Sembra che il mondo occidentale si sia svegliato da un lungo sonno. Il panico si è diffuso rapidamente ma non significa che l’economia reale è cambiata improvvisamente. Secondo Michele Geraci, direttore del programma per le politiche economiche cinesi della Business School dell’Università di Nottingham a Ningbo, il crollo di Shanghai allinea il mercato all’economia reale, i valori delle azioni alle preoccupazioni economiche.
Cosa sta succedendo?
Dal disastro ecologico di Tianjin al crollo delle borse, i cittadini cinesi si sentono presi in giro. La stabilità politica finora è stata legata a doppio filo a un andamento economico positivo. Oggi i nervi sono scoperti: il popolo si sente tradito e il periodo di vacche grasse è finito.
Come giudica le reazioni internazionali?
Sembra che il mondo occidentale si sia svegliato da un lungo sonno. Il panico si è diffuso rapidamente ma non significa che l’economia reale è cambiata improvvisamente. Finora i mercati si sono affidati al Pil senza analizzare dati più importanti.
E cosa ci dicono questi dati?
Import ed export sono in calo. La disoccupazione è calcolata solo sui residenti urbani (ovvero su poco più della metà della popolazione) e, fattore ancora più preoccupante, il governo immette liquidità, abbassa i tassi di interesse ma l’inflazione non sale. Fino al mese scorso l’economia rallentava ma le azioni continuavano a salire. Il paradosso è che oggi il mercato sta funzionando come dovrebbe. Il crollo di Shanghai allinea il mercato all’economia reale, i valori delle azioni alle preoccupazioni economiche.
E i 90 milioni di piccoli azionisti?
Questo è il punto politico. Nell’ultimo anno il governo non ha fatto altro che invitare i piccoli risparmiatori ad investire in borsa. È innegabile che chi aveva azioni da vendere ha beneficiato della propaganda governativa. Se si scoprisse che il crollo delle borse è stato in qualche maniera manovrato per trasferire ricchezza dai piccoli investitori a chi aveva “i contatti” giusti le implicazioni politiche sarebbero serissime.
Cosa può fare il governo?
È molto probabile che la Cina si attesterà su una crescita del 2-3%. Paradossalmente questa sarà l’ultima arma in mano al governo. Quando l’economia rallenta il bilanciamento tra investimenti e consumi è più facile. Bisogna trasferire parte dei profitti aziendali ai cittadini per favorire i consumi. Ma perché questo avvenga è necessario che le aziende e tutti i loro amministratori delegati siano d’accordo a rinunciare a parte dei loro profitti per il bene comune: la stabilità economica del paese.
E pensa sia possibile?
In Cina l’economia è pianificata. Anche chi agisce in condizioni di libertà di mercato è soggetto alla spada di Damocle del governo che può permettersi, ad esempio, di vietare la vendita di titoli. Inoltre il governo, nel senso più ampio di Partito, è presente in tutte le banche e le grandi aziende. Per intenderci il dirigente di Lehman Brothers non era alle dipendenze del governo americano, ma il capo di Bank of China è direttamente scelto dal governo cinese.
Possiamo fare un paragone con la crisi del 2008?
No, il sistema cinese è relativamente chiuso. C’è poco debito verso il resto del mondo e si potrebbe stampare moneta senza pesare immediatamente sull’inflazione. Inoltre il debito privato non è alto. Questa è una crisi profonda perché mette in dubbio il modello Cina, ma può essere risolta a tavolino. La sfida per il governo cinese è trovare una convergenza tra i molteplici interessi che dominano politica ed economia. In questo senso i prossimi sei mesi saranno decisivi.