Shanghai

Shanghai, diario di una città aperta

In Cina, Dialoghi: Confucio e China Files by Martina Bucolo

“Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica curata in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio di Milano. Questa puntata offre la testimonianza di Martina Bucolo, docente di italiano a Shanghai. Uno spaccato sulla sua quotidianità alle prese con i lockdown improvvisi, le chiamate infinite al comitato di quartiere e l’insonnia. 

17 novembre 2022. Giovedì, 11:45

Sono seduta in soggiorno, sistemo dei documenti al computer prima di uscire di casa. Ho il pranzo di fine corso con gli studenti del livello A2. Mentre sposto dei documenti tra una cartella e un’altra penso che appena arrivati al ristorante dirò loro di assaporare bene il cibo, soprattutto la mozzarella. Che quella 国内 (guónèi) è sempre congelata, mentre quella 国外 (guówài) è fresca e tenera e mantiene perfettamente sapore e consistenza. Il rumore del nastro adesivo mi riporta alla realtà. Sono ancora seduta in soggiorno, il rumore è costante. Giro la testa verso la finestra che dà sull’ingresso del palazzo. Vivo al dodicesimo piano: sono abbastanza in alto per godere della bella vista dello skyline ma non troppo per non sentire le persone che parlano giù in cortile. Mentre il rumore del nastro adesivo continua e si fa insistente, sento delle persone che iniziano a litigare a voce sostenuta. Il battito cardiaco inizia ad aumentare e mi formicolano le mani: ho un attacco di panico.

Lockdown.

Ripenso al giorno prima, quando tornando a casa sarei voluta passare a comprare della frutta e della verdura, ma ero così stanca che ho rinunciato. Lancio un’occhiata ai piedi della credenza perché non ricordo se ho comprato l’acqua: infatti non c’è. Sono senza. La tachicardia aumenta leggermente: sarà un lockdown del palazzo, dell’intero condominio o della zona? Non lo so. Il rumore del nastro adesivo continua. C’è una signora che urla ma non capisco cosa dice, parla in dialetto. Decido di alzarmi per andare a vedere. Mi affaccio: è il postino intento a impacchettare scatole giù in cortile. La signora che urla, invece, è una vicina di casa. Abita nel palazzo accanto, quello che stanno chiudendo. Respiro e mi calmo. Vorrei dire “ok per oggi è andata bene”, ma non è così. Non funziona a orari. Non c’è un momento specifico del giorno in cui puoi essere messo in lockdown. Vale tutto. Il lockdown vive 24 ore, non mangia e non dorme. Questa volta però sono loro, non io. Sono sollevata e triste allo stesso tempo. Mi sento impotente. Sollevata dal fatto di poter uscire, angosciata al pensiero che tra qualche ora, domani, o la settimana prossima potrebbe succedere a me, di nuovo.

30 settembre 2022. Sabato, 9:30

Ricevo una chiamata da un numero sconosciuto. Rispondo. Dice di essere della polizia e mi comunica che devo iniziare una quarantena di sette giorni perché dal 光大楼 (guāng dàlóu) – dove si trova il mio ufficio – è passato un positivo. Riaggancia. Non ho avuto il tempo di fare domande. Resto lì perplessa a fissare il telefonino. “Mi devo fidare? Era un numero sconosciuto, potrebbe essere chiunque”, penso. Un flusso di domande inizia a farsi strada: “Ma quando ho avuto il contatto esattamente? Era un collega nel mio ufficio? Qualcuno della sicurezza, forse? O qualcuno delle consegne, magari…”. Non capisco. Non mi sono state date informazioni chiare e quindi contatto i colleghi per sapere se anche loro hanno ricevuto una chiamata simile. Scopro che martedì 27 settembre un ragazzo di 21 anni è passato nel nostro palazzo e poi è risultato positivo al test covid (fino a qualche giorno fa a Shanghai bisognava sottoporsi al testo ogni 72 ore. Ad oggi le direttive sono cambiate a 48 ore). Chiunque sia stato in quel palazzo da martedì è stato messo in lockdown. Tutte le persone contattate staranno a casa per sette giorni. Alcune – fortunate come me – in smart working. Altre invece senza lavorare, quindi senza stipendio. Ma non tutti sono stati contattati. Due studenti non hanno mai ricevuto la chiamata. Dal probabile contatto sono passati già tre giorni. In questi tre giorni siamo stati in giro tra ristoranti, negozi e case di amici. Avremmo potuto essere già infettati e aver infettato altri.

Chiamo il comitato di quartiere (居委会 juweihui) per avere spiegazioni sulla decisione della quarantena. Da quanto ho sentito da amici e colleghi, il “possibile contatto stretto” (次密接 ci mijie) si riduce solitamente a tre giorni di osservazione a casa. Quindi vorrei capire in base a cosa, questa volta, le regole per noi sono cambiate. Rimbalzo da un numero all’altro e da un dipartimento all’altro. Nessuno sa o ha i documenti per confermarmi che i giorni debbano essere davvero sette. Tra una chiamata e l’altra è trascorsa già un’ora, durante la quale sono arrivati gli esecutori del comitato di quartiere per installare sulla porta un magnete che suona ogni volta che apro. Il mio lockdown inizia ufficialmente alle 18, così dice il foglio A4 che ho sulla porta. Non capisco. Dalle 10 alle 18 ci sono 8 ore di tempo in cui sarei potuta andare al supermercato per comprare qualcosa. Richiamo il comitato, che mi rimanda al dipartimento che a sua volta mi rimanda ancora al comitato. Così in un circolo vizioso che sarebbe andato avanti per 7 giorni. 

Sono stanca, ci penso domani. 

03:11 del mattino

Mi sveglio di soprassalto. Sento un forte rumore provenire dal mio appartamento. Stavo dormendo, sono intontita. Mi metto seduta, forse stavo solo sognando. Era un rumore ovattato. Mi sdraio di nuovo e lo sento. Stavolta chiaramente. Non stavo sognando. Una voce urla “做核酸” (zuò hésuān), “tampone!”. Non è possibile. Mi alzo e attraverso il corridoio. Apro la porta e lei è lì, nella sua tuta bianca, visiera e mascherina. Ha una busta di plastica gialla, quella per contenere materiale radioattivo: è lì che metterà il mio campione di saliva. La guardo aggrottando la fronte e le chiedo: “Mi scusi, ma è proprio necessario venire a quest’ora del mattino? Non potreste venire, non so, durante il giorno?”. Non la vedo bene, chiusa com’è nella sua tuta. Percepisco però la stanchezza. E’ stanca e scocciata. Immagino che anche lei non si stia divertendo ad andarsene in giro per Shanghai nel bel mezzo della notte. Mentre apre il tampone mi dice: “Le richieste sono di fare i tamponi da mezzanotte alle 6 del mattino”. È così che è iniziato il mio periodo di insonnia. Li ho aspettati ogni sera, sveglia sul divano in soggiorno. Sorseggiando caffè, che tanto a noi italiani non fa effetto. Li ho aspettati ogni notte e ogni notte si sono presentati a orari diversi: alle 2, alle 4, a mezzanotte, all’una. Ma non negli ultimi due giorni. A un passo dalla fine della quarantena, hanno smesso. L’ultima notte non sono venuti e sapevo che se non fossero arrivati per tempo, se non avessi avuto un tampone negativo nelle ultime 24 ore, avrebbero ritardato la fine del lockdown. Il settimo giorno, alle 9 del mattino, inizio il mio solito giro di telefonate tra comitato di quartiere e dipartimento. Mi dicono che Shanghai sta attraversando un momento difficile, che tanti quartieri sono in lockdown e che non c’è abbastanza personale. Sono le 15 e so benissimo che non avrò mai il risultato del tampone in tempo per uscire alle 18. Continuo a chiamare sperando che qualcuno si ricordi di me. Nessuna risposta. 

Bussano alla porta alle 17:30, il risultato del tampone arriva alle 22:30. Sono libera.

Esco a fare un giro e respiro l’aria di Shanghai, che quella sera è particolarmente umida e sa di sottobosco. Ha piovuto un po’. Mi dimentico di tutto: delle chiamate, dell’insonnia e dei tamponi. Voglio solo passeggiare e godermi la città che, almeno lei, dorme. Respiro intensamente e faccio qualche foto, ignara che due giorni dopo avrei cominciato un altro lockdown, con le stesse caratteristiche

Shanghai

Foto di Martina Bucolo