Il Giappone lancia una richiesta a tutti i media internazionali: correggere al più presto l’erronea trasposizione in alfabeto latino del nome del premier nipponico, tutt’oggi conosciuto ai più come Shinzo Abe. L’annuncio, diramato martedì in conferenza stampa dal ministro degli Esteri Taro Kono, fa esplicitamente riferimento alla volontà che il primo ministro nipponico riceva lo stesso trattamento di altri leader asiatici. Letteralmente: “Si scrive Abe Shinzo, proprio come il presidente cinese Xi Jinping e il presidente sudcoreano Moon Jae-in“.
Del resto, proprio come in cinese e in coreano, la corretta pronuncia dei nomi giapponesi prevede che il cognome preceda il nome proprio. Ma a partire dall’era Meiji – quando la struttura politica, sociale ed economica del Sol Levante fu modificata sulla base del modello occidentale – e per oltre un secolo e mezzo, i nomi giapponesi sono stati scritti in inglese al contrario nel tentativo di internazionalizzare il paese, con unica eccezione delle figure storiche. Tanto che, secondo l’autorevole Chicago Manual of Style, “se [un nome giapponese] è occidentalizzato, come spesso accade per gli autori che scrivono in inglese, il cognome viene per ultimo”.
Come fa notare la Cnn, nella sezione Talk di Wikipedia alla voce “Shinzo Abe”, da alcuni giorni il dibattito infuria sulla ragionevolezza della richiesta di Tokyo. “Se cambiamo il nome di Abe-san [“san” è il titolo di rispetto usato nel paese asiatico fra persone di tutte le età] allora dovremmo cambiare tutti gli altri articoli sui giapponesi. Questo è possibile, ma bisogna discuterne altrove e non solo rispetto a una singola pagina biografica,” osserva un utente.
La tenzone non è nuova. Nel 2000 era stato il National Language Council – supervisionato dal ministero dell’Educazione – a proporre di ribaltare l’ordine di nome e cognome, sebbene con scarso successo. Allora, mentre furono apportate le dovute correzioni ai libri di testo per le classi di lingua inglese delle scuole medie, la stampa ha continuato a privilegiare la versione “occidentale”. Ora con l’abdicazione dell’imperatore Akihito e l’inizio della nuova era Reiwa, il governo nipponico vuole risolvere la questione una volta per tutte. Kono ha aggiunto che “a breve manderà una richiesta formale ai media internazionali, confidando che i giornalisti giapponesi che scrivono in lingua inglese possano essere d’esempio”.
Secondo il ministro la questione è resa più pressante dall’imminente visita di stato di Donald Trump (con tanto di incontro con il nuovo erede al trono del Crisantemo), a cui farà seguito il vertice del G20 il prossimo mese a Osaka. Le Olimpiadi estive del prossimo anno, ospitate da Tokyo, costituiranno un altro importante banco di prova. Il governo auspica che gli atleti giapponesi ricevano lo stesso trattamento dei colleghi di Cina, Taiwan, Hong Kong e Coree.
La richiesta del ministro degli Esteri giunge in un momento in cui la consolidata rinascita nazionalista dell’amministrazione Abe deve fare i conti con il calo demografico e la necessità di attirare forza lavoro da oltreconfine. Come spiega al South China Morning Post Stephen Matthews, professore di linguistica presso l’Università di Hong Kong, “la decisione con cui nel 19esimo secolo il Giappone invertì [il cognome con il nome] rappresentò una concessione all’Europa occidentale”. Oggi che l’Asia è balzata al centro delle dinamiche economiche e geopolitiche mondiali, la stessa identità asiatica rappresenta ormai un elemento di orgoglio. Mentre ognuno dice la sua, al momento manca ancora di sentire l’opinione più autorevole: quella di Abe.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.