Nell’era dei social media e dei leoni da tastiera, il manifestarsi di flame e le indignazioni rese pubbliche attraverso le piattaforme social sembrano essere ormai una caratteristica intrinseca della comunicazione digitale. Ma quando il malcontento è espresso con fervore da una comunità di oltre 523 milioni di persone che ha il potenziale di danneggiare grandi aziende, nonché di influenzare trend di mercato, la posta in gioco si alza drasticamente.
Tale è il numero di utenti che popola mensilmente la piattaforma social cinese Sina Weibo (Xinlang Weibo, 新浪微博) secondo una statistica della China Internet Watch aggiornata ad ottobre 2020, e che si ritrova in questo spazio virtuale per commentare fatti e notizie non solo dalla Cina ma da tutto il mondo. Questa volta a finire nel mirino di Weibo è stato “Monster Hunter”, l’adattamento cinematografico dell’omonima serie di videogiochi; un action fantasy, diretto da Paul W.S. Anderson (noto per la saga Resident Evil e per Aliens vs Predator) con protagonista l’iconica Milla Jovovich.
Il film, distribuito in Cina in anteprima mondiale il 4 dicembre e uscito negli Stati Uniti il 18 dicembre, ha avuto vita breve nelle RPC, dove è stato ritirato dalle sale cinematografiche a soli pochi giorni dal suo rilascio a causa di una battuta considerata razzista dal pubblico cinese. Gli spettatori si sono infatti riversati sul social media Weibo, accusando il film di essere offensivo nei confronti della Cina e pretendendo delle scuse formali dall’attore coinvolto nella scena.
La battuta incriminata vede l’attore sino-americano Jin AuYeung (celebre per aver partecipato al talent show The Rap of China come MC Jin) rivolgersi scherzosamente a un compagno d’armi dicendo: “Guarda le mie ginocchia, che ginocchia sono queste? Ginocchia cinesi!”. Il gioco di parole, basato sull’omofonia inglese Knees – Chinese (niːz – tʃaɪˈniːz), è stato interpretato da alcuni utenti di Weibo come un rimando alla filastrocca del secondo dopoguerra che recita: “Chinese, Japanese , dirty knees, look at these”. La cantilena in questione veniva recitata dai bambini nei paesi anglofoni, spesso accompagnata da smorfie che imitano gli occhi a mandorla, in un tono evidentemente denigratorio nei confronti delle seconde generazioni di origine asiatica.
È tuttavia interessante notare che nei sottotitoli per la versione cinese di “Monster Hunter”, la freddura di Jin AuYeung (che, tra le altre cose, sembra essere stata un’improvvisazione dell’attore, stando a quanto affermato da Milla Jovovich su Twitter) è stata resa in cinese con un significato diverso, volto probabilmente a creare una traduzione orientata al target di arrivo. Il sottotitolo traduce infatti la battuta come: “Sai cosa c’è sotto le mie ginocchia? Dell’oro”. L’espressione linguistica è un detto cinese che letteralmente significa – un uomo ha dell’oro sotto le ginocchia – (nanren xixia you huangji, 男人膝下有黄金) e che indica una persona dall’alta integrità morale, che non si piega facilmente al volere degli altri.
Nonostante il significato positivo dei sottotitoli, l’associazione con l’originale in inglese ha infuriato gli utenti di Weibo, che hanno letto come denigratoria l’allusione all’inginocchiarsi dei cinesi. Di conseguenza la scena, e per estensione tutto il film, è stata considerata un’umiliazione nei confronti del pubblico cinese e ha creato un’ondata di indignazione su Weibo sotto l’ hashtag #MonsterHunterInsultaLaCina.
Il mercato del cinema in Cina è un settore che ha vissuto una crescita esponenziale negli ultimi anni, creando un guadagno in termini di box office secondo solo a quello degli Stati Uniti. Rimane però un settore complesso da navigare per i film stranieri, in quanto secondo le regolamentazioni della China Film Administration (CFA), esiste un massimo di 30-40 film di produzione non cinese concessi per distribuzione sul territorio della RPC, attraverso un sistema di condivisione degli introiti e acquisizioni limitate. Questo ha portato molte case di produzione hollywoodiane ed europee a cercare di collaborare con quelle cinesi, nel tentativo di guadagnare il supporto di una fetta di consumatori sempre più allettante.
“Monster Hunter” rientra in questa categoria. Si tratta infatti di una joint production tra Stati Uniti, Cina, Germania e Giappone, in cui compare anche la compagnia cinese Tencent Pictures, sezione per il settore dell’intrattenimento del colosso tech Tencent. La presenza di quest’ultima non è però stata sufficiente per frenare il risentimento espresso su Weibo e il film è stato ritirato dalle sale fino a data da definirsi. Secondo la CNN Business, la produzione di “Monster Hunter” ha promesso di rimuovere la battuta sotto accusa e ha dichiarato che “non era loro intenzione discriminare, insultare o offendere in alcun modo il patrimonio culturale cinese”.
A subire le conseguenze di questo incidente è stato anche il videogioco “Monster Hunter: World” della Capcom, che sulla piattaforma di gaming Steam ha ricevuto una moltitudine di recensioni negative tali da dannerggiarne la graduatoria. Questo fenomeno, conosciuto online con il nome di Review Bomb, è un’altra forma di boicottaggio popolare nel web, per molti aspetti simile all’attivismo da hashtag che avviene su Weibo.
Non è infatti la prima volta che i leoni da tastiera di Weibo riescono a mobilitare i loro connazionali e a creare danni tangibili fuori dallo spazio virtuale con la loro rabbia. Se lo ricordano bene Dolce&Gabbana, che ancora stanno pagando per la loro campagna di video promozionali del novembre 2018, considerata offensiva dagli utenti cinesi online. Ma anche Burberry, che nel 2019 è stata accusata di aver rappresentato con i suoi modelli una versione retrograda e inaccurata della famiglia tradizionale cinese, e più di recente il film Disney di Mulan, che non ha incontrato il gusto del pubblico cinese.
Il tumulto nato attorno a “Monster Hunter” si colloca dunque all’interno di un trend crescente, che vede il pubblico cinese rispondere in modo negativo al tentativo occidentale di coinvolgere e rappresentare la sempre più rilevante audience cinese. Ci sono infatti due elementi fondamentali che accomunano questi episodi. In primo luogo, l’offesa sembra avvenire quando un elemento straniero tenta di raffigurare qualcosa di inerente alla Cina, cadendo però in rappresentazioni retrograde o inconsiderate, che per mancanza di approfondimento urtano la sensibilità cinese. In secondo luogo, la reazione del pubblico cinese è espressa online, spesso su piattaforme social come Weibo, e sta dimostrando sempre più di riuscire ad ottenere conseguenze concrete per i soggetti considerati responsabili di un’offesa. In altre parole, quando i netizens cinesi percepiscono la loro identità attaccata o mal rappresentata da un elemento straniero, sia questo un brand o una casa di produzione, la voce di Weibo si farà sentire.
Ecco cosa succede quando il patriottismo incontra il consumismo nell’era digitale. Il pubblico cinese di oggi ha interiorizzato come parte della propria identità l’essere consumatori globali ed è pronto ad utilizzare il suo potere d’acquisto per pretendere rispetto e una accurata rappresentazione mediatica. Cosciente del nuovo ruolo che la Cina ricopre nel panorama globale, il pubblico cinese è sempre più esigente e non perde occasione per farlo presente. Stiamo parlando di un vero e proprio nazionalismo dei consumi, dove i cittadini esprimono fedeltà alla loro identità e al loro paese tramite oltraggio online e preferenze di acquisto.
È importante notare che questo atteggiamento ha radici storiche profonde ed è per questo destinato a persistere. La sensibilità del pubblico cinese che emerge da questi episodi è almeno in parte il retaggio di quell’educazione patriottica verificatasi in Cina dagli anni ’90, che porta molti giovani cinesi di oggi a provare un maggiore senso di patriottismo e di rivalsa nei confronti dell’Occidente. Non è un caso che l’hashtag più comunemente utilizzato in questi sfoghi online sia sempre #辱华(ruhua, insultare la Cina), dove il carattere utilizzato per esprimere questo concetto significa insulto, ma anche umiliazione. Un’umiliazione che secondo i libri di storia in Cina, i cinesi hanno vissuto a partire dalla prima guerra dell’oppio per mano degli occidentali e che oggi, alla luce del successo economico e politico della RPC, non ha spazio per continuare a esistere.
Un aspetto che risulta problematico in questa serie di incidenti è tuttavia che i contorni di ciò che è considerato offensivo secondo gli utenti di Weibo sono spesso mutevoli e fumosi, rendendo complesso trovare un approccio attento e rispettoso. Nel caso di “Monster Hunter” per esempio, se è vero che nei paesi anglofoni esiste la filastrocca denigrante, e che l’Occidente non ha ancora superato il proprio atteggiamento orientalista nei confronti della Cina e di tutta l’Asia, è altrettanto improbabile che la battuta di Jin AuYeung fosse intesa in termini discriminatori, ipotesi peraltro supportata dai sottotitoli allegati.
Nel complesso, il fatto che la semplice associazione di parole abbia scatenato il putiferio su Weibo e che il film sia stato ritirato dalle sale è di per sé eccezionale e ci pone davanti a importanti considerazioni. È sicuramente arrivato il tempo per l’Occidente di fare conto con i propri bias culturali ed evitare di perpetrare stereotipi offensivi, anche per non incorrere in errori grossolani ed incidenti che, come questa ennesima vicenda di indignazione online dimostra, costano caro. Ciò nonostante, bisognerà prestare molta attenzione a questo tipo di reazione da parte della comunità virtuale cinese e alle sue conseguenze, per non rischiare di cadere nell’autocensura nel timore di perdere il favore dei consumatori in Cina. In altre parole, a dirigere la conversazione dovrebbe essere una maggiore consapevolezza dell’altro che punti ad una corretta rappresentazione, piuttosto che un cieco assenso di fronte alla critica che non solo ha pericolose implicazioni, ma non produce niente di costruttivo.
di Lucrezia Goldin
*Studiosa di Cina, da poco laureatasi presso la Leiden University. Specializzata sui temi di nazionalismo e cyber governance
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.