Verso il XX Congresso del Partito comunista cinese, tra siccità, guerre e presagi di sventura. E (forse) i tentativi di scalata al partito dei rivali di Xi. Che però sembra avere tutto sotto controllo e si concentrerà sugli organi periferici del Pcc e su aggiustamenti della sua politica interna
Guerra in Ucraina, recrudescenza dell’epidemia e chiusure (ancora in corso) dovute alla politica «Zero Covid», rallentamento economico, bolla immobiliare, siccità e crisi energetica, disoccupazione giovanile: per la Cina è stato un anno complicato.
E per di più è proprio l’anno del Ventesimo Congresso, periodo politico in cui solitamente i funzionari cinesi si inabissano per regolare i propri conti e preparare il ricambio generazionale ai vertici del Partito.
Da un punto di vista storico ed epico, per altro, queste sciagure non hanno mai promesso niente di buono: la siccità nell’epoca imperiale era vista come un segno del Cielo nei confronti dell’Imperatore (il figlio del Cielo) e indicava un monito inequivocabile circa la necessità di un cambio alla guida del paese.
NELLA STORIA dinastica cinese, come in quella che ha portato il Partito comunista a fondare la Repubblica popolare nel 1949, il motore erano i contadini. E ogni evento “naturale” avverso finiva per colpire loro; erano così le rivolte contadine a porre fine – spesso – alle dinastie imperiali.
Avvertimenti dunque che risiedono nell’anima più antica dei cinesi, mentre nella Cina nuova di Xi Jinping preoccupano di più i segnali arrivati da Shanghai, dove l’assenza di cibo durante le quarantene forzate ha ridestato incubi condivisi da milioni di cinesi.
La particolarità, inoltre, di questo anno risiede proprio nella posizione del numero uno, Xi Jinping. Il Congresso autunnale, che si terrà il 16 ottobre, dovrebbe incoronarlo con un terzo mandato: le voci danno per scontato che possa tenere tutte e tre le cariche attuali, Presidente della Repubblica, Segretario del Partito e capo delle forze armate.
Questo benché negli ultimi mesi si siano diffusi rumors su una possibile opposizione interna capitanata dal primo ministro Li Keqiang. Ipotesi portate avanti per lo più dal Wall Street Journal che ha provato a scrutare le pagine del Quotidiano del Popolo alla ricerca di segnali premonitori di un possibile colpo di mano di Li Keqiang che pure ha sostanzialmente annunciato da tempo il proprio ritiro dal ruolo di primo ministro.
MA COME ha sottolineato su The China Project Dexter Tiff Roberts, «forget about it», scordatevelo. Questo non significa che nel Partito comunista non ci siano frizioni o diversità di vedute: dopo il tradizionale raduno estivo di Beidaihe (una consuetudine iniziata da Mao), ad esempio, Xi è andato nel nord est del paese, dove i comunisti inflissero una sconfitta determinante per i destini della guerra contro il Kuomintang: un messaggio abbastanza esplicito a Taiwan nel quale alcuni analisti hanno voluto vedere anche un appoggio a quell’economia di Stato (in stile sovietico) che caratterizzò storicamente proprio quella parte del paese; Li Keqiang invece è andato a sud, tradizionalmente luogo delle riforme economiche di Deng Xiaoping (benché alcuni recenti libri di storia, come quello di Joseph Torigian Prestige, Manipulation ad Coercion (2022, Yale University Press) pongano molti dubbi sulla effettiva teorizzazione delle riforme del «piccolo timoniere»).
Supposizioni a parte, sembra che Xi Jinping sia in pieno controllo della situazione, come confermerebbe un incontro di luglio nel quale, come sottolineano gli analisti, si sarebbe preparato il Ventesimo Congresso, confermando la cosiddetta teoria dei «liang ge que li», espressione piuttosto complicata da tradurre in italiano ma che indica i «due pilastri» o le «due istituzioni», ovvero Xi come “nucleo” del Partito (una formula già usata durante il dominio di Jiang Zemin, a sottolineare però la sua natura di primus inter pares) e Xi come fautore del “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova Era”.
Come ha scritto Bill Bishop nella sua newsletter Sinocism, «gli altri sei membri del Comitato Permanente del Politburo (Li Keqiang, Li Zhanshu, Wang Yang, Wang Huning, Zhao Leiji, Han Zheng) hanno partecipato tutti alla cerimonia di apertura del seminario di studio, così come il vicepresidente del Pcc Wang Qishan. Il seminario, rivolto ai leader più anziani di ogni provincia e comune della Cina, è stato un incontro cruciale per dare il tono al 20° Congresso Nazionale prima che i leader passassero alla modalità di lavoro estivo e si riunissero a Beidaihe».
Non cambierà niente dunque? A livello di leadership probabilmente no. Ma dentro al Partito è arrivato il tempo – forse – di un rimescolamento di quelle fazioni che già Xi aveva abbondantemente messo in discussione.
QUELLO CHE conterà di più è capire in che modo e se Xi designerà un suo successore e come il “nucleo” controllerà gli organi periferici del Partito (Xi ha già provveduto a un ricambio generazionale ponendo, come sottolineato dal centro di ricerca Macropolo, tecnocrati alla guida di molte istituzioni regionali) e in che modo aggiusterà la sua politica interna (prosperità comune, scontro con le piattaforme, gestione della bolla immobiliare) e quella estera, di cui Taiwan è l’esempio principale; come sottolineato su queste pagine da Lorenzo Lamperti, dal Congresso potrebbe uscire un documento che sancirà la nuova postura di Pechino al riguardo.
Di Simone Pieranni
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.