Micheal Anti, esperto cinese in nuovi media, racconta a China Files l’importanza del Web e le caratteristiche dei movimenti di opposizione in Cina. In Occidente li definiremmo Nimby, quindi forme di protesta molto legate al territorio. Le piattaforme di microblogging però, permettono l’affermarsi di una nuova leadership "decentrata" che vive grazie al confronto e al dialogo. L’intervista.
Negli ultimi anni il dissenso in Cina ha preso una forma ben definita. All’apparenza, portando come esempio le esperienze della Rivoluzione iraniana due anni fa e dalla recente Primavera Araba, l’apporto che i nuovi mezzi di comunicazione 2.0 hanno dato ai movimenti di protesta può sembrare determinante, permettendo di amplificare il dissenso correndo sui fili transnazionali della Rete, libera per definizione.
Durante lo scorso Festival di Internazionale a Ferrara, abbiamo chiesto a Zhao Jing, al secolo Michael Anti – blogger, giornalista ed esperto di nuovi media – di spiegarci meglio l’evoluzione del dissenso online ed offline all’interno della Repubblica popolare. “Nessun altro tema come la tutela dell’ambiente è capace di mobilitare la classe media cinese” ci ha spiegato Anti, sottolineando la centralità del fenomeno Nimby nelle proteste degli ultimi cinque anni.
Nimby, acronimo di Not In My BackYard, descrive l’insieme dei movimenti in opposizione a progetti infrastrutturali – come centrali, fabbriche o dighe – percepiti dai cittadini come un rischio per la propria salute. “In Cina le proteste sono vietate. Fanno eccezione quelle sui temi ambientali. D’altra parte gli stessi funzionari e quadri di partito sono coscienti di subire anche loro gli effetti dell’inquinamento”, ha aggiunto Anti.
Ne è un esempio la vittoria a metà agosto dei cittadini della città portuale di Dalian, nel nordest della Cina, dove decine di migliaia di manifestanti ottennero la chiusura della Fujia Px, una fabbrica che produceva paraxilene, materiale usato per fabbricare bottiglie di plastica e poliestere.
La stessa natura local del fenomeno rende però improbabile che le proteste si possano fondere in una mobilitazione nazionale. “Le persone sono mosse dai propri interessi. I problemi di Pechino non spingeranno mai in strada quelle di altre città. Chi scende in piazza valuta i pro e i contro della propria scelta. E spesso i costi di una manifestazione contano molto di più degli eventuali benefici”.
Nel caso Dalian, sottolinea Anti, l’impossibilità di un respiro più ampio della protesta è stato dettato anche dalla scelta delle piattaforme di mobilitazione, soprattutto il servizio di messaggistica QQ o forum per lo più locali. “I microblog sono invece una piattaforma nazionale, per questo sono pericolosi per il governo, aiutano i cittadini a sviluppare un senso critico e diffondere la libertà d’espressione”.
Controllare i server è diventata pertanto una necessità politica, così da mettere a tacere le voci discordanti. Secondo Anti è questa la principale differenza tra le rivolte della Primavera Araba e quanto avviene in Cina.
Fuori dalla Muraglia è diverso. I server di piattaforme come Weibo, invece, sono nel Paese. Perché un argomento sia censurato “basta una telefonata dei funzionari”. Come un fiume carsico la “decentralizzazione dei contenuti” sta però lasciando il proprio segno nella società, diventata a poco a poco più aperta e più liberale.
Le proteste, sempre sopra il comune denominatore del localismo, si moltiplicano e si espandono a macchia d’olio, diventando l’incubo della sconfinata costellazione delle amministrazioni locali, novelli signorotti che, a migliaia di chilometri da Zhongnanhai – il quartier generale del Partito al centro, geografico e politico, di Pechino – commettono soprusi e iniquità ai danni delle popolazioni locali.
Per assurdo proprio i massimi dignitari del Pcc, agli occhi del popolo ai confini dell’impero, rappresentano ancora un’autorità che, se interpellata, può provare a riportare la legalità a discapito degli interessi delle mafie locali, in connivenza coi rappresentanti del potere corrotti.
Se però l’intervento di qualche politico di primo piano può aiutare le sorti della popolazione vessata, sicuramente oggi – ci spiega Anti – tra le fila del Partito non milita nessun traghettatore con la volontà di portare la Repubblica popolare verso un futuro di riforme politiche e democratiche. La Cina deve ancora conoscere il suo Gorbaciov.
Anche la futura generazione di leader, Xi Jinping e Li Keqian in testa, è ancorata alle vecchie tradizioni di Partito e impermeabile a quanto si muove in rete. Ci sono certo delle mosche bianche come Wang Yang, segretario del Pcc nel Guangdong, la più liberale delle provincie cinesi. Lui, per sua stessa ammissione, è un assiduo lettore dei dibattiti sui microblog.
Anti appare tuttavia ottimista. Nel giro di una decina di anni la situazione potrebbe evolversi in meglio. In rete nascono nuovi leader. Non si tratta di una leadership monolitica, ma “decentrata”. Si tratta di una nuova forma di partecipazione politica che spinge al confronto e al dialogo.
I nuovi cinesi, nati digitalizzati e contaminati dagli ideali di libertà e democrazia filtrati tra le fessure del Great Firewall, avranno il compito di prendere le redini del dissenso locale e plasmare la Cina del domani. Quello che in Occidente si scrive “glocal”, in Cina si legge libertà.
[Pubblicato su Rassegna.it]