Stavolta il bersaglio degli slogan è il potere centrale, perché la strategia zero Covid è il marchio di fabbrica di Xi Jinping. Il ruolo dei giovani, analogie e differenze con il 1989. Scende l’ascensore sociale della crescita impetuosa, cresce la richiesta di diritti e di libertà di espressione
Le proteste dell’ultimo weekend in Cina hanno portato a galla un malcontento nei confronti della politica Covid zero del governo centrale che cova da tempo. In tutto il Paese moltissimi cinesi sono scesi per strada e urlato slogan contro i lockdown, i test di massa e le restrizioni, ma anche contro il Partito comunista e in particolare contro Xi Jinping, il numero uno. Molti esibivano dei fogli A4 bianchi per criticare la censura che il Partito, in Cina, usa sistematicamente per tenere sotto controllo l’opinione pubblica. E sui social è stato un diluvio di condivisioni di foto e video delle proteste.
Su WeChat, il principale social network cinese, è successo qualcosa di clamoroso: scorrendo la timeline sullo smartphone si vedeva un fiume in piena di slogan, meme, indicazioni su come prepararsi a manifestare. Una cosa mai vista sui social cinesi. Quello che sta succedendo in queste ore è un evento molto particolare, forse unico. Ma come sempre, per capire cosa succede in Cina ed evitare conclusioni affrettate, è necessario un minimo di contesto.
Partiamo da un dato: le proteste in Cina ci sono sempre state. I cinesi non sono quel popolo suddito e obbediente che spesso viene descritto nei media occidentali. Le autorità li chiamano «incidenti di massa»: possono essere proteste pacifiche, cortei, ma anche contestazioni violente. Fino a qualche anno fa sapevamo che di episodi simili ne capitavano migliaia all’anno. Poi, all’inizio degli anni duemila, Pechino ha deciso di chiudere i rubinetti: il numero ufficiale delle proteste in Cina, da allora, è segreto di stato.
Le proteste di questi giorni però sono una novità: gli incidenti di massa erano sempre manifestazioni di dissenso locale, spesso contro funzionari locali, fabbriche inquinanti, aziende al centro di scandali alimentari, bersagli con un nome e un cognome, o una ragione sociale almeno. E a Pechino, al cuore del Partito comunista, veniva chiesto di intervenire per sistemare le cose. Chiudendo le aziende o cacciando i funzionari corrotti. Oggi, invece, chi manifesta in Cina lo fa proprio contro il governo centrale, perché la politica Zero Covid è un marchio di fabbrica del presidente Xi Jinping. Il punto di partenza sono i lockdown, improvvisi e durissimi, e l’inefficienza del sistema cinese a organizzare e gestire le persone che rimangono chiuse in casa o nei covid center. Non a caso la prima manifestazione di grande dissenso c’è stata mesi fa a Shanghai, quando alle persone chiuse in casa in pratica non arrivava cibo.
Un altro elemento di novità è sicuramente l’estensione geografica delle proteste. Dopo le prime manifestazioni contro le restrizioni per l’epidemia ci eravamo chiesti se fossimo di fronte a eventi locali, limitati o meno. Sabato e domenica hanno dimostrato che queste proteste raggiungono varie città, da Urumqi in Xinjiang, fino a Shanghai, Chengdu, fino a Pechino. La frustrazione è ormai generale.
Un’altra peculiarità di queste proteste – almeno dai video che abbiamo visto – sembra essere la partecipazione dei giovani. Le università hanno manifestato e per le strade erano soprattutto i giovani a scandire gli slogan. Sono loro che possono mettere in difficoltà il Partito comunista cinese, specie nelle grandi città. Perché non condividono le esigenze di ordine e stabilità del Partito, e stanno vivendo sulla propria pelle il rallentamento economico e l’incertezza che sta dominando le vite dei cinesi. Il 19% dei giovani è attualmente disoccupato e il rallentamento dell’economia mette in crisi quel patto sociale che il Partito ha stipulato con la popolazione cinese: vi potete arricchire ma rinunciate ad alcuni diritti.
I giovani vedono fermarsi l’ascensore sociale che aveva contraddistinto gli anni di crescita cinese impetuosa, e adesso cominciano a reclamare diritti: libertà di parola, di espressione, di associazione. Le proteste di questo weekend sono una novità assoluta ma è bene ricordare alcune cose: si protesta soprattutto nelle grandi città, una parte della popolazione cinese è ancora convinta che la politica Covid zero sia giusta, una parte più nazionalista ha già bollato queste proteste come “dirette da potenze straniere”.
Di certo ora il Partito comunista è di fronte a una situazione molto delicata: deve tenere a bada questa frustrazione sociale e approntare le modifiche necessarie per far ripartire l’economia, ma senza apparire remissivo rispetto alle proteste. Intanto, il giorno dopo le proteste le città cinesi si sono svegliate più blindate del solito. Barriere nelle strade, polizia un po’ ovunque. Agenti in borghese a controllare le fotografie sul cellulare di passanti, qualche intimidazione e la censura che si è rimessa al passo eliminando post e bloccando account. Le borse hanno accusato il weekend di protesta cinese: la Cina da paese stabile e in crescita comincia a essere vista come un paese instabile, sull’orlo di una crisi di nervi e con un’economia che stenta a causa delle chiusure per il contenimento del Covid.
Il portavoce del ministro degli esteri ha bollato le proteste come hanno fatto i più nazionalisti: chi è sceso in strada è al servizio di potenze straniere che vogliono un regime change in Cina, un grande classico che si ritrova spesso nella storia recente cinese. E proprio queste reazioni e le immagini degli universitari in protesta, della classe media delle grandi città per strada e dei lavoratori che qualche settimana fa si sono scontrati con la polizia nella fabbrica della Foxconn, che produce Iphone, hanno riportato alla mente gli eventi del 1989, le proteste e la repressione di piazza Tian’anmen.
Quando domenica notte ho visto su WeChat le immagine di un gruppetto di giovani che a Pechino volevano andare a protestare a Tiananmen è stato impossibile non pensare a quello che è successo in Cina nel 1989. È decisamente complicato spiegare in poche righe un movimento di protesta che rimase in piazza per mesi e che al suo interno viveva di molte anime. Ma si può andare per esclusione: cioè tentare di scorgere similitudini e differenze tra quello che è accaduto questo weekend e quello che fu il 1989 in Cina.
Intanto c’è una prima grande differenza, almeno per quanto sappiamo oggi delle proteste del fine settimana: è vero che le manifestazioni sono state in tante città, capaci di unire strati sociali diversi, proprio come accadde nel 1989, ma allora nella partita era ampiamente coinvolto anche il Partito. Le manifestazioni di piazza avevano spaccato in due il Partito comunista: c’era una parte di dirigenti favorevoli al dialogo e c’era una parte intransigente, che riteneva non potesse essere accolta nessuna delle richieste della piazza.
Al momento le proteste che abbiamo visto non appaiono organizzate e sembrano non avere alcun appiglio all’interno del Partito. Sono anche le prime proteste dalla fine del Ventesimo congresso che ha stabilito un Partito completamente nelle mani di Xi e dei suoi fedelissimi. È dunque molto difficile che all’interno di questo partito ci sia qualcuno ai livelli più alti intenzionato a parteggiare, tra molte virgolette, con i manifestanti. Ma siamo nel campo delle ipotesi: il regno di Xi Jinping ha finito per scontentare molti funzionari dei livelli intermedi, perché Xi ha promosso per lo più i suoi e spesso al di fuori delle canoniche carriere all’interno del Partito. Se le proteste dovessero ricominciare, dovremo osservare il comportamento delle varie polizie locali, per capire se c’è una crepa nell’apparente graniticità del Partito. Il riferimento al 1989 è spontaneo, naturale, è un evento che a parte i giovanissimi ricordiamo tutti. E alcune analogie ci sono. Anche allora si parlò di “agenti di forze straniere” e anche allora si rispondeva come hanno risposto in questi giorni i manifestanti. Alcune persone che sono scese in strada domenica hanno urlato : “di quali forze straniere stiamo parlando? Di Marx ed Engels?” E anche nel weekend come nel 1989 i manifestanti intonavano l’Internazionale.
Ed ecco la Cina: come è possibile che chi contesta il partito comunista lo faccia in nome di Marx ed Engels, con le foto di Mao Zedong in piazza e cantando l’Internazionale? Sembra una cosa contro intuitiva ma accade molto spesso nelle proteste cinesi: al Partito si chiede di ricordare la propria origine, di tenere fede al suo scopo: garantire a tutta la popolazione una vita comoda.
E oggi le chiusure del Covid non la consentono e soprattutto mettono in discussione quella sensazione che si respira in Cina che il futuro possa essere migliore, che ogni giorno sia meglio del giorno precedente. Le proteste nel 1989 andarono avanti per mesi e raccolsero tutta la vivacità politica e culturale degli anni ’80. Le manifestazioni di questi giorni sono state, forse, un inizio: per i tanti giovani che magari neanche sanno bene cosa è successo nel 1989 ma che ora sembrano intenzionati a creare una specie di memoria condivisa, a cominciare da queste proteste che hanno lasciato un po’ tutti sorpresi.
I prossimi passi sono imperscrutabili anche perché il ricordo del 1989 non è solo quello delle manifestazioni e degli scioperi della fame: è anche quello di una feroce repressione, di un monito per il Partito a non consentire più eventi di questo genere. E il Partito, al contrario forse di tanti giovani scesi in piazza, Tiananmen se lo ricorda molto bene.
Di Simone Pieranni
[Pubblicato su Il Manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.