Quando giovedì arriverà ad Osaka per il G20, Donald Trump potrà dire di aver visitato il Giappone due volte in due mesi. Potrà, inoltre, tornare a rimarcare l’amicizia fraterna che lo lega al premier nipponico Shinzo Abe, cementata sui campi da golf e nel corso di oltre quaranta colloqui diretti e telefonici. Ma dietro le “effusioni” gettate in pasto alla stampa internazionale le relazioni tra Tokyo e Washington nascondono crepe sempre più evidenti. Non ci sono solo le minacciate tariffe contro l’automotive giapponese. Nella consolidata strategia trumpiana in cui sicurezza nazionale e interessi commerciali si compenetrano indissolubilmente, la prossima vittima potrebbero non essere le esportazioni della Toyota, bensì la storica partnership militare tra Stati Uniti e Sol Levante.
Secondo fonti di Bloomberg, l’inquilino della Casa Bianca avrebbe esternato il proprio disappunto per i dispendiosi obblighi cui Washington si trova a far fronte nell’ambito del trattato di mutua cooperazione e sicurezza firmato da Giappone e Stati Uniti il 19 gennaio 1960 sulle ceneri del precedente Trattato di San Francisco, stipulato nel ’51. Da allora l’accordo costituisce lo zoccolo duro dell’alleanza militare tra i due paesi, obbligando gli Stati Uniti a prestare assistenza armata al Giappone in cambio dell’accesso al territorio nipponico, dove oggi stazionano circa 54.000 soldati a stelle e strisce. Uno scambio che Trump avrebbe privatamente definito “unilaterale” e iniquo. Soprattutto considerate le grane in cui è finita la base di Futenma, che gli abitanti di Okinawa voglio ricollocare fuori dall’isola e per cui il presidente statunitense pretenderebbe persino un risarcimento.
Mentre la diffidenza di Trump verso il Sol Levante si può far risalire addirittura agli anni ’90 – ben prima che Tokyo venisse definito un “free-rider” in campagna elettorale -, gli ultimi ripensamenti trovano riscontro in una più ampia controffensiva volta a responsabilizzare gli alleati asiatici. Da tempo il presidente americano lamenta lo scarso contributo di Corea del Sud e membri NATO quanto a spesa militari. Con il risultato che nel 2019 Seul ha aumentato il budget per l’esercito ai massimi da 11 anni e il Partito liberal democratico di Abe ha proposto di destinare alla Difesa il 2% del Pil, in linea con quanto richiesto da Washington ai partner asiatici. Una mano tesa a Trump ma anche un ulteriore potenziamento delle Forze di autodifesa nipponiche, che dalla seconda guerra mondiale sono tenute a ricoprire prevalentemente mansioni di peacekeeping e che il premier nipponico sta cercando di riformare con funzioni “offensive”.
Se fino ad oggi la postura muscolare dell’amministrazione statunitense ha fruttato all’industria bellica americana miliardi di dollari in forniture militari tra Corea del Sud, Giappone e Taiwan, le ultime minacce rischiano di scardinare il capillare network di alleanze tessuto dagli Stati Uniti negli ultimi sessant’anni. Come ammesso dallo stesso Trump, quella di Yokosuka è l’unica base navale dove la flotta americana staziona al fianco di navi alleate. Ad oggi Tokyo costituisce il perno della “strategia dell’Indo-Pacifico”, rilanciata due anni fa in sostituzione del vecchio Pivot to Asia per arginare l’avanzata cinese nella regione. Un tradimento degli impegni assunti con Tokyo metterebbe in dubbio la tenuta dei rapporti militari con gli altri principali player del quadrante (Australia, Filippine, Corea del Sud e Taiwan), innescando potenzialmente una nuova corsa agli armamenti in tutti quei paesi oggi dipendenti dal sostegno americano in chiave anti-Pechino.
Mentre – come attesta il ritiro di George Bush dal trattato anti missili balistici (2002) – Trump potrebbe procedere anche senza l’approvazione del Congresso, secondo gli esperti, le minacce rimarranno tali. O – nel peggiore dei casi – troveranno sfogo in una ridefinizione dello storico trattato in termini più vantaggiosi per Washington. Intanto, smentendo le indiscrezioni, il capo di gabinetto Yoshihide Suga ha sottolineato come “l’alleanza tra Stati Uniti e Giappone costituisce il fulcro della nostra politica diplomatica e di difesa nazionale”.
D’altronde, provocazioni e ripensamenti sono ormai il marchio di fabbrica del governo Trump. Sempre che non si tratti di una tattica commerciale pianificata a tavolino. E’ quanto ipotizza il Japan Times, secondo il quale il tempismo con cui è stata diffusa la notizia potrebbe trovare spiegazione nella logorante trattativa tra Tokyo e Washington per un nuovo accordo commerciale in grado di compensare l’uscita statunitense dalla Trans-Pacific Partnership. Chissà che l’idea di perdere il prezioso alleato non convinca finalmente Tokyo ad aprire il proprio mercato agli agricoltori americani.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.