S-21 – Nella prigione di Pol Pot

In by Simone

Il 17 aprile 1975 il movimento comunista dei Khmer Rossi entrò a Phnom Penh ponendo fine ad una guerra sanguinosa iniziata alla fine degli anni Sessanta e, al tempo stesso, inaugurando quello che in Cambogia è ancora oggi chiamato Samai Pol Pot, l’era di Pol Pot. S-21 (edizioni La Ponga) è un romanzo storico che porta il lettore in una struttura detentiva istituita dal regime, una prigione da cui pochi sono tornati, seppur segnati nel corpo e nello spirito, vivi. Alla fine di aprile del 1975 nel nostro villaggio sono arrivati i Khmer Rossi. Erano giorni che la radio gracchiava notizie contrastanti e, come sempre accade, anche nel villaggio circolavano voci più disparate. Di sicuro sapevamo che Phnom Penh, la capitale, era caduta il 17 aprile e Lon Nol era fuggito con tutta la sua famiglia. Tutti odiavamo Lon Nol: nel 1970 aveva spodestato con un colpo di stato appoggiato dagli americani, il nostro amato re Sihanouk mentre era in Francia per curarsi dalle fatiche accumulate nel governare tutti i khmer. Non so dove sia la Francia, penso molto lontano, forse una regione dell’America. I francesi avevano colonizzato la Cambogia, ma Sihanouk era riuscito a sconfiggerli e cacciarli dall’Indocina. Così la nostra Cambogia era tornata ad essere libera. Per la verità noi non avevamo notato grandi cambiamenti: anziché dare il riso a funzionari cambogiani che a loro volta lo trasferivano ai francesi, lo consegnavamo sempre agli stessi funzionari che però lo davano ad altri cambogiani. Ma tutti dicevano che ora eravamo finalmente liberi.

Poi però sono tornati i farang. Non si facevano più chiamare francesi, ma americani. A me sembravano uguali; alti, alcuni con la pelle bianca come se si fossero cosparsi di thanaka , ma altri erano neri come la terra dei monti Cardamoni. Molti avevano gli occhi chiari, alcuni i capelli biondi. Tutti avevano un naso enorme e puzzavano. Ahh, come puzzavano! Sentivamo il loro odore ancora prima di vederli. Parlavano una lingua che nessuno di noi capiva e quando venivano nel villaggio dovevano sempre farsi accompagnare da un khmer che traduceva ciò che dicevano. Con i francesi, invece, era diverso: molti capivano la loro lingua perché la si insegnava nelle scuole. Pheakdei, ad esempio, parlava spesso francese e ci traduceva ciò che la radio trasmetteva.

Un giorno, all’inizio del 1972, arrivarono nel villaggio alcuni uomini armati e vestiti di nero. Erano gentilissimi, e ci portarono riso perché il raccolto era stato insufficiente e gran parte di esso lo avevamo dovuto consegnare agli emissari del governo. Dicevano di essere Khmer Rossi. Alla radio avevamo sentito dire che erano crudeli, senza pietà, ammazzavano per il gusto di uccidere e uccidevano specialmente i ricchi, la gente istruita e i capivillaggio. Ma a noi non fecero nulla. All’inizio eravamo impauriti. Li guardavamo entrare nel villaggio in fila indiana sbirciando dalle nostre capanne senza però uscire. Poi, piano piano, abbiamo preso confidenza e alla fine scherzavamo con loro, cantavamo, ballavamo e mangiavamo insieme. Del resto alla radio, Sihanouk stesso aveva detto che ora i Khmer Rossi erano nostri amici e ci aveva invitati a dar loro protezione e collaborazione. Alcuni dei nostri ragazzi partirono con loro per combattere l’esercito di Lon Nol.

Poi, nel 1973 tutto cambiò: i Khmer Rossi si fecero più insistenti nel richiedere cibo. I vecchi Khmer Rossi che avevano cominciato a visitarci l’anno prima non li vedevamo più. Al loro posto venivano ragazzini di quattordici-sedici anni, prepotenti, senza sorriso, emaciati e crudeli. Le difficoltà della vita li avevano resi insensibili ad ogni pietà. Odiavano i monaci, ma non osavano ancora toccarli. Entravano nelle nostre case senza essere invitati, rovistavano tutto per cercare cibarie e armi eventualmente nascoste. Un paio di volte ci presero anche i nostri bufali e le mucche. Pochi mesi dopo iniziarono a reclutare i più giovani. Non potevamo rifiutare. Anche Phirun e Nhean, i miei due figli maggiori di diciassette e tredici anni, vennero costretti a seguirli nella foresta. E quando, verso la metà del 1974, i combattimenti si fecero sempre più vicini, cominciarono a venire anche i soldati dell’esercito di Phnom Penh. Non erano diversi dai Khmer Rossi, anzi, per certi versi erano peggiori perché rubavano per il gusto di rubare e stupravano le nostre donne, quando, invece, i Khmer Rossi non le toccavano mai. Il nostro villaggio, essendo al confine tra le aree controllate dal governo e quelle controllate dalla guerriglia, era continuamente conteso, ma verso il mese di febbraio del 1975 i soldati governativi cominciarono a ritirarsi. Due mesi più tardi la guerra era finita.

Pensavamo che con la pace avremmo riabbracciato di nuovo i nostri figli e avremmo ricominciato a coltivare i nostri campi e vivere felici come un tempo. Non fu così.

Tutta la popolazione venne divisa tra neak thmey, “popolo nuovo” e neak chas, “popolo vecchio”: noi, in quanto contadini, facevamo parte del “popolo vecchio”, tutti gli altri, coloro cioè che avevano vissuto negli agi e nella decadenza della società capitalista cittadina, rientravano nella categoria del “popolo nuovo”. Costoro dovevano essere rieducati per poter vivere nella nuova Cambogia e noi dovevamo essere il loro esempio e i loro maestri.
Nel villaggio vennero portate nuove persone provenienti dalle città.

Ci dissero che Battambang era stata svuotata da tutti gli abitanti e dislocati nelle campagne per contribuire a coltivare le risaie. Alcuni di noi vennero divisi in chalat, gruppi di lavoro mobile che potevano essere trasferiti in qualunque zona della provincia per bonificare nuove aree e coltivare riso. Erano, secondo i Khmer Rossi, le avanguardie della rivoluzione.

Noi, invece, fummo raggruppati in krom provas dai, squadre di mutuo soccorso, piccoli gruppi agricoli composti da dieci o quindici famiglie.
Molti neak thmey erano intellettuali, maestri, impiegati pubblici o piccoli artigiani che avevano sempre abitato in città. Non avevano mai tenuto in mano una zappa e non sapevano neppure come fare a camminare nei campi irrigati senza inciampare continuamente nel fango. Erano come dei bambini a cui dovevamo insegnare tutto. Dovevamo anche dar loro una parte delle nostre già scarse razioni e questo scontentò molti contadini. I Khmer Rossi dividevano tutto in parti uguali, anche se il rendimento dei neak thmey era nettamente inferiore al nostro.

Dopo pochi mesi, i krom provas dai vennero fusi in sahakor kumrit teap, cooperative di basso livello che raggruppavano diversi villaggi in comuni. Ci dissero che i cinesi, nostri fratelli, avevano già sperimentato queste sahakor e che noi dovevamo raggiungere il loro livello e superarlo.
Non sapevamo chi fossero i nostri nuovi governanti: non avevano volto, non avevano nome se non quello dell’Angkar, l’Organizzazione. Era all’Angkar che dovevamo obbedienza, era all’Angkar che dovevamo gratitudine, era all’Angkar che dovevamo la futura felicità. Ma prima avremmo dovuto contribuire a costruire una nuova nazione che rispecchiasse i fasti dell’antico impero di Angkor. La Cambogia sarebbe tornata ad essere quella grande nazione rispettata e temuta da tutti, persino dai vietnamiti. E nessuno si poteva tirare indietro nel prestare il proprio apporto alla costruzione della nuova società.

E per dare un significato anche simbolico alla nuova era in cui ci stavamo avviando, i Khmer Rossi ci dissero che il 1975 era il nuovo Anno Zero. La storia si sarebbe ricostruita da questo momento.

I Khmer Rossi cominciarono a selezionare le persone del villaggio: chi era povero si trovò in posizione privilegiata, mentre chi era ricco si ritrovò improvvisamente depauperato di tutto. Noi contadini amavamo veramente i Khmer Rossi. Finalmente in Cambogia eravamo tutti uguali: non c’erano più ricchi e poveri, non eravamo solo noi a dover lavorare per mantenere i ricchi della città, ma tutti contribuivano alla produzione. La rivoluzione aveva finalmente portato giustizia: prima erano i neak thmey ad essere ricchi e prosperi, a sfruttare il nostro lavoro mantenendoci poveri e ignoranti, ora era il turno dei neak chas!

La moneta venne abolita ed i riel non avevano più alcun senso se non quello di alimentare il fuoco. Dovemmo ridare valore alle cose per la loro utilità: un orecchino, un orologio, una penna potevano valere trenta chili di riso o potevano far ottenere un permesso per andare nel villaggio vicino a trovare i parenti. O potevano salvare una vita.

Assieme al denaro vennero abolite anche le parole relative alla famiglia. Tra di noi ci si doveva chiamare mit, compagno, bong khang, fratello, ta, nonno o anche yiey, nonna. Il sompeah, il saluto con le mani giunte, era vietato perché appartenente alla vecchia società e segno di sottomissione. Nessuno più era sottomesso all’altro: tutti eravamo uguali e liberi al cospetto dell’Angkar.

Ora che la rivoluzione aveva riportato la pace nel paese, noi eravamo chiamati a ricostruirlo, ma per farlo occorreva che tutti facessero sacrifici.
Pheakdei, in quanto persona più ricca del villaggio, venne arrestato assieme a tutta la sua famiglia e i suoi terreni vennero confiscati, così come i nostri. Nessuno poteva possedere più di una pentola, un piatto e un cucchiaio. Tutto il resto veniva messo in comune.

Pheakdei venne processato davanti a tutto il villaggio. Nessuno osò prendere le sue difese, neppure io. Assieme a lui vennero portate altre persone. Alcune le conoscevamo bene: erano strozzini, usurai, padroni di risaie un tempo molto potenti. Riconoscemmo anche il capo del distretto. I Khmer Rossi stavano davvero facendo piazza pulita di tutto il regime precedente. La maggior parte delle persone portate al processo erano odiate da quasi tutti noi: sotto il governo di Lon Nol erano potentissimi e avevano mandato in prigione numerosi contadini solo per il fatto di non poter pagare le tasse o di non aver assecondato i loro voleri. Si erano arricchiti alle spalle altrui, distruggendo famiglie e uccidendo ogni persona che intralciava il loro cammino. Anche io, quella sera, mi alzai e puntai il dito accusatore su di loro. Lo feci con piacere. Ma non ebbi il coraggio di difendere Pheakdei.

Fu Rithisak, il figlio di una famiglia tra le più povere, l’unico che prese le sue difese. Rithisak era partito con i Khmer Rossi nel 1973 e da allora non l’avevamo più visto. Tornò dopo la Liberazione, salutato con sollievo da tutti noi. Avevamo qualcuno che ci conosceva e che avrebbe potuto mediare con i nuovi governanti. Nonostante la famiglia di Rithisak fosse stata un tempo maltrattata ingiustamente da Pheakdei, che riuscì con l’inganno ad appropriarsi delle loro risaie, lui convinse i Khmer Rossi a ridurre l’accusa e a salvarlo. Gli altri prigionieri, invece, vennero mandati a Battambang. Ma prima vennero costretti a confessare i loro crimini. Il capo del distretto venne legato ai polsi e issato su una gogna fino a fargli slogare le braccia. Il principale proprietario di terreni, invece, venne portato davanti ad una giara colma di acqua e immerso sino a farlo quasi annegare. Noi guardavamo con cinica soddisfazione: finalmente i Khmer Rossi punivano chi ci aveva fatto soffrire. Non importa quanta sofferenza infliggevano a loro volta.

*E’ giornalista che viaggia con una macchina fotografica a tracolla. Accanto all’attenzione per le nazioni di cultura buddista rette da governi socialisti, si interessa di servizi sociali della Chiesa cattolica nei Paesi asiatici.