali di base con il sesso opposto.
Durante il maoismo – soprattutto nel suo apice, ovvero la Rivoluzione Culturale – il sesso non era propriamente represso, ma recluso al solo ambito della riproduzione. La sessualità al di fuori delle finalità riproduttive era considerata un vezzo borghese: le uniche “passioni” a cui i cinesi potevano e dovevano cedere erano quelle politiche, mentre le altre erano considerate deviazioni dalla lotta di classe.
Con la fine del maoismo e il cambio di leadership la situazione si ribalta, e la condanna della Rivoluzione Culturale investe anche le passioni politiche, che vengono considerate eccessive e pericolose. Nel periodo di riforma e apertura cambia radicalmente lo stile di vita dei cinesi: il sistema delle danwei (unità di lavoro) si allenta e di conseguenza si instaurano nuovi confini fra la vita pubblica e privata del cittadino, e il sesso smette di coincidere con la sola procreazione.
Inoltre la nuova classe dirigente cinese, guidata da Deng Xiaoping, intraprende il progetto della costruzione di una Cina neoliberista. Il motore di una società neoliberista è il desiderio; senza soggetti che desiderano, un progetto di questo tipo è irrealizzabile. Pertanto l’obiettivo del Partito Comunista Cinese diventa trasformare le passioni politiche in desiderio, trasformare il paese in una desiring China.
La negoziazione su quali desideri siano tollerati (e incoraggiati) corrisponde al processo di ristrutturazione delle reti sociali che definisce nuove gerarchie; lo scontro fra gruppi culturali (e non più classi sociali) ha lo scopo di individuare quale tra essi sia il più adatto a rappresentare il futuro e traghettare una Cina moderna verso il benessere.
Le incalzanti promesse di modernità da parte del partito, costantemente rinnovate, creano nuovi spazi di legittimazione per elementi prima non in linea con il progetto politico cinese. La comunità LGBT+, con la sua identità cosmopolita e transculturale, ambisce a occupare questi spazi; tuttavia lo fa non attraverso la rivendicazione di diritti civili, bensì sempre in un framework di consumo.
Dunque il pink yuan è il modo in cui gli omosessuali cinesi traggono vantaggio dalla rivoluzione sessuale e dal neoliberismo per negoziare un ruolo da attori sociali con piena legittimità; legittimità che, tuttavia, potendosi esprimere solo attraverso il consumo, risulta diversificata a seconda delle fasce di reddito.
I corpi docili della pink economy
Gli LGBT+ cinesi considerano la pink economy un fattore positivo nel loro percorso di emancipazione perché garantisce loro visibilità: grazie al mercato in Cina si parla un po’ di più di omosessualità, non si fa finta che non esista. Il presupposto logico di queste considerazioni è appunto che una discussione libera coincida con una maggiore libertà individuale. Michel Foucault ribalta questa prospettiva e sostiene che discorsi apparentemente liberi siano in realtà sempre inquadrati in dinamiche di potere. Le “pratiche discorsive” – letteratura, diagnosi, regolamenti, leggi, sentenze, articoli, scambi epistolari o verbali fra membri della società – non sono mai neutrali né “innocenti”, ma sono parte di una rappresentazione e di un’autorappresentazione di un’epoca.
Le pratiche discorsive sono uno strumento del “bio-potere”, cioè l’insieme dei meccanismi con cui il potere si esercita sui corpi per controllarne e amministrarne la vita. A differenza delle società premoderne, in cui il potere del sovrano derivava dalla sua capacità di dare la morte, nella società moderna esso ha invece l’obiettivo di far vivere, si esercita sulle condizioni di vita e sulla vita stessa della popolazione. Il controllo esercitato sui corpi serve a renderli “docili”, ovvero a creare dei soggetti funzionali all’inserimento in un determinato sistema promuovendo modelli di vita positivi in contrasto con modelli negativi. Infatti le discipline centrali della bio-politica sono la demografia e l’economia politica: si cerca attraverso di esse di scongiurare epidemie e carestie e di massimizzare l’impiego della popolazione in attività redditizie.
La congruenza con il caso cinese è evidente. La “governamentalità” cinese ricorre continuamente a discorsi di modernità (xiandaihua) e scientificità (kexue) per sancire cosa è tollerato e cosa non lo è. Erwin individua tre pilastri nel discorso dell’individuo cinese moderno: la salute psicologica; il piacere e lo svago; la stabilità e la famiglia. Quest’ultimo valore non è fisso ma oggetto di contesa, ma ciò non avviene mai al di fuori dello stato, bensì in un’arena di dibattito monitorata da esso, che si fa testimone e arbitro della negoziazione discorsiva riguardo la realizzazione di sé e le relazioni familiari. Nel caso delle hotline analizzato da Erwin l’intervento dello stato si palesa nella promozione di interventi “scientifici” per influenzare i soggetti in questione – terapia psicologica e educazione sessuale, interventi mirati a normalizzare gli individui. Si parla di un passaggio sempre più forte dalle official politics (controllo diretto sulla vita privata, tipico del maoismo) alle family politics (controllo indiretto, tipico della Cina neoliberista).
La famiglia è quindi la principale fonte di potere sociale per i cinesi contemporanei. Per questo gli LGBT+ cercano di imporre un discorso di famiglia antagonistico a quello passato. Il mezzo di espressione utilizzato è il consumo, uno strumento privilegiato per diversi motivi. La pink economy rispetta a pieno i due criteri di accettabilità del desiderio individuati da Rofel: 1) è un desiderio che può ridurre e sublimare le passioni politiche e reificare la soggettività; 2) può essere contemporaneamente cosmopolita e cinese. Inoltre, il consumo, dietro un’apparenza di collettività, mantiene la manifestazione di dissenso individuale e anonima, e pertanto politicamente innocua. Infine, il consumo è la forma d’espressione individuale più controllata; non esiste una ribellione attraverso il consumo, anzi ogni atto consumistico consolida e rafforza le strutture di potere vigenti in una società capitalista. Ne consegue che una rivendicazione di diritti che passi per il consumo non può che essere strumentale e incoraggiata dalle classi dirigenti.
È da presumere che in futuro ci sarà una sempre più vasta proliferazione di discorsi sull’omosessualità in Cina; ma in una prospettiva foucaultiana dei rapporti tra potere, sapere e verità, la produzione discorsiva sull’omosessualità non può produrre vera emancipazione ma solo soggetti nuovi inquadrati in dinamiche di potere nuove.
Una prospettiva storica
Ci troviamo dinanzi a due forze che si scontrano: da un lato il “razzismo” foucaultiano, l’impulso di cesura tra un modello di vita positivo e uno negativo, e il conseguente tentativo di normalizzazione degli omosessuali; dall’altro la “disciplina”, la piena adesione al potere da parte dei gay cinesi.
Per il pensatore francese l’omosessualità non è un dato naturale, ma artificiale, un “dispositivo storico”.[8] Creato nel XIX secolo, fu espressione della società capitalista nascente. La necessità di individui interamente assorbiti nei processi produttivi non permetteva il lusso di una sessualità che sottraesse più energie di quelle strettamente necessarie alla procreazione – alla creazione cioè di nuova forza lavoro.
Se la repressione sessuale è espressione del potere nella società moderna, è lecito chiedersi se la re-inclusione sessuale non sia propria della società postmoderna. D’altronde le trame del potere per Foucault non sono fisse, bensì mutevoli e contingenti. Una società nuova richiede regole nuove.
Alla luce di un’analisi del pink yuan come possibile autorappresentazione di una società postmoderna cinese, si può ipotizzare che l’addomesticamento dei corpi non miri più a generare forza lavoro che non sia distratta dalla sessualità, anzi il desiderio sessuale è incoraggiato. Il postmodernismo, caratterizzato dall’invadenza dei media nella formazione delle convinzioni personali, unita alla mancanza di una visione unitaria di verità, non richiede più soggettività omologate ma reificate, mercificate.
I corpi docili della pink economy sarebbero dunque simili a prodotti sullo scaffale di un supermercato: variopinti ma simili nella sostanza, unici ma prodotti in serie, e inseriti in un sistema che ne fa nulla di più che fonti di profitto.
*Livio Di Salvatore (livio.disalvatore@gmail.com) abruzzese, classe ’93, laureato in Lingue, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa Mediterranea presso l’Università Ca’Foscari di Venezia, ha poi frequentato un master in Food&Wine Management alla 24 Ore Business School. Attualmente si occupa di export verso la Cina nel settore vinicolo, e nel tempo libero alterna musica e birrini.
**Questa tesi è stata discussa nell’anno accademico 2017/2018 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Relatore: prof. Daniele Brombal; correlatore: Dott. Federico Picerni