Prima astensione dal lavoro nella storia di Samsung. Il colosso tecnologico sudcoreano è più di una semplice azienda. Seul preoccupata per la produzione di chip per l’intelligenza artificiale
Uno sciopero in un venerdì di ponte tra una festa nazionale e il fine settimana, per di più realizzato attraverso un uso coordinato delle ferie. Detta così, non sembrerebbe un atto rivoluzionario. E invece, per la Corea del sud, lo è. Quello che è successo due giorni fa è anzi un evento storico, visto che è la prima volta che i lavoratori di Samsung organizzano uno sciopero. Il colosso tecnologico che conta quasi, o probabilmente persino di più, di qualsiasi governo sudcoreano non ha mai tollerato le unioni sindacali. Il suo approccio di vecchia data è di non dialogare con i gruppi organizzati di lavoratori. Nemmeno nel 2014, quando l’azienda è stata denunciata per una serie di suicidi di dipendenti emarginati o vessati per la loro iscrizione al sindacato coreano dei metalmeccanici.
I lavoratori del gigante avevano sin qui calato la testa, nonostante i ritmi di lavoro asfissianti e lo stress psicofisico a cui sono spesso sottoposti. Non più. Già da qualche mese, il Nationwide Samsung Electronics Union, ha cambiato approccio. Il sindacato rappresenta oltre 28 mila dipendenti, quasi un quarto della forza lavoro totale dell’azienda. Soprattutto da aprile, dopo le elezioni legislative in cui la maggioranza conservatrice ha subito una sonora sconfitta, si sono succedute manifestazioni in strada. Intere vie chiuse al traffico, con proteste ordinate e pacifiche fatte di slogan e musica. In più di un’occasione, sono stati infatti coinvolti anche alcuni cantanti della fiorente industria del K-Pop, nel tentativo di sensibilizzare i loro fan e l’opinione pubblica.
Venerdì, lo storico passo dello sciopero. Una scelta quasi rivoluzionaria, in Corea del Sud, dove la cultura confuciana basata sul rispetto dei superiori e degli ordini non viene quasi mai messa in discussione. A maggior ragione in un’azienda potente come Samsung. Proprio quella “cultura confuciana” è stata spesso indicata da Morris Chang, leggendario fondatore della taiwanese Tsmc, come il vero segreto del successo dei colossi asiatici dei microchip. Ma una parte dei dipendenti sudcoreani di Samsung ha deciso che questo non è più possibile accettare le attuali condizioni di lavoro, soprattutto il mancato dialogo con chi fa parte del sindacato.
Venerdì, alcune centinaia di lavoratori si sono radunati di fronte al quartier generale di Seul. Sullo sfondo, un autobus drappeggiato con uno striscione con lo slogan della protesta: “Oppressione del lavoro, oppressione del sindacato, non lo sopporteremo più”. Altri hanno semplicemente disertato il luogo di lavoro.
Al centro della contesa questioni contrattuali. Il sindacato lamenta il fallimento delle trattative sulle retribuzioni. L’aumento del 5,1% viene ritenuto basso, considerando anche l’inflazione. Vengono poi chiesti più giorni di ferie, ma soprattutto si polemizza sui bonus. Fino a qualche anno fa, i dipendenti ricevevano premi fino al 30% dello stipendio. Ma dal 2023 quasi la totalità dei bonus è stata tagliata. “È come se avessimo subito un taglio di un terzo del salario”, sostiene il sindacato.
Lo sciopero arriva mentre Samsung lotta per riconquistare il suo vantaggio nel settore della produzione di chip di memoria, un componente critico per quei sistemi avanzati di intelligenza artificiale che stanno ridisegnando le rivalità di lunga data tra le aziende tecnologiche globali. Samsung si è affrettata a garantire che lo sciopero non avrà impatti sulla produzione, ma il futuro è tutto da scrivere. Il sindacato ha chiarito che si tratta solo dell’inizio, a meno che l’azienda non apra una linea di dialogo. “Stavolta il nostro obiettivo non era quello di influenzare la linea di produzione, ma di inviare un messaggio alla direzione che siamo organizzati e siamo convinti di quello che vogliamo”, ha dichiarato ai media locali Lee Hyun-kuk, vice presidente del sindacato.
Dietro il muro dei no comment, è probabile che ci sia qualche preoccupazione per l’azienda, visto che l’agitazione ha coinvolto diversi dipendenti impiegati nella divisione che si occupa della produzione di chip di memoria. Un ipotetico calo della produzione, sin qui evitato, avrebbe un impatto sulle catene di approvvigionamento globali. Samsung è tra i leader mondiali della produzione di microchip. Ed è l’unica azienda al mondo, insieme a Tsmc, a essere in grado di fabbricare quelli di dimensioni pari a 3 nanometri. Vale a dire quelli più avanzati. L’azienda prevede di triplicare la produzione di chip di memoria nel 2024 e di raddoppiarla nuovamente nel 2025. Già annunciato poi un investimento da circa 200 miliardi di dollari entro il 2042 per un nuovo complesso industriale di semiconduttori a sud di Seul, che sempre più spesso utilizza Samsung come una sorta di ambasciatore diplomatico. Non è un mistero che il presidente Yoon Suk-yeol abbia ricambiato il rafforzamento dell’alleanza militare concesso dagli Usa con il progetto di una fabbrica di chip da 40 miliardi che Samsung sta costruendo in Texas. E durante la sua visita in Corea del sud, Joe Biden è stato accolto da Yoon proprio in uno stabilimento Samsung.
Non sorprende dunque che la lotta sindacale sia seguita con apprensione anche dal governo. Samsung (che in coreano significa “tre stelle”) è d’altronde molto più di un’azienda. È per distacco il più grande conglomerato industriale del paese. È il capostipite del sistema dei chaebol, i colossi a guida familiare con una presa tentacolare sui gangli del potere sudcoreano, sia economico che politico. Lee Jae-yong, ultimo rampollo della famiglia che ha fondato Samsung e uomo più ricco del paese, è stato coinvolto in uno scandalo di corruzione che ha portato all’impeachment dell’ex presidente Park Geun-hye. A febbraio, Lee è stato assolto da ulteriori accuse relative a una fusione che gli ha permesso di assicurarsi il controllo dell’azienda.
Il suo nome, un tempo solo sussurrato, viene ora tirato in causa nelle richieste del sindacato. Come hanno chiarito gli organizzatori, lo sciopero di venerdì resta venerdì ma è stato solo il primo passo.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.