La Cina nell’ultimo decennio ha esponenzialmente accresciuto la sua potenza – e con essa la sua influenza – nel mondo. Influenza economica, innanzitutto, quindi politica, oltre che militare, tecnologica, diplomatica. Ma anche, sebbene con maggior fatica, influenza ideologico-culturale. Sin dalla metà degli anni Duemila il governo cinese ha investito moltissimo per promuovere ciò che esso stesso ha inizialmente definito, prendendo a prestito l’ormai nota nozione, “soft power culturale”. Tale progetto si è intensificato con l’avvento di Xi Jinping, molto determinato nell’imporre il volere del Partito Comunista sia in Cina che all’estero, il quale sin dall’inizio del suo mandato ha cominciato a sottolineare con insistenza la necessità di “raccontare bene le storie della Cina, diffondere bene la voce della Cina, aumentare il potere discorsivo della Cina a livello internazionale”, al fine di propagare, nel mondo, “conoscenze più autentiche, tridimensionali e complete della Cina”. Perciò negli ultimi anni, in particolare in concomitanza con il lancio dell’iniziativa economico-strategica della Belt and Road, il governo cinese ha esponenzialmente moltiplicato gli investimenti volti a finanziare gli scambi culturali con la Cina, favorire l’espansione dei media cinesi all’estero, incrementare l’impatto internazionale della diplomazia nazionale, eccetera. Iniziative legittime, e anche potenzialmente positive, dato che davvero c’è bisogno, a partire dalle nostre società occidentali, di incrementare, migliorandole e arricchendole, le conoscenze disponibili sulla Cina, spesso assemblate e offerte al pubblico in modo ancora troppo superficiale, schematico o monotematico. Purtroppo però, come ha suggerito lo stesso Xi Jinping, più che a favorire la diffusione di prospettive sulla Cina diversificate e pluralistiche, complesse e aperte al dialogo e alla critica, tale progetto di “narrazione della Cina” punta più che altro a diffondere discorsi e immagini sulla Cina – la sua storia gloriosa, i suoi straordinari progressi sociali, i valori positivi del suo popolo unito e pugnace – corrispondenti in larga parte alle visioni e agli interessi nazionali delineati dal Partito Comunista. In buona parte, le rappresentazioni della Cina che il governo cinese si sforza di narrare e far narrare ricalcano di fatto gli schemi e i principi dell’ideologia di stato sanzionata dal partito, i mezzi con cui queste rappresentazioni tendono a essere esportate appaiono, tipicamente, quelli familiari della propaganda interna (senza farne mistero, il partito definisce queste operazioni “propaganda esterna”, duiwai xuanchuan).
Tale progetto, di conseguenza, ha finito per riprodurre non di rado i metodi e le pratiche con cui il partito controlla la produzione dei discorsi e orienta la costruzione delle rappresentazioni in patria, dato che se da un lato esso mira a stimolare – anche ricercando la collaborazione di vari attori culturali stranieri nel nome dell’amicizia e del vantaggio reciproci – la diffusione di immagini positive dei “geni” culturali della Cina e delle virtù speciali del suo modello di sviluppo, per contro l’altro suo intento caratteristico è quello di sorvegliare al fine di contrastare, limitare, e possibilmente neutralizzare – anche attraverso meccanismi di censura rivolti soprattutto a coloro che più sono legati da rapporti di amichevole interesse con la Cina – la produzione di quei discorsi e quelle immagini negative che minano o smentiscono le rosee narrazioni ufficiali consacrate dal partito. In particolare, nel loro zoccolo ideologico più duro, gli sforzi narrativi patrocinati dal governo cinese si sono dedicati negli ultimi anni a ritrarre con toni sempre più espliciti e assertivi i lineamenti idealizzati della Cina come potenza forte ma benefica, caratterizzata da un sistema politico meritocratico ed efficiente, un modello di sviluppo miracoloso, e un nucleo fondante di valori incentrati sull’armonia e sull’esercizio della responsabilità, contrapponendo tale costruzione positiva del “modello” e dei “valori” congenitamente “cinesi” alla raffigurazione negativa del “modello” e dei “valori” incarnati dai paesi “occidentali” – Stati Uniti in testa – contestati per la loro ingiusta e prevaricatrice egemonia e dipinti come corrotti, egoisti, irrazionali o inefficienti.3) In Italia questo tipo di narrazione lo abbiamo visto per la prima volta, con icastica evidenza, nei momenti più drammatici del Covid, quando il governo cinese, dopo avere risolto con prontezza ed efficacia il problema della diffusione del contagio sul suolo nazionale, non ha perso l’occasione di sbandierare, con audace intraprendenza e un compiaciuto paternalismo, l’immagine della Cina come “grande paese responsabile” promotore di una leadership efficiente e benevola, anche facendo leva sulla paralisi dei sistemi democratici occidentali incapaci di far fronte all’emergenza e dare risposte ai cittadini. Come operano e come si articolano concretamente queste manifestazioni ideologiche nella nostra società, e quali effetti potenziali potrebbero produrre tali sforzi di influenza della Cina, qualora la potenza di quest’ultima continuasse a espandersi nel nostro mondo, sui processi del nostro sistema democratico già molto fragile, delegittimato, e più di altri esposto a tentazioni illiberali?
Questo però è quanto succedeva più che altro fino a ieri. Nel frattempo è arrivato il Covid, innescando una catena di eventi imprevedibili che hanno rimescolato le carte un po’ dovunque, con il risultato che anche l’energica muscolosità con cui la propaganda cinese ha difeso l’operato del suo governo all’estero si è trasformata, alla fine, in un boomerang, contribuendo a esacerbare, anziché a distendere, la percezione già sufficientemente radicata in Occidente che l’ascesa cinese costituisca essenzialmente una minaccia. Oggi, mentre la Cina sembra essersi ritirata nel suo guscio esercitando una stretta autoritaria ben poco soft e visibilmente hard nei territori sotto la sua sovranità, come insegnano i fatti di Hong Kong, la “propaganda esterna” del governo cinese sembra essersi per il momento messa in stand-by, mentre intanto sembra avere preso il sopravvento, nel nostro mondo occidentale, un’altra narrazione, a sua volta non meno pretenziosa e perniciosa. Una narrazione prima inaugurata con la guerra tecnologico-commerciale scatenata dagli Stati Uniti, quindi proseguita con le accuse farneticanti relative al “virus di Wuhan”, infine culminata con l’appello rivolto a tutto il “mondo libero” a combattere una crociata contro la “nuova tirannide” cinese, invocando grottescamente la difesa di un sistema di istituzioni e di valori – quello democratico-liberale – che mai come oggi è stato messo sotto i tacchi proprio da chi lo brandisce. Se è da ravvisarsi, nel tentativo dell’attuale governo americano di demonizzare la Cina costruendola tout court come un nemico, un consistente fattore di paranoia dovuta all’eccentricità dell’attuale presidente e all’unilateralismo dei falchi che lo consigliano, occorre notare che gli schemi narrativi che sostengono tale costruzione non sono affatto nulla di nuovo, radicati come sono in una tradizione di categorie concettuali attinte alla doxa della Guerra Fredda e prima ancora all’episteme dell’orientalismo coloniale: abbiamo, così, il totalitarismo “comunista” dell’attuale leader del partito equiparato a Mao se non addirittura a Stalin, la natura “subdola” del capitalismo cinese perversamente controllato dallo stato e sistematicamente volto a rubare sapere e potere all’Occidente, la spersonalizzazione della società cinese considerata o come un’appendice monolitica del partito (di cui sarebbe “schiava”) o come un’entità contrapposta talora schiacciata talora resistente (ove i cinesi tenderebbero a figurare o come complici o come dissidenti), la stigmatizzazione generalizzante dei cinesi all’estero, visti potenzialmente o come cripto-agenti del governo cinese, se studenti o studiosi, o razzializzati in base a tri(s)ti stereotipi, se umili lavoratori. E non è finita qui, dato che nel suo intento dichiarato di “cambiare la Cina” l’attuale segretario di stato americano ha sottolineato anche la necessità di lavorare con gli alleati dell’America per “cambiare la percezione del Partito Comunista Cinese”, sineddoticamente identificato con il paese tutto e prova (non) provata della sua anomalia rispetto a noi (“we can’t treat this incarnation of China as a normal country, just like any other”). Il risultato mi sembra abbastanza evidente: se fino a qualche tempo fa, date le seduzioni della Belt and Road e le pulsioni anti-euroatlantiche della coalizione populista, si era diffusa in Italia una certa infatuazione sinofila verso la Cina e il suo “modello”, oggi all’improvviso sembra spirare anche da noi soprattutto un vento sinofobo, dominato da una visione negativa a priori della Cina come altro irriducibile o competitor sleale da cui prendere discretamente ma fermamente le distanze.
È pur vero che la Cina per l’Occidente è sempre stata un “camaleonte”, un’entità sfuggente e cangiante pronta a mutare di colore e di sembiante a seconda dello sguardo con cui l’Occidente la osservava. Oggi, però, non è più tempo per limitarsi a guardare alla Cina con le lenti già pre-scritte dalle imbeccate degli interessi economici e delle agende politiche contingenti. L’ineludibile centralità della Cina negli assetti mondiali, la sua ascesa e la sua influenza oggettiva a livello globale, a prescindere da come si evolveranno i rapporti cinesi con il cosiddetto mondo occidentale, richiedono davvero una diffusione più vasta e sistematica di conoscenze “più autentiche, tridimensionali, e complete” sulla complessa realtà cinese, per quanto con buona pace di Xi Jinping non sono le visioni sulla Cina con cui il governo cinese cerca di ammaliarci quelle di cui abbiamo maggiormente bisogno. Oggi nella nostra società c’è bisogno di far circolare conoscenze più ampie, approfondite e articolate sulla Cina, non solo a vantaggio dei moltissimi giovani che oggi scelgono di studiare la lingua e la cultura cinese ma a favore di tutto il pubblico nazionale interessato: non si tratta di una persuasione personale, ma di una necessità imposta dalle trasformazioni storiche in atto. C’è bisogno di interpretare e comprendere meglio le specifiche dinamiche politiche, sociali e culturali che guidano le visioni e le azioni prodotte in Cina e dalla Cina, c’è bisogno di un sapere sulla Cina più obiettivo e nello stesso tempo, proprio in virtù della sua maggiore obiettività, più coscientemente critico, in quanto capace di smontare e sormontare le tante narrazioni precostituite che perturbano la formazione delle nostre percezioni su quel paese. Questo tipo di sapere, di fatto, lo possono mettere a disposizione soltanto gli studiosi – e non siamo in pochi – con una preparazione specifica nei vari ambiti degli studi cinesi. Per questo, credo che un modo utile per esercitare il nostro ruolo, un modo utile per esercitare la nostra autonomia in modo costruttivo, alla luce delle trasformazioni storiche in corso, sia quello di partecipare di più per diffondere di più e meglio nella nostra società conoscenze approfondite e articolate, obiettive e critiche sulla Cina. Diciamo che questa potrebbe essere la nostra missione pubblica, la nostra “terza” missione.
Ciò, naturalmente, mette sul tavolo alcune questioni importanti, che sarebbe auspicabile diventassero oggetto di discussione, magari proprio in questa sede. Come intervenire sulla Cina, e in quali spazi pubblici? A chi rivolgersi e in che modo? Come uscire dagli steccati a volte troppo angusti dell’università per interagire e collaborare con altri esperti e osservatori della Cina? Quanto alle conoscenze da diffondere, come elaborare un sapere equilibrato e variegato in grado di comprendere e di spiegare le strutture reali della società cinese, senza finire ingabbiati da una parte dalla narrazione “universalista” dell’ideologia liberale secondo cui o la Cina “diventa come noi” o costituisce una pericolosa anomalia della storia, e dall’altro dall’attuale mito dell’“eccezionalismo” cinese che tratta la Cina come un unicum ingiudicabile all’insegna di un relativismo meramente descrittivo e povero di valore interpretativo?Come uscire dalla trappola del presentismo, ovvero da quella visione oggi dominante che, una volta infrantosi il sogno ad occhi aperti che il mercato e la globalizzazione avrebbero prima o poi avviato la Cina verso un percorso di democratizzazione, oramai si rassegna all’idea che la “via” di Xi Jinping alla costruzione della “democrazia socialista” sia l’unico futuro immaginabile della Cina? Come produrre e presentare delle letture storiche di ampio respiro che tengano conto e sappiano chiarire i processi a medio o lungo termine che risiedono a monte delle azioni compiute nel presente e, forse, delle scelte intraprese nel futuro? Come articolare delle analisi puntuali ma non frammentarie, circostanziali ma non disconnesse dal quadro generale, obiettive ma non acritiche, affrontando apertamente le questioni più spinose e gli aspetti più discutibili del “modello” politico-sociale cinese senza ridurli a corollari della presunta malignità di tale modello volti implicitamente o esplicitamente ad affermare per contrasto la bontà politica e morale dell’“Occidente”? Come ascoltare e dare voce, evidenziandone gli aspetti positivi, alle soggettività, le sensibilità e le razionalità politiche e culturali cinesi, senza diventare per questo dei megafoni, consapevoli o inconsapevoli, della propaganda governativa cinese e delle sue essenzializzazioni culturali mitizzate? Questioni, queste ultime, che evidenziano la necessità di sollecitare preliminarmente delle chiarificazioni, in primo luogo a noi stessi, fondamentali per lavorare in modo franco e aperto sulla Cina e con la Cina, un paese, cioè, in cui la manipolazione e la sorveglianza sulla conoscenza sono elementi strutturali che il governo cinese con la sua crescita di influenza ha fatto chiaramente mostra di voler esportare assieme ai suoi “valori”. Quali forme di condizionamento, oggettive e soggettive, agiscono sui nostri modi di parlare della Cina e come operano? Come interfacciarsi con le istituzioni cinesi in modo autonomo e scevro di sudditanze, senza farci incorporare nelle loro operazioni egemoniche, rispettando la Cina come ci chiedono di fare e facendo rispettare per converso le nostre idee, all’insegna dello slogan confuciano riesumato dal governo cinese proprio per chiedere rispetto ai paesi occidentali, he er bu tong, “essere armoniosi nella diversità”? Come giudicare, dopo averli studiati e compresi, i molteplici aspetti della società e della cultura cinese oggi rilevanti in Cina e forse un domani egemonici fuori dalla Cina, per i significati che rivestono per noi e per l’impatto che potrebbero avere sulle forme del nostro vivere sociale, ricusando quegli aspetti che reputiamo negativi e “cogliendo” (nalai) invece quegli aspetti positivi che possono essere utili a perseguire le nostre aspirazioni sociali?
Queste sono solo alcune tracce, su cui credo valga la pena di soffermarsi in una discussione ampia nell’obiettivo di stimolare la diffusione di un sapere e di un’opinione pubblica più informati sulla Cina, favorendo una maggiore alfabetizzazione, per così dire, intorno alle dinamiche cinesi nella nostra società. Credo si tratti di un obiettivo importante, soprattutto per un paese come l’Italia così vulnerabile e suscettibile alle influenze esterne data la sua cronica debolezza politica prima ancora che economica. E anche alla nostra portata, data viceversa l’abbondanza di risorse intellettuali e culturali, non di rado sottovalutate e disperse, che sono comunque in nostro possesso. La “nuova era” inaugurata da Xi Jinping è una nuova era anche per i sinologi, potenzialmente destinati a maggiore centralità, e nello stesso tempo a maggiore responsabilità.
Di Marco Fumian per Sinosfere*
**Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.