Che tipo di leader è il presidente cinese? A un anno dal suo insediamento, proviamo a valutare alcuni messaggi simbolici che Xi Jiping ha lanciato alla sua gente e al mondo. La riscoperta del lungo filo rosso della storia cinese, modernità e tradizione, lotta alla corruzione e affermazione del ruolo insostituibile del Partito. In questi giorni, diversi media si sono sbizzarriti per trarre un bilancio del primo anno di Xi Jinping nel ruolo di presidente cinese: politica, economia, problemi sociali e lotte di potere; tutto è stato scandagliato con cura. Attestiamoci su un livello più culturalmente pop e proviamo a rispondere alla domanda: che tipo di leader è Xi? L’occhio è rivolto agli aspetti simbolici, storici e culturali.
Lo facciamo scambiando quattro chiacchiere con Jeffrey N. Wasserstrom e Maura Cunningham, autori di China in the 21st Century: What Everyone Needs to Know, un libro che – chiariamolo subito – è dedicato a un pubblico di massa e specificamente Usa.
“È una sorta di ‘China for dummies‘ – riconosce Wasserstrom – ma l’editore, Oxford University Press, non vuole che si dica”. Insomma, si tratta di quel genere di pubblicazione che un turista o manager statunitense catapultato oltre Muraglia si legge durante il viaggio in aereo e la cui unica pretesa sembrerebbe quella di dare un’idea concisa sul Dragone: domande e risposte in serie, pochi fronzoli. Ma parlando con i suoi autori, si può forse andare al di là del libro stesso.
Che tipo di leader è, dunque, Xi Jinping?
“Partiamo dall’immagine ufficiale che ritrae la linea di successione Mao Zedong/Deng Xiaoping/Jiang Zemin/Hu Jintao”, osserva Wasserstrom. “Mao e Deng hanno l’abito cinese tipico, marcano quindi una differenza con l’Occidente; con Jiang Zemin e Hu Jintao, il dress code diventa simile al nostro. Sì, la cravatta è rossa, ma sembrano quadri medi d’azienda. Ed eccoci a Xi. Ama apparire sia in immagini all’occidentale, sia con l’abito tipico”.
Tant’è che sull’edizione giapponese di Newsweek è stato addirittura raffigurato in un abito simile a quello di Kim Jong-un, il leader nordcoreano, quasi a voler suggerire la mostruosità che si nasconde dietro ai sorrisi di Xi.
Cosa significa questo sincretismo simbolico di Xi? Gli autori hanno pochi dubbi: l’attuale presidente si richiama sia al passato comunista sia a quello non comunista. Si pone in linea con tutta la storia cinese e ora la genealogia ufficiale è “Confucio/Sun Yat-sen/Mao/Deng/Jiang/Hu/Xi”.
“In giro per Pechino – osserva ancora Wasserstrom – tantissima bancarelle mettono in vendita di Discorsi di Confucio fianco a fianco con il libretto rosso di Mao. Xi Jinping cavalca questa tigre. Il messaggio è: Chi è meglio tra Mao e Confucio? Beh, comprali entrambi, dove sta il problema?”
In questa genealogia ridefinita, anche l’innominabile Chiang Kai-shek, rientra – o rientrerà – dalla finestra. Del resto – continua Wasserstrom – pure lui si richiamava a Confucio. Se si intende continuare con la riscoperta del padre della cultura cinese, non si può ignorarlo per troppo tempo: “Chiang viene silenziosamente rivalutato nel nome del patriottismo: ha fallito – si dice – ma era un grande patriota; certo, Mao lo era di più e fa niente se ha combinato qualche danno con la Rivoluzione Culturale, non stiamo a sottilizzare”. Possiamo quindi immaginare che su questi impercettibili slittamenti storiografici corra anche il futuro dei rapporti con Taiwan. Chissà che un giorno i due lati dello stretto di Formosa non finiscano per identificarsi in una storia comune. Senza per altro gridarlo troppo ai quattro venti.
Qual è a questo punto il significato simbolico – al di là di quello pratico – della grande campagna anticorruzione lanciata dalla nuova leadership cinese? Maura Cunningham osserva che c’è una grande differenza tra come viene declinata al maschile e al femminile. “Per gli uomini riguarda soprattutto i comportamenti: niente baijiu pregiata, niente prostituzione e così via. Per le donne è invece soprattutto una questione di immagine”.
Il caso più significativo è quello di Li Xiaoling, figlia dell’ex premier Li Peng e presidentessa del gigante energetico statale China Power International Development. A ottobre, durante il congresso delle donne cinesi, era apparsa in pubblico ostentando una stravagante pelliccia, forse di scoiattolo, suscitando critiche rabbiose da parte dei cinesi qualunque, specialmente in Rete. Durante l’ultimo congresso nazionale del popolo ha quindi pensato bene di riciclarsi in una mise molto più castigata, con una borsetta che assomigliava a un sacchetto della spesa. “Un cambio troppo repentino – osserva Cunningham – l’effetto è stato quello di farla apparire ipocrita”. Sensazione che ci è stata confermata da amici cinesi, tutt’ora infuriati con madame Li.
Il punto è che oggi nessuno crede più che la leadership incarni i valori socialisti (perché “valori” erano e continuano a essere per milioni di cinesi). Ecco alcune immagini di propaganda degli anni Cinquanta: il funzionario corrotto pre-liberazione, contrapposto al quadro comunista al servizio del popolo; la polizia violenta dell’epoca di Chiang Kai-shek e il nuovo milite “popolare” che soccorre la gente. A queste narrazioni dell’epoca di Mao non crede più nessuno: si pensi ai famigerati chengguan, la polizia locale che è ormai divenuta sinonimo di arbitrio e brutalità.
“Il messaggio che risale a quel periodo e che ancora funziona – osserva Wasserstrom – è il fatto che la Cina non è più dominata dagli stranieri. Da qui l’intensità del nazionalismo di Xi, quel ricordare continuamente che finalmente, ora, la Cina è potente”.
Sono quindi tre le narrazioni che ancora funzionano nel marketing politico dell’era Xi, secondo l’autore di China in the 21st Century.
“Quella vecchia: senza il Partito, la Cina non avrebbe potuto risollevarsi rispetto al mondo. Quella relativamente nuova, che risale alla fine degli anni Settanta: grazie al Partito, la vita è diventata migliore. E se non è esattamente così per te, lo sarà senz’altro per i tuoi figli”.
Attenzione però, questo messaggio rischia di fare corto circuito di fronte al rallentamento dell’economia, al perdurare di sacche di povertà, alla diseguaglianza sbattuta quotidianamente in faccia a chi è rimasto indietro, mentre il nuovo ceto medio comincia a fare i conti con la mancanza di qualità della vita: inquinamento, insicurezza alimentare e così via.
E dunque ecco il terzo messaggio, il più recente: “Anche se la situazione attuale non vi piace, guardate come è messo il resto del mondo e rendetevi conto che qui è comunque meglio. Con il Partito, vedrete, continueremo a crescere”.
Infatti – sostiene Wasserstrom – in termini di public relations non esistono alternative al sistema attuale, anche perché la “concorrenza” – leggi “il resto del mondo” – continua a fare una serie di autogol.
“Di fronte alla crisi europea e allo shutdown del governo Usa, il Partito comunista cinese sembra il massimo dell’efficienza. L’odierno stato del Medio Oriente trasmette l’idea di come le “primavere arabe” siano state fallimentari. E perfino il tentativo russo di riemergere – Putin per altro raccoglie molte simpatie in Cina – ricorda quotidianamente ai cinesi quanti disastri abbia combinato il ‘democratico’ Gorbaciov con la sua perestroika. Infine, vicende come Snowden e Wikileaks finiscono per far rivalutare la realtà della Cina perfino su temi come libertà, controllo, diritto e censura”.
In questa operazione di marketing, la lettura della storia riveste come da tradizione un ruolo importantissimo. “È utilizzata in diversi modi, due soprattutto: l’idea di armonia come filo rosso che attraversa tutta la storia e che ha permesso lo sviluppo della civiltà cinese. Non è vero: la Cina è molto più complessa e ha alternato armonia a caos”, osserva l’autore. “C’è poi la memoria vivente delle famiglie che hanno vissuto la Rivoluzione Culturale come fase di intenso dolore. E lì il messaggio è: guardate cosa succede se ci si abbandona al caos”.
Del resto, c’è una forte discontinuità tra la lettura occidentale e quella cinese della storia. Prendiamo il caso estremo, un vero e proprio tabù per noi europei.
“In Occidente si tende spesso ad accostare strumentalmente Mao a Hitler, citando i 30 milioni di morti della carestia successiva al fallimento del Grande Balzo in Avanti. Ma in Cina, è il massacro di Nanchino compiuto dai giapponesi a essere associato inevitabilmente a Hitler”.
Anche il male assoluto ha volti diversi.