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Sarà l’ultima generazione cinese?

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Sarà l’ultima generazione cinese? Secondo un recente sondaggio comparso su Weixin, su oltre 20.000 persone intervistate (per lo più donne tra i 18 e i 31 anni) ben due terzi ha dichiarato di non volere figli. Cosa frena veramente le coppie cinesi? Uno studio condotto da McKinsey a ottobre e pubblicato a dicembre attesta che circa il 62% della Gen Z cinese è preoccupato per la propria carriera mentre il 56% ambisce a ottenere uno stile di vita migliore. Molto più delle generazioni più anziane. Quando si parla di ostacoli economici, l’istruzione è al primo posto.

Non accadeva dal 1961: lo scorso anno la Cina ha registrato un calo della popolazione complessiva. Vuole dire che per la prima volta dai tempi del grande balzo in avanti, i decessi hanno superato per numero le nascite. Il tasso di natalità nazionale è sceso al minimo storico di 6,77 nascite ogni 1.000 persone – in calo rispetto a 7,52 nel 2021- il valore più basso dal 1949, anno in cui il governo ha cominciato a pubblicare i dati. Sul lungo termine, gli esperti delle Nazioni Unite prevedono che la popolazione cinese – scesa a 1,4118 miliardi dagli 1,4126 miliardi del 2021 – si ridurrà di ben 109 milioni di unità entro il 2050. Oltre il triplo rispetto a quanto previsto nel 2019. Un bel problema per la seconda economia mondiale, che per quarant’anni è cresciuta proprio grazie al suo dividendo demografico.

Cosa sta succedendo? Le motivazioni del crollo sono molteplici e ben note ai decision-maker. E’ dal 2016, primo anno in cui le nascite sono diminuite, che il governo cinese osserva con preoccupazione il trend. C’è persino chi – come il ricercatore della University of Wisconsin-Madison, Fuxian Yi – sostiene che la recessione fosse cominciata già nel 2018. D’altronde, si sa, nella Repubblica popolare le statistiche ufficiali e la loro pubblicazione rispondono spesso a dinamiche politiche.

La Cina sconta innanzitutto decenni di pianificazione familiare. L’introduzione della politica del figlio unico alla fine degli anni ‘70 si stima abbia inibito 400 milioni di nascite, sebbene il computo non tenga conto dei bambini “in più” mai dichiarati dai genitori per paura di incorrere in sanzioni. Ridurre le bocche da sfamare doveva permettere una rapida ripresa dell’economia nazionale dopo i disastri di epoca maoista. Ma nei quarant’anni intercorsi la Cina è cambiata. Soprattutto sono cambiate le priorità dei giovani cinesi. Così alle restrizioni imposte dall’alto si è progressivamente sommata una minore propensione delle nuove generazioni a metter su famiglia. Come altrove, i fattori a incidere spaziano dalle difficoltà economiche ai ritmi di vita più serrati. Fare figli costa e richiede tempo. 

Nel 2016, preso atto del problema, il governo Xi Jinping ha allentato la legge del figlio unico, permettendo alle coppie di avere due bambini. Nel 2021 il limite è stato innalzato a tre figli per famiglia. Ma, salvo un lieve incremento delle nascite nel 2017, le misure non hanno sortito l’effetto sperato. Rompendo un vecchio tabù, il governo ha acconsentito a elargire sussidi economici. Due anni fa Panzhihua, nella provincia del Sichuan, è diventata la prima città cinese a erogare un assegno governativo mensile di 500 yuan (77 dollari) sia per il secondo che per il terzo figlio fino all’età di tre anni. La pratica comincia a interessare anche megalopoli come Shenzhen, diventata solo pochi giorni fa almeno la terza città a promettere un sostegno monetario nell’ultimo mese. 

Lo scorso anno, il Consiglio di Stato ha esortato le autorità locali a privilegiare le famiglie con più bambini nell’assegnazione degli appartamenti di edilizia popolare. Sono inoltre state adottate nuove misure per incoraggiare turni flessibili e la possibilità di lavorare da casa per i dipendenti con figli. In molte località il congedo di maternità è stato prolungato oltre i 98 giorni obbligatori, e in alcuni posti anche i padri hanno diritto ad assentarsi dal lavoro dopo la nascita dei figli. Eppure, nonostante gli aiuti, sono pochi i giovani ad aver cambiato idea. Secondo un recente sondaggio comparso su Weixin, su oltre 20.000 persone intervistate (per lo più donne tra i 18 e i 31 anni) ben due terzi ha dichiarato di non volere figli. 

Cosa frena veramente le coppie cinesi? Uno studio condotto da McKinsey a ottobre e pubblicato a dicembre attesta che circa il 62% della Gen Z cinese è preoccupato per la propria carriera mentre il 56% ambisce a ottenere uno stile di vita migliore. Molto più delle generazioni più anziane.

Quando si parla di ostacoli economici, l’istruzione è al primo posto. Nelle principali città cinesi, crescere un bambino fino alla scuola superiore costa sui 2,5 milioni di yuan (372.000 dollari). Escluso l’esborso per ottenere una casa in prossimità degli istituti migliori. Per cercare di contenere la spesa familiare, nel 2021 Pechino ha strettamente regolamentato il settore del tutoraggio privato – specie l’e-learning – vietando le lezioni nei fine settimana o nei giorni festivi. Ma non è solo una questione economica. Anche le difficoltà organizzative contribuiscono a disincentivare le nascite. Soprattutto tenendo conto che sui nati negli anni ’80 – senza fratelli – grava oggi l’assistenza dei propri genitori. 

Secondo un recente studio del think tank YuWa Population Research, esiste uno “squilibrio strutturale” nella fornitura dei servizi prescolari. Le statistiche mostrano che su 42 milioni di bambini sotto i 3 anni solo il 5,5% circa ha accesso a questo tipo di assistenza, ben sotto alla media OCSE del 35%. 

Ci sono inoltre motivazioni biologiche. Non solo, l’età media si alza: lo scorso anno la popolazione femminile in età riproduttiva (15-49 anni) era diminuita di 4 milioni. La politica del figlio unico (e la predilezione per un erede maschio), tra le tante distorsioni, ha anche provocato un gap di genere che oggi vede 722 milioni uomini “contendersi” 690 milioni di donne. Fattore che contribuisce al progressivo calo dei matrimoni: secondo il portale finanziario Yicai, nel 2021 a dire “sì” sono state appena 11,58 milioni di persone, il numero più basso dal 1985. In un paese in cui le nascite fuori dal sacro vincolo sono ancora malviste, anche la posticipazione delle nozze in età più matura rischia di influire negativamente sul trend demografico. Nel 2020 l’età media di chi si è sposato per la prima volta è salita a 28,7 anni, in aumento rispetto ai 24,9 anni del 2010.

Va detto che la Cina non è certo il primo paese dell’Asia Orientale a sperimentare un calo delle nascite. Giappone e Corea del Sud – che insieme alla Cina guidano la classifica per spesa necessaria a crescere un figlio fino all’età di 18 anni rispetto al Pil pro capite – fronteggiano lo stesso dilemma. Non è un caso siano anche le nazioni che il World Economic Forum classifica più in basso in termini di uguaglianza di genere rispetto a paesi come la Finlandia e la Norvegia, dove i tassi di natalità sono invece in aumento. Nel 2019, in Cina, l’occupazione femminile si è attestata al 43,2%, un aumento sostanziale rispetto al passato. La famiglia o il lavoro? In una società conservatrice e altamente competitiva come quella cinese, per la maggior parte delle ragazze si tratta di una scelta di campo. E per ora prevale la seconda opzione. Ma non tutto è perso. Tra gli analisti c’è chi semplicemente ritiene che i tempi non siano maturi: i sussidi economici sono troppo recenti e il Covid-19 ha complicato i piani: la scorsa estate la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 20%. D’altronde, a Panzhihua, dopo gli incentivi, il numero dei secondi e dei terzi figli è aumentato rispettivamente del 5,58% e 168,4%. 

È troppo presto per azzardare pronostici a lunga scadenza. Va infatti tenuta in considerazione una variabile più strettamente politica, difficile da domare anche con gli aiuti economici. Per la prima volta durante un Congresso del partito, il problema demografico è stato citato da Xi lo scorso ottobre. Non riproducendosi, come chiesto espressamente dal governo, i giovani cinesi sentono di controllare il proprio destino. Per certi versi, astenersi dall’avere figli rappresenta una forma di protesta silenziosa – un po’ come  i “fogli A4” esposti per chiedere la rimozione della politica Zero Covid. Soprattutto da quando la propaganda ufficiale descrive la procreazione non più come un diritto, bensì come un dovere sociale. Un messaggio che traspare nel preambolo della legge per la tutela dei diritti delle donne, dove la maternità viene descritta come funzionale alla “modernizzazione socialista”.

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano]