Li hanno tirati in ballo sia le autorità, che hanno invitato i manifestanti a “non protestare nel modo dei boxer”, sia i frequentatori dei social network che, di rimando, hanno osservato come in passato sia stato proprio il governo a celebrarli come esempio di patriottismo.
Proviamo a collocare i “pugni giusti e armoniosi” nella più ampia prospettiva storica. Lo facciamo con Renata Pisu, esperta di cose cinesi e giornalista, che sta proprio lavorando a un libro sui culti cinesi. O meglio, sulla storia del pensiero “non religioso” della Cina.
Partiamo da qui: culti, sette, spiriti che intervengono nella vita quotidiana, arti marziali. Stiamo parlando di religione?
In cinese, il termine “religione” (zongjiao) è un neologismo di fine Ottocento, perché per loro non esisteva la religione così come la intendiamo noi. C’erano credenze, ma non era stata concepita l’immanenza di un dio e quindi neanche una chiesa. Non esistendo una religiosità, non esiste neanche una laicità.
C’è l’imperatore – che poi diventa il Partito – che assomma le due funzioni. Per cui, quando noi restiamo sconcertati perché il Partito sceglie il Dalai Lama, dobbiamo pensare che questa è la tradizione cinese. E allo stesso modo non esiste la divisione dei poteri. La religione non ha alcuna preminenza, ciò che ha preminenza è il tutto.
E questo tutto significa anche “armonia”?
Anche. Di sicuro l’armonia è confuciana, ma neppure i cinesi sanno bene che cosa voglia dire. È un’utopia, una tensione. Oggi viene concepita in contrapposizione, o in alternativa, alla democrazia. Ma la democrazia non è armonia, anzi. Presuppone il conflitto, la dialettica.
Nella mentalità cinese questo non c’è: non esiste Prometeo che ruba il fuoco agli dei, non sta bene, non si deve. Non c’è neanche la disobbedienza di Eva, che prende il frutto. No: chi è un bravo figlio fa quello che deve fare, non c’è l’esaltazione dell’eroe che si contrappone al potere. Il potere è buono. Il governo è fumu, “padre e madre" per il popolo.
Non c’è quindi neanche bisogno di religioni salvifiche che promettano un “altrove”.
Pensiamo al taoismo, che è una tale congerie di elementi: filosofici, di superstizione popolare e così via. L’immortalità taoista è il corpo, la longevità. Non c’è un altrove. Certo, nelle leggende c’è anche un paradiso dei taoisti, ma è immaginato come una replica dell’impero, con i funzionari, l’imperatore di giada.
E poi non esiste la dualità anima-corpo, per cui è dura immaginare un altrove. Certo, nella storia cinese è comparsa anche qualche setta salvifica, millenarista, soprattutto di ispirazione buddhista o addirittura cristiana: ma è durata pochissimo.
Qui si tocca uno degli oggetti della sua ricerca: i taiping.
Un movimento così grande e drammatico da lasciare stupiti che non se ne parli mai. Siamo negli anni della guerra dell’Oppio, della penetrazione occidentale e delle prime missioni commerciali nella zona di Canton. L‘Occidente entra in Cina sia con i fucili sia con i missionari. È la seconda ondata di missionarismo cristiano. La prima era stata erudita, dei gesuiti, cattolica. Questa, la seconda, è protestante: angloamericana o nordeuropea.
A Canton, la predicazione incontra un paria, un letterato pluribocciato agli esami imperiali, Hong Xiuquan. Lui fonda una setta di “adoratori di Dio”, ha delle visioni, diventa monoteista, dice di essere il fratello minore di Gesù e di avere la missione di salvare la Cina: dall’umiliazione dell’invasione occidentale ma, soprattutto, dai mancesi, la dinastia regnante.
Attorno a lui si raccoglie un vero e proprio esercito che sconfigge ripetutamente quello imperiale, dilaga in Cina e pone la propria capitale a Nanchino che viene rinominata Tianjing, “capitale celeste”. Anche questa è un’utopia cinese abbastanza antica: il regno celeste della grande pace. Hong Xiuquan emana delle leggi totalmente in contrasto con la tradizione cinese, perché fondate sull’eguaglianza, la redistribuzione delle terre, la parità dei sessi. Un programma anticonfuciano che piacque perfino a Marx.
È la prima volta che un movimento popolare cinese si rifà a una religione straniera e i taiping cercano anche un contatto con gli occidentali. Ma non ci riescono, perché il movimento legge il cristianesimo a modo suo: ritengono per esempio che Gesù avesse molte mogli e che Hong Xiuquan sia suo fratello minore. E poi perché occupano la valle dello Yangtze, che a seguito della guerra dell’Oppio è aperta al commercio occidentale, quindi danno fastidio.
Bisogna farli fuori, anche perché è previsto che il trattato tra Qing e occidentali, quello che istituisce le concessioni, sarà applicato solo quando tornerà la pace. Gli stranieri intervengono al fianco della dinastia: venti milioni di morti in quindici anni di guerra, una tragedia maggiore dell’Olocausto; province devastate, impoverimento, ulteriore decadimento della dinastia e della Cina.
Ma comunque la predicazione cristiana penetra in profondità, non solo attraverso i taiping, ma anche grazie al fatto che i missionari costruiscono ospedali e orfanotrofi. Sun Yat-tsen, il padre della Cina moderna, è nipote di un taiping. E c’è anche chi sostiene che l’etica maoista, l’introspezione, l’autocritica, lo stesso “servire il popolo”, abbiano le proprie radici nella predicazione dei missionari protestanti, dato che non esistono negli altri comunismi. Questa penetrazione così capillare in Cina di missionari molto pratici, attivi e idealisti, produce in seguito l’odio nei loro confronti da parte dei boxer.
E arriviamo al capitolo successivo…
I boxer sono l’esatto contrario dei taiping: “Non vogliamo sapere chi siete, la vostra scienza non ci interessa e la vostra religione ci danneggia, perché distrugge le nostre tradizioni”. È l’anima profonda della Cina, con la fondamentale componente delle arti marziali. Sono una setta che pratica la boxe, si chiamano i “pugni giusti armoniosi”, yihetuan.
In seguito, Mao condannerà queste arti marziali, per lui erano solo superstizioni, pratiche magiche senza senso. Nella fase trionfante del comunismo cinese, post 1949, il modello è quello sovietico e, a vent’anni, Mao debutta su Gioventù nuova con uno scritto sull’educazione fisica. Ma è quella occidentale. Nega la tradizione forte delle wushu, perché la ginnastica occidentale appare più moderna e scientifica.
I pareri sui boxer avevano cominciato a divergere già dal 1919. Chen Duxiu, uno dei fondatori del Partito comunista cinese, scrive che dovettero la loro fortuna all‘opera di Pechino, un genere estremamente popolare che permette di tramandare i fatti storici a una massa incolta, analfabeta. Secondo Chen, i boxer utilizzando cadenze, ritmi, gestualità, costumi dell’opera di Pechino, ci aggiungono la predicazione dell’invincibilità tramite la boxe e riescono così a reclutare. Credono nella follia dell’invulnerabilità alle pallottole e, soprattutto, odiano i cristiani. In special modo i convertiti cinesi, di cui fanno strage.
È un movimento feudale o antimperialista? A partire dal 1919 gli intellettuali si dividono su questo punto. Se fossero antimperialisti sarebbero degli eroi; altrimenti, solo un retaggio del passato. Tornano in auge con la rivoluzione culturale, grazie a Jiang Qing, l’ultima moglie di Mao, che enfatizza soprattutto il ruolo delle donne al loro interno. Sono chiamate “lanterne rosse” e la rivoluzione culturale le riscopre come esempio di parità, militanza e antimperialismo.
Anche oggi ci si divide sui boxer. Le autorità esortano a non protestare “nello stile dei boxer”, mentre su Weibo circolano apologie del movimento e critiche al governo: “Ma come? Ne avete parlato come esempio di antimperialismo e ora ci dite di non fare come loro”.
I boxer erano portati come grande esempio di eroismo in tutti quei libretti illustrati che circolavano ai tempi della rivoluzione culturale. L’assimilazione tra guardie rosse, lanterne rosse e boxer, non l’hanno fatta gli occidentali “cattivi”, ma gli stessi cinesi. Cambiare il nome delle vie, a Pechino, l’avevano fatto i boxer prima delle guardie rosse.
Se prima i boxer erano gli antimperialisti e oggi sono additati dal governo come esempio negativo cosa significa? Che la Cina non è più antimperialista? Lascio la domanda sospesa.
Al tempo della ribellione, l’imperatrice madre Cixi, bene o male consigliata che fosse, decide di cavalcare il movimento dei boxer e li convince perfino a cambiare slogan: non più “contro i Qing e gli stranieri”, ma “con i Qing contro gli stranieri”. Con il risultato che si mette contro tutto il mondo.
Curiosamente sono le stesse potenze che oggi, talvolta sotto la bandiera dell’Onu, vanno a fare le guerre in giro per il mondo: Inghilterra, Francia, Usa, Italia, Giappone. Quello è il primo esempio di una coalizione del genere. Ai tempi c’era anche la Russia.
Con la fine dei boxer, la Cina va in rovina. Ma nasce anche la nuova Cina, con tutti gli eventi caotici del Novecento. Quando ci andai per la prima volta, pensavo che Mao li avesse risolti. Ma non poteva, perché lo stesso marxismo veniva dall’Occidente.
Va detto che lo stesso Mao, che detestava i boxer, era invece un grande estimatore dei taiping. Ma edulcorati. Io, unica occidentale in una classe di cinesi, seguivo lezioni di storia all’università. I taiping venivano presentati come movimento di liberazione autoctono, disconoscendo ogni influenza cristiana, cioè straniera.
E poi ci insegnavano che erano stati sconfitti perché mancava una guida, cioè sostanzialmente Mao. Li avrei ammazzati, perché non riuscivo a comprendere questo loro gretto nazionalismo.
In Cina c’è una lunga tradizione di “riscrittura della storia”. Penso agli storici imperiali che scrivevano la storia della dinastia precedente per giustificare quella coeva.
Ho l’impressione che ultimamente il processo si sia accelerato. Non si aspetta che finisca la “dinastia rossa” per riscrivere la storia. La si riscrive durante. Anche perché a un certo punto compare il mondo esterno, che prima non c’era, e l’interpretazione della storia serve a ridefinire l’identità cinese nei suoi confronti. Ad esempio, quando negli anni Sessanta ci fu la rottura con l’Unione Sovietica e le tensioni lungo il confine, si scrisse molto dei boxer per dimostrare quanto i russi fossero stati crudeli contro di loro. Notare che avrebbero potuto dire lo stesso dei giapponesi, dei tedeschi e di tutti gli altri, ma presero di mira i russi in quanto russi, neanche in quanto zaristi.
Un altro caso interessante è quello di Confucio. Oggi si esportano gli istituti Confucio, ai tempi della rivoluzione culturale c’era la campagna contro Lin Biao e Confucio. Sono riletture molto forti, forse perché erano altrettanto forti, ma sbadate, quelle fatte prima. Estremiste. Mi ricordo i libretti illustrati in cui Confucio sembrava una specie di strega di Biancaneve che mangia i bambini.
Il mio libro non fa la storia di Confucio, non spiega il confucianesimo o gli altri culti cinesi, ma racconta come sono stati recepiti. E si pone una domanda: come è possibile che esista una grande visione del mondo, così antica e che continua a reggere benissimo, senza religione? Una civiltà che non ha concepito dio e che vive lo stesso? Questo significa che di dio non c’è bisogno.
Attenzione però che il tema della religione è strettamente connesso a quello della legge, perché nella nostra religione c’è un dio che dà a Mosè le tavole della legge. Questo fa ridere i cinesi: “Non avrai altro dio all’infuori di me”. “Ma non scherziamo, se ne trovo uno migliore vado con lui”.
Però io, da occidentale laica, sono disposta a magnificare la Cina per non essersi costruita un dio, ma ho una grande difficoltà ad accettare l’assenza di uno Stato di diritto. E non dimentichiamo che la nostra idea di una legge divina ci ha portato anche a Galileo, alla ricerca e all’enunciazione delle leggi dell’universo, alla scienza. Non è successo in Cina.
*Gabriele Battaglia e’ stato corrispondente da Pechino per "PeaceReporter" ed "E-il mensile". Ha cominciato come web-giornalista e si e’ misurato poi con diversi media e piattaforme. In una vita precedente, e’ stato redattore di Virgilio.it e collaboratore di un certo numero di testate sui piu’ disparati temi: dalla cultura alla divulgazione scientifica, passando dai trattori e dalle fotogallery su Britney Spears. E’ autore, con Claudia Pozzoli, del webdocumentario "Inside Beijing". Oltre che la Cina e l’Oriente in genere, gli piace l’Artico, sia per interesse giornalistico sia per il clima. Non ha ne’ l’automobile ne’ la Tv e ogni tanto si fa male cadendo in bicicletta. Vive tra Pechino e Milano.
**Renata Pisu ha frequentato i corsi di lingua cinese e di storia della Cina moderna all’università di Pechino fino agli inizi della Rivoluzione Culturale. Da allora svolge la professione di giornalista con particolare attenzione ai problemi dell’Asia Orientale. È stata corrispondente per testate come La Stampa e La Repubblica. Ha tradotto dal cinese numerose opere di narrativa contemporanea ed è autrice di saggi sulla società cinese.