Doveva essere l’anno del turismo e della cultura Italia-Cina. Il 2020 invece è purtroppo diventato tanto, troppo, altro. Ne abbiamo parlato spesso su China Files. Il 2020 è diventato l’anno del Covid-19 e improvvisamente si è tutto fermato. Si sono fermati gli aerei, si è fermato il dialogo, si è fermata la conoscenza reciproca. E si è fermata anche la vita di via Paolo Sarpi, uno dei simboli della presenza cinese in Italia. Da qui, in una Milano pandemica, Lala Hu racconta in “Semi di tè” (in uscita con People) le storie di ragazze e ragazzi, donne e uomini, e il modo in cui hanno vissuto una delle sfide più difficili. I sorrisi che si trasformavano improvvisamente in sguardi pieni di sospetto, se non addirittura sinofobia. Storie che aiutano a ricordare quanto siano ridicoli e assurdi gli stereotipi che hanno trovato ancora una volta spazio nelle parole e nei gesti di politici e media. Un libro importante che aiuta a ricordare i pilastri su cui sono costruite le nostre città e la nostra civiltà: le persone.
Estratto dal libro “Semi di tè” di Lala Hu (in uscita cartaceo ed e-book per People)
A Bologna, la città dove viveva Ningyuan, i contagi cominciarono una settimana più tardi rispetto a Lombardia e Veneto. Ningyuan aveva seguito con attenzione l’evoluzione dell’epidemia sin dalla chiusura di Wuhan. Si informava tramite i media, ma anche sui blog e attraverso i racconti degli amici cinesi. Le notizie sull’espansione dei contagi e sull’aumento dei deceduti nella città epicentro del focolaio lo avevano scosso. Si era sentito impotente di fronte alle immagini e ai video che arrivavano ininterrottamente sullo schermo del suo cellulare. Si era domandato cosa potesse fare per aiutare la popolazione locale.
A gennaio aveva pensato di raccogliere fondi per fare una donazione di quasi mille tute protettive ad uno dei principali ospedali per la cura del covid-19 a Wuhan, ma quest’idea si rivelò molto complicata. C’erano lunghe procedure burocratiche e il governo italiano aveva disposto il blocco dei voli da e verso la Cina per contrastare la diffusione del contagio. Insieme agli altri volontari dell’iniziativa, Ningyuan decise allora di donare le tute a un’azienda sanitaria del Veneto. Si concentrò poi su un progetto di divulgazione a carattere artistico e sociale, e lo propose ai membri del collettivo di artisti di cui faceva parte.
Ningyuan era originario della provincia meridionale cinese del Fujian. Era arrivato in Italia nel 2012, anch’egli come liuxuesheng, per frequentare un biennio di specializzazione in pittura all’Accademia di Belle Arti di Perugia. Aveva scelto l’Italia per la sua ricchezza culturale e artistica. Gli anni a Perugia furono molto formativi, ma alla loro conclusione, Ningyuan sentì di voler ampliare la propria espressione artistica sotto altre forme. Si era così spostato a Bologna nel 2014 per iscriversi al biennio di scultura all’Accademia di Belle Arti, corso che avrebbe poi tardato a completare. Ma non se ne era più andato dalla città.
Il capoluogo emiliano lo conquistò con la propria vivacità. Ningyuan diede vita ad alcuni scambi con altre comunità di migranti della città, collettivi di movimenti sociali, studiosi di diversi settori. La sua ricerca artistica prese una traiettoria site specific, che lo portò a realizzare installazioni e performance legate al territorio, il che lo radicò ancora più profondamente nel contesto italiano. Nel 2017 fondò un collettivo di artisti aperto a ricercatori universitari e studiosi, con lo scopo di indagare la società italiana e gli scambi culturali fra Europa ed Estremo Oriente: mostre, laboratori teatrali, cineforum che raccontassero i cambiamenti sociali e i conflitti in atto. E che potessero stimolare dibattiti tra i partecipanti verso la costruzione di nuovi immaginari.
Nel 2019, il collettivo aveva scelto Prato quale luogo per svolgere un’indagine sul campo. Prato, secondo Ningyuan, rifletteva i cambiamenti globali. A seguito dell’arrivo dei primi migranti cinesi negli anni Novanta, in contemporanea all’emergere dei colossi mondiali della cosiddetta fast fashion, le aziende tessili locali erano via via diminuite. Al loro posto si erano moltiplicate piccole aziende cinesi di pronto moda, per lo più famigliari, che crebbero velocemente e si imposero nel distretto tessile di Prato anche grazie a costi di manodopera più bassi. Le condizioni di lavoro degli operai cinesi, però, potevano essere anche molto dure, con poche tutele. Ciò si era reso manifesto nel 2013, quando un capannone in cui vivevano e lavoravano gli operai cinesi di una fabbrica tessile prese fuoco, causando la morte di sette persone. La città di Prato non poteva far finta che questi lavoratori invisibili non esistessero.
La trasformazione, oltre a riguardare l’ambito industriale, coinvolgeva anche la demografia della città. Nel 2020 gli abitanti di origine cinese erano arrivati a rappresentare circa il dieci per cento di una popolazione di centonovantacinquemila pratesi. Una convivenza non sempre facile, ma che forse aveva avuto un punto di svolta con le elezioni amministrative del 2019. In quell’anno, per la prima volta, erano stati eletti due consiglieri comunali di origine cinese. Un fatto epocale, che avrebbe permesso di dare rappresentanza alle istanze dei residenti di origine cinese. E anche di mediare più efficacemente la dialettica tra le diverse voci della città di Prato.
Per questi motivi, Ningyuan aveva scelto la città toscana per una ricerca da svolgere insieme ad artisti e ricercatori italiani e cinesi. Prato poteva fungere da contesto dove analizzare i movimenti migratori e le politiche d’accoglienza attuate. E poteva, allo stesso tempo, stimolare forme d’integrazione culturale e un ripensamento del nucleo industriale tessile esistente. Sarebbe stato un laboratorio interdisciplinare, una forma di contenitore collaborativo per artisti e studiosi. Anche questo, come altri progetti, fu interrotto dal covid-19.
Come aprire uno spazio creativo collettivo in mancanza della presenza fisica? Come testimoniare la propria vicinanza e allo stesso tempo stimolare riflessioni da lontano? Nel tentativo di raggiungere la popolazione colpita di Wuhan, Ningyuan pensò di creare una piattaforma digitale per veicolare contenuto non solo informativo, ma che affrontasse anche la critica sociale. Scelse di chiamarlo «Decameron». Il periodo di isolamento di Wuhan, però, si prospettava più lungo rispetto ai dieci giorni dell’opera di Boccaccio: una quarantena. Così il nome del progetto divenne «4xDecameron». Quattro volte il Decameron. Proprio mentre si diffondevano le notizie dei focolai di Codogno e Vo’, aprirono sui principali social media cinesi e italiani gli account dedicati per pubblicare periodicamente contenuti selezionati e sviluppati da un gruppo di volontari che collaboravano col collettivo in doppia lingua. Erano liuxuesheng, seconde generazioni di cinesi nati in Italia, giovani italiani e anche cinesi residenti in Cina, per lo più di età compresa tra i venti e i trent’anni. Attingevano dal cinema, dalla poesia, dall’arte nella sua accezione più ampia.
*Lala Hu, laureata con lode in Comunicazione d’Impresa all’Università Cattolica di Milano, ha conseguito il dottorato in Management all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Al momento è ricercatrice e docente di Marketing al Dipartimento di Scienze dell’economia e della gestione aziendale dell’Università Cattolica di Milano, dove insegna Marketing, Marketing Management e International Marketing. È Visiting Professor presso il King’s College London – Department of Digital Humanities, docente di International Marketing al Master Global Management China (Università Ca’ Foscari Venezia, Napoli “L’Orientale”, Roma Tre, Università Macerata e Università degli Studi di Bergamo) e docente di Social Media Marketing presso H-FARM. Ha all’attivo un’esperienza lavorativa presso l’agenzia di pubblicità Leo Burnett, oltre ad aver presentato gli studi della sua ricerca in conferenze nazionali e internazionali. Scrive per i blog del Corriere della Sera “La città nuova” (su tematiche relative alla società multiculturale) e “La nuvola del lavoro” (sui temi del lavoro).