Nel mese di ottobre, a ridosso della stagione dei matrimoni, la casa di produzione di gioielli Tanishq lancia uno spot televisivo per promuovere la nuova linea «Ektavam» (unità, in hindi). La pubblicità mostra i preparativi del «baby shower», cerimonia laica che festeggia il concepimento di un bambino, con protagoniste una suocera, musulmana, e una nuora, hindu.
Nel giro di 24 ore i social network di Tanishq vengono presi d’assalto da migliaia di hindu infuriati. Accusano i gioiellieri di promuovere la cosiddetta «Love Jihad», termine islamofobo utilizzato da anni dall’estremismo hindu per descrivere un presunto complotto ordito dalla minoranza musulmana contro la maggioranza hindu.
Secondo questa teoria del complotto, la comunità musulmana – 15% della popolazione indiana – si starebbe adoperando per raggiungere la «sostituzione demografica» della comunità hindu – 80% della popolazione indiana – seducendo, sposando e convertendo le ragazze hindu.
Già sommersa dalle critiche, Tanishq ha deciso di ritirare la pubblicità dopo che un gruppo di fanatici hindu ha attaccato una gioielleria nello Stato del Gujarat aggredendo i commessi, rei di lavorare per gli «amici dei musulmani».
La leggenda metropolitana della «Love Jihad», fino a qualche anno fa, era diffusa solo tra le frange più paranoiche dell’estremismo hindu. È nata ufficialmente nello Stato meridionale del Kerala, dove le sigle giovanili dell’ultrainduismo organizzavano ronde nei parchi e sui lungomari per stanare e malmenare coppiette interreligiose in cerca di intimità.
Oggi la «Love Jihad» è completamente emersa nel mainstream della cultura di massa indiana, sempre più influenzata da islamofobia e misogonia rampanti promosse anche da esponenti del Bharatiya Janata Party (Bjp), partito di governo guidato dal primo ministro Narendra Modi.
Nonostante non esistano dati circa l’incidenza dei matrimoni misti nella società indiana – uno studio condotto nel 2013 dall’Università del Maryland stima siano meno del 2% – il complotto della «Love Jihad» è ormai percepito come reale da milioni di indiani, tanto da aver spinto diverse amministrazioni locali a proporre leggi ad hoc per ostacolare i matrimoni interreligiosi.
Nelle ultime settimane ben cinque Stati federati governati dal Bjp – Uttar Pradesh, Haryana, Madhya Pradesh, Karnataka e Assam – hanno annunciato proposte di legge che criminalizzano i matrimoni misti.
Il 25 novembre il governo dell’Uttar Pradesh – guidato dal monaco settario hindu Ajay Bisht, meglio noto come Yogi Aditiyanath, considerato il «delfino» di Modi – ha diffuso i dettagli della proposta di legge: chiunque intenda sposarsi fuori dalla propria comunità religiosa dovrà comunicarlo al governo locale due mesi prima, dando così modo alle autorità di sincerarsi che l’unione sia genuina.
Se lo Stato deciderà che il matrimonio è stato celebrato «con la sola intenzione di convertire la ragazza», verrà dichiarato nullo e il marito sarà condannato a una pena detentiva da 1 e 5 anni. Nel caso la sposa provenga da un gruppo di casta bassa o tribale e sia stata costretta a sposarsi «con la forza, con atrocità e con l’inganno», il massimo della pena sale a 10 anni di carcere non commutabili ai domiciliari.
Le opposizioni parlano di indebita restrizione della libertà personale ma, considerando l’ampia maggioranza di cui gode il Bjp nelle assemblee parlamentari dei cinque Stati, appare inevitabile l’arrivo del giorno in cui sarà lo Stato a decidere arbitrariamente se un uomo e una donna si sposano per amore o per «urtare la sensibilità» della maggioranza hindu.
Pochi giorni dopo il ritiro dello spot di Tanishq, tre giornalisti residenti a Mumbai decidono di aprire su Instagram l’account «India Love Project» (Ilp), con l’intento di combattere le falsità del settarismo ultrahindu raccontando le storie di chi ha voluto sfidare il patriarcato e l’oscurantismo religioso, decidendo di sposarsi fuori dalla propria comunità.
«Ci siamo sempre opposti con forza alle narrazioni platealmente false e all’istigazione all’odio motivato politicamente intorno ai matrimoni interreligiosi in India. Sapevamo che si trattava di falsità, che era sbagliato e che campagne contro la cosiddetta Love Jihad non sono altro che espedienti per togliere alle donne la propria agentività, rafforzare il patriarcato e perpetuare stereotipi e menzogne».
Così Samar Halarnkar (56 anni) spiega al manifesto la genesi di Ilp, iniziativa che porta avanti con la moglie Priya Ramani (50 anni) e il comune amico Niloufer Venkatraman (53 anni).
Con una story su Instagram, a fine ottobre Ilp chiedeva alla rete di inviare racconti di matrimoni interreligiosi o intercastali corredati da foto originali. I primi tre post raccontano in immagini la storia delle famiglie di amici di Halarnkar e dei genitori di Venkatraman (padre hindu, madre parsi), che negli anni ’50 decidono di sposarsi contro il volere della famiglia tamil del marito.
In un mese Ilp, che nel frattempo ha aperto un account anche su Facebook, conta decine di migliaia di follower da tutto il mondo. Ha raccolto più di trenta storie, formando un mosaico che spazia dai primi anni dell’India indipendente fino ai più recenti matrimoni del nuovo millennio. Nella casella postale di Halarnakar ce ne sono altre cinquanta, «ma abbiamo smesso di contarle, continuano ad arrivare».
Nella maggioranza dei casi, le storie sono accomunate da una prima resistenza da parte delle rispettive famiglie degli sposi, segno di una costante avversione ai matrimoni intercomunitari rimasta intatta nei decenni. Sposarsi fuori dalla propria comunità – sia religiosa, sia castale – è spesso percepito come un affronto a tradizioni familiari che nella società indiana si sovrappongono ai costumi religiosi: marcatori che determinano la propria identità e l’accettazione, o il rifiuto, da parte della comunità di provenienza.
Un ostacolo ancora oggi spesso insormontabile che poco ha a che fare con l’estrazione di classe. «Per certi versi – ci spiega Halarnkar – un tempo i matrimoni misti erano più facili, perché almeno nella classe media non si era così moralisti».
L’attività in rete è solo la prima fase di un progetto che i fondatori di Ilp intendono portare anche offline, offrendo sostegno psicologico e legale alle aspiranti coppie miste decise a sfidare le leggi non scritte imposte dalla tradizione, oltre a quelle scritte dagli zelanti oppositori della «Love Jihad».
In questo contesto, Ilp intende raccontare storie d’amore al di fuori delle «catene di fede, casta, etnia e genere» che possano essere «un raggio di speranza per chi si trova nella stessa situazione in questa nostra nazione fratturata», ci spiega Halarnkar.
Lo spiega bene Tanvir Aeijaz, musulmano, nel post a quattro mani che Ilp ha dedicato il 6 novembre alla storia del suo matrimonio con Vineeta Sharma, hindu. Aeijaz racconta che appena dopo il «baby shower» con cui lui e Sharma hanno annunciato ad amici e parenti l’arrivo di una figlia, tutti si sono imbarcati in un «viaggio di curiosità e sospetto».
Volevano sapere se alla nascitura sarebbe stato affibbiato un nome hindu o musulmano. «La chiameremo Kuhu», dice Aeijaz. Gli amici sono confusi, non capiscono se si tratti di un nome musulmano o hindu. Nessuno dei due, spiega Aeijaz, è ispirato al canto della civetta. «Bene, ma come la crescerete questa bimba? Da hindu o da musulmana?». «Vedrà lei quando crescerà, noi le insegneremo a non odiare nessuno».
«Ma come fanno tre persone così diverse a vivere sotto lo stesso tetto?». «Intendi dire che non è possibile?».
A conclusione di questo siparietto che svela molte delle ansie che ancora attanagliano la medio-borghesia dell’India urbana, Aeijaz chiosa: «Che il nostro matrimonio hindu-musulmano possa essere un modello di secolarismo sembra smentire le aspettative della gente. Sono tutti sbalorditi, quasi infastiditi dal fatto che il nostro amore si debba chiamare amore, e non love jihad».
[Pubblicato su il manifesto]