A Shaoshan, ogni giorno, giungono in pellegrinaggio migliaia di persone. L’atmosfera che si respira all’arrivo è intrisa di una solennità che sembra andare oltre storia e politica. La città moderna, rumorosa e grigia, è stata costruita a debita distanza: ai luoghi della memoria di Mao si accede solo pagando un biglietto, che permette l’ingresso in un parco monumentale. Così la città-museo resta immersa in una campagna verde e pulita, proprio come un tempo. Quasi un unicum nel panorama rurale della Cina industrializzata.
Nella casa natale tutto è curato al dettaglio. Nelle teche di vetro, esposti come reliquie, gli oggetti della vita di tutti i giorni: vestiti, scarpe, bacchette e cucchiaio. A lato, pannelli agiografici esaltano la vita frugale del grande timoniere, facendo notare – ad esempio – l’usura delle sue scarpe. Nella scuola-museo si racconta di Mao come “figlio devoto” e “assiduo studente”. Accanto ai “quattro tesori dello studio” – carta, pennello, inchiostro e pietra da inchiostro – si narra la sua vita quotidiana: il duro lavoro nei campi di giorno, di notte la lettura dei classici della filosofia. Soprattutto Confucio e Marx, destinati a diventare rispettivamente nemico numero uno e mentore ideologico del Mao adulto. “Un genio venuto dalla campagna”, si legge in caratteri. E ancora: “I muri di questa scuola riecheggiano delle ore spese nella lettura ad alta voce”. La propaganda in lingua inglese si serve invece delle conversazioni avvenute tra Mao ed Edgar Snow nel 1936. I toni sono altrettanto magniloquenti, ma si sa che per noi occidentali la penna americana è garanzia di oggettività.
È impossibile, comunque, stupirsi di questo culto laico visto che il sistema politico cinese, e il partito unico che lo governa, sono ancora quelli fondati da Mao. A colpire invece è la varietà dei visitatori, un insieme eterogeneo per età, estrazione sociale e provenienza. Se i giovanissimi arrivano dalle città vicine – Shaoshan è una meta tipica per le gite scolastiche – tra i più maturi c’è chi attraversato mezza Cina per essere qui.
Difficile, però, trovare qualcuno alla prima visita: tra i più anziani c’è chi torna anche sei o sette volte. “Veniamo qui ad ogni ricorrenza”, dicono alcuni turisti. E infatti quest’anno, il 70esimo dalla fondazione della Rpc, ha fatto segnare il boom di visite. “I genitori portano qui i figli appena nati”, spiegano due anziani vestiti con la divisa delle Guardie Rosse, indicando una delle tante coppie con in braccio un neonato. Pellegrinaggi e battesimi: più che a un luogo di memoria storica, Shaoshan somiglia anche a un santuario. Anche il lessico usato dai visitatori suggerisce un’idea di sacro: Mao è descritto come “il numero uno”, “fiero”, “intrepido” e “immortale” – quest’ultimo termine espresso con il carattere 神 shén, il termine della lingua cinese più vicino al nostro “Dio”.
Il motivo di tanta venerazione è l’unico aspetto dell’operato di Mao a venire costantemente ricordato: l’aver riunificato la Cina e averla sottratta all’occupazione straniera. Molta meno, invece, l’enfasi sui successivi trent’anni di amministrazione, non esenti da ombre. “È importante che la Cina rimanga sia unita, e grazie a Mao Zedong lo sarà sempre” spiega Mao Huaxia, un’omonima del timoniere e assidua visitatrice di Shaoshan. Huaxia è venuta qui per la quarta volta dallo Shaanxi, una provincia del nord-ovest a circa 20 ore di viaggio in treno.
D’altra parte, anche il Partito-stato incoraggia la celebrazione liturgica del maoismo, interpretato come forza unificatrice della nazione. Lo scorso 1° Ottobre lo stesso Xi Jinping, durante le celebrazioni per l’anniversario della Repubblica, si è inchinato tre volte davanti al mausoleo del dittatore in Piazza Tiananmen. Un tributo pubblico che lascia poco all’interpretazione. Nella Cina contemporanea il confronto con Mao è inevitabile per qualsiasi leader politico, non importano potere e consenso accumulati: e fino adesso Xi sembra l’unico a poter reggere il paragone.
Di Silvia Frosina*
**Silvia Frosina, nata a Genova nel 1996. Già laureata in Scienze Internazionali, dello Sviluppo e della Cooperazione all’Università di Torino, sta completando un Master in China Studies tra la SOAS di Londra e la Zhejiang University. Ha collaborato con Il Manifesto e con il capitolo londinese di NüVoices, un collettivo editoriale che investiga questioni relative a identità e parità di genere in Cina e Asia.