Tra Russia e Giappone la Seconda guerra mondiale non è mai finita. C’entrano le Isole Curili, conteste da oltre cento anni. Ma c’entrano anche Taiwan, la Cina e gli Usa. E ora pure Tokyo vuole la bomba atomica
La Seconda guerra mondiale non è mai finita, non per tutti. Per Hiroo Onoda terminò 30 anni più tardi, quando nel 1974 riemerse dalle foreste filippine a cui era stato assegnato e venne arrestato perché non credeva che fosse tutto finito. Per le relazioni tra il suo paese e la Russia, invece, il 1945 rappresenta ancora oggi il tragico esito di un conflitto mai realmente risolto.
La dimostrazione l’ha offerta qualche giorno fa il ministro degli esteri del Cremlino. Sergei Lavrov ha dichiarato che “per la Russia non ci sono le condizioni per portare avanti il dialogo con il Giappone sul trattato di pace” che porrebbe fine alla Seconda guerra mondiale tra le potenze, cosa mai avvenuta formalmente. Ma cosa significa tutto questo e come si è arrivati fino a qui? Perché nel 2014 il Giappone considerava l’invasione dell’Ucraina come una questione europea mentre ora la ritiene oggetto di sicurezza nazionale? Cosa lega le rivendicazioni russe intorno a Kiev e Tokyo e, non meno importante, cosa c’entra la Cina?
Sanzionare Mosca per avvertire Pechino
La scorsa settimana, il Giappone ha deciso di alzare i toni e il tiro nei confronti di Russia e Bielorussia. Oltre ad aver escluso Mosca dallo Swift, Tokyo ha bloccato gli asset di ulteriori 32 ufficiali e oligarchi dei due Paesi. Ha, inoltre, compiuto un gesto poco comune, inviando equipaggiamento difensivo all’estero e mostrando la possibilità di poter supportare materialmente anche Kiev. La dichiarazione di Lavrov ha sottolineato quindi come fosse complesso fare la pace con un paese che “mostra tanta ostilità nei nostri confronti”.
Secondo James Brown, della Temple University di Tokyo, dal 2012, l’ex premier Shinzo Abe cercò di stringere relazioni più solide con Putin, più di quanto fece per i vicini sudcoreani. L’obiettivo era quello di opporsi alla Cina e scongiurare la vicinanza tra Mosca e Pechino. Nonostante i due leader si incontrarono 25 volte in 8 anni, l’esperimento fallì miseramente. Da allora, infatti, le relazioni sino-russe sono cresciute raggiungendo il loro apice con le ultime Olimpiadi invernali cinesi.
Il primo giorno di invasione in Ucraina, il nuovo premier giapponese Kishida ha dichiarato: “Si tratta di un situazione molto grave che non colpisce solo l’Europa, ma anche l’Asia e l’intero ordine mondiale”. Perciò secondo diversi esperti – come anche titolato dalla Cnn – “i contrasti tra Giappone e Russia riguardano la Cina” e la situazione di crescente instabilità dentro e intorno al Sol levante.
Egemonie regionali e dissapori secolari
La contesa dell’egemonia in Europa tra Mosca e Bruxelles/Washington ha riacceso lo stesso tipo di tensione in Asia orientale tra Pechino, Tokyo e le altre potenze. Il Pacifico, il Mar cinese e il Mar del Giappone ne sono il fulcro: dalle isole Dokdo, Curili e Diaoyu fino a Taiwan, considerato attualmente tra i posti più pericolosi al mondo. A poche centinaia di chilometri, la Corea del Nord ne approfitta per testare un altro razzo. Nel mentre, la Corea del Sud elegge, nelle parole di Frassineti, Casanova e Lamperti, “K-Trump alla casa Blu” e il suo nazionalismo pronto a raccogliere vecchie dispute e dissapori territoriali.
Europa e Asia orientale non sono sole. Allo stesso modo, infatti, altre contese regionali riecheggiano in Medio Oriente con Israele che bombarda Damasco uccidendo due civili. L’Iran, invece, attacca il consolato americano in Iraq. Segnali ulteriori del sempre più precario stato di salute dell’ordine globale e di ritorno a rivendicazioni regionali mai risolte. Molte delle quali ascrivibili ad avvenimenti direttamente legati al primo e il secondo conflitto mondiale.
Per esempio: le pretese territoriali in Medio Oriente, sono legate alla spartizione europea dei resti dell’Impero Ottomano avviata nel 1916. Le rivendicazioni della Russia risalgono alla rivoluzione sovietica e al 1922, cento anni fa esatti, quando l’Ucraina entrò ufficialmente nell’Urss. Quelle della Cina su Taiwan appartengono al 1949. I moventi però nascono dall’opposizione tra nazionalisti e comunisti, frutto anch’essa del primo conflitto mondiale, del trattato di Versailles e della rivoluzione sovietica.
Allo stesso modo, la contesa sull’arcipelago delle Curili, tra Giappone e Russia, si è sedimentata nel ‘45 e prima ancora attraverso la guerra russo-giapponese del 1904-5 che, con la vittoria nipponica, vide l’affermazione della prima superpotenza orientale della Storia moderna.
56 sfumature di guerra
Le ragioni per cui la Seconda guerra mondiale persiste tra Giappone e Russia sono esattamente 56 e sono legate, per l’appunto, all’arcipelago delle Curili. Equivalgono al numero di isole che lo compongono, connettendo a singhiozzo per 1200 km la regione giapponese di Hokkaido e la penisola russa della Kamchatka. La questione è molto complessa, ha richiesto infatti 4 trattati e va avanti da quasi 170 anni. Il primo accordo di spartizione delle isole fu il Trattato di Shimoda del 1855.
Il successivo, quello di San Pietroburgo, è datato vent’anni dopo e prevedeva la rinuncia russa all’arcipelago in cambio del totale controllo di Sachalin. Trent’anni più tardi, la guerra russo-giapponese e il Trattato di Portsmouth confermarono e estesero i possedimenti nipponici.
Tuttavia, nel 1945, con la Conferenza di Jalta, l’Urss si impegnò a entrare in guerra con il Giappone e, per farlo, iniziò dall’invasione delle Curili, tuttora occupate dai russi. In seguito, il Trattato di San Francisco firmato nel 1951 tra gli alleati e il Giappone (ma non dalla Russia proprio per questa ragione), dichiarò che Tokyo dovesse rinunciare a ogni diritto sull’arcipelago, ma al tempo stesso, non riconobbe la sovranità sovietica.
Nel 1956, la situazione parve stabilizzarsi con la dichiarazione congiunta russo-giapponese che poneva fine al conflitto, non venne mai firmato però un vero trattato di pace. Nei decenni successivi i tentativi di riconciliazione e spartizione furono innumerevoli ma non in grado di cambiare la situazione. Attualmente, la Russia ha sospeso i visti per i giapponesi che si recavano nelle Curili, anche per coloro con famiglia sulle isole.
Un Mare (cinese) di problemi
Un simile discorso può essere fatto per le isole Dokdo/Takeshima contese tra Giappone e Corea del Sud, basate anch’esse su antiche dispute, ma esacerbate dal recente passato di abusi dell’imperialismo nipponico. Oltre a Mosca e Seoul, ci sono ovviamente rivendicazioni con Pechino. Parliamo delle Senkaku (Diaoyu in cinese) per cui lo scorso anno, il ministro della difesa Kishi affermò “si tratta di territorio giapponese e come tale verranno difese”.
Oggi, dunque, il supporto all’Ucraina rappresenta per Tokyo un doppio beneficio. Secondo Yoko Iwama, esperto del National Graduate Institute of Policy Studies, “lo scopo è di mandare un chiaro messaggio, il Giappone sarà pronto a un’eventuale invasione del territorio. Non vogliamo una vera guerra, l’obiettivo è politico.” Lo studioso è convinto che la Cina potrebbe “essere persuasa dall’agire aggressivamente come Putin”.
Ad aggravare ulteriormente la percezione di Tokyo c’è infine Taiwan, nelle cui acque, tra le navi da guerra cinesi e americane, trafficano il 90% del suo petrolio, insieme a buona parte delle merci e della sua sicurezza nazionale. Come spiegato su Fanpage nelle scorse settimane, nonostante le grandi differenze tra Kiev e Taipei e le prospettive cinesi per arginare (e non emulare) il conflitto, il destino della Repubblica di Cina è stato paragonato a quello ucraino da numerosi leader, prima ancora che da media e opinione pubblica.
Perplessità che non necessariamente si ridurrebbero qualora la guerra dovesse concludersi, in particolare se il ruolo di Pechino fosse rilevante nelle negoziazioni. Secondo una ricerca del Taiwanese Public Opinion Foundation, sempre più taiwanesi sono convinti che, in caso di un’aggressione militare cinese nei loro confronti, saranno i giapponesi a intervenire e non gli Usa.
Si vis pacem, para bellum
Al netto di quanto tali paure siano fondate, rappresentano una chiara polarizzazione del dialogo fondata su questioni geopolitiche. Parliamo del “dilemma della sicurezza” e dell'”equilibrio di poteri” nella regione, fenomeni facilmente influenzabili dalla crescente instabilità globale e domestica. Il Giappone del dopoguerra è stato tanto celebre per il suo pacifismo quanto per il suo distaccato impegno internazionale.
Eppure, come Berlino, oggi anche Tokyo stravolge la sua politica storica e si riarma: cambia la costituzione pacifista; annuncia di poter colpire basi nemiche; approva cifre record per la difesa e i suoi notiziari sono dominati da notizie su un conflitto lontanissimo. Un recente sondaggio svolto su circa 1000 persone ha identificato 8 soggetti su 10 come contrari alle sanzioni alla Russia e sono numerose le manifestazioni anti-guerra. Eppure, nel paese di Hiroshima e Nagasaki, l’ex leader democratico Abe ha suggerito di poter entrare in un programma simile alla Nato per la condivisione di armi nucleari.
È dunque tanto complesso quanto importante comprendere che il conflitto in Ucraina ha messo il Giappone di fronte a domande e timori che avrebbe voluto evitare. Dopo l’Afghanistan e l’Ucraina, proprio come i taiwanesi, anche “i giapponesi si chiedono: gli americani interverranno veramente in caso di attacco cinese? Gli Stati Uniti entreranno davvero in guerra con la Cina?”.
Secondo Sheila Smith del Council of Foreign Relation, “queste sono domande che sono emerse prima sulla Nord Corea, poi sulla Cina, ora sulla Russia di Putin”. Se prima Tokyo si poteva sentire minacciata da due potenze nucleari, ora le minacce sono tre. Tre come la terza guerra che almeno a parole tutti vorrebbero evitare, persino coloro che ancora non sono riusciti a concludere la Seconda.
Articolo scritto per Fanpage.it
Classe 1989, Sinologo e giornalista freelance. Collabora con diverse testate nazionali. Ha lavorato per lo sviluppo digitale e internazionale di diverse aziende tra Italia e Cina. Laureato in Lingue e Culture Orientali a La Sapienza, ha perseguito gli studi a Pechino tra la BFSU, la UIBE e la Tsinghua University (Master of Law – LLM). Membro del direttivo di China Files, per cui è responsabile tecnico-amministrativo e autore.