Il ricordo e la metabolizzazione collettiva della Rivoluzione culturale in Cina si scontra con la censura di stato, maniacale nella rimozione di testimonianze e documenti che possano incoraggiare una lettura critica del passato. Ma a volte si aprono spazi di dibattito, permessi e indirizzati dall’alto, che partendo dalla Rete squarciano la vulgata ufficiale del Partito. Svelando periodi spesso ignoti alla maggior parte della generazione post anni ’80.Il 1 giugno 2012, una foto in bianco e nero diventa trending topic su Weibo, il Twitter cinese. Due coppie fissano con sguardo vitreo l’obiettivo: sopra ci sono il noto critico d’arte Fu Lei e sua moglie, sotto il vicedirettore dell’università di Pechino, rinomato studioso di marxismo, Jian Bozan e consorte. L’immagine è accompagnata da una breve annotazione firmata dall”utente Shi Dan Shi Yan: «Di quanti suicidi durante la Rivoluzione culturale, alcuni erano amanti decisi a seguire il percorso verso la morte insieme, ennesima prova dell’immensa sofferenza e crudeltà dell’epoca». Il post, che prosegue con un elenco di illustri coniugi suicidi, nel giro di un paio di giorni è stato condiviso 4.696 volte ricevendo 1.131 commenti in un raro laissez-faire della censura online nei confronti di uno dei capitoli più bui della storia cinese.
Raramente il «Grande Fratello» cinese permette all’opinione pubblica di toccare questioni che rischiano di compromettere l’operato del Partito agli occhi dei posteri. Altrettanto raramente capita che i cinesi, alle prese con una quotidianità scandita da inquinamento, scandali alimentari e licenziamenti si interessino di quanto avvenuto ormai cinquant’anni fa. Cionondimeno, da qualche tempo la Rivoluzione Culturale, rientra – insieme alla Grande carestia fine anni ’50 – tra quella ristretta lista di eventi che, seppur rubricati come «sensibili», risultano ormai parzialmente sdoganati. Lo scorrere del tempo ha creato quel distacco temporale sufficiente a squarciare il velo di omertà che invece avviluppa piazza Tian’anmen, una ferita ancora troppo fresca per permettere un’analisi lucida. Ma sia bene inteso, il dibattito – quando permesso – segue perlopiù traiettorie definite dall’alto. Talvolta asseconda a sua insaputa l’agenda politica del momento. È così che anche una foto patinata può rappresentare ben più di una semplice provocazione della rete se letta alla luce del trambusto politico in corso.
Pochi mesi prima che le coppie suicide rimbalzassero sui social, nel marzo 2012, la Rivoluzione culturale era stata chiamata in causa dall’allora premier uscente Wen Jiabao, in riferimento al caso eclatante dell’ex segretario del Partito di Chongqing Bo Xilai, piuttosto popolare nella megalopoli del sud-ovest per via di un revival maoista a base di «canzoni rosse», ma finito al centro di uno dei peggiori scandali della storia cinese. O forse, semplicemente fatto fuori proprio per via di quella sua popolarità invisa ai leader in pectore alla vigilia del rimpasto al vertice sancito dal Diciottesimo Congresso del Partito il novembre successivo. In quel contesto, la scelta di rivangare gli orrori del decennio delle guardie rosse doveva servire a disintegrare l’immagine del «novello Mao» e a rilanciare non ben definite «riforme politiche» per scongiurare un altro periodo di caos e violenza.
Il clima politico era caotico al punto tale da permettere al magazine Southern People Weekly di uscire con una prima pagina sulla Grande carestia, quando a morire per la fallimentare implementazione del Grande balzo in avanti furono tra i 17 e i 45 milioni di persone. Un periodo che la storiografia ufficiale ricorda sbrigativamente come «i tre anni di difficoltà». Punto.
Negli ultimi anni, la pazienza dei gendarmi della rete verso la memoria storica della blogosfera si è rivelata altalenante. Periodi di relativa tolleranza hanno lasciato il posto a fasi di chiusura ermetica. Mentre nel febbraio 2013 il caso del signor Qiu, l’ottuagenario del Zhejiang arrestato dopo trent’anni per un omicidio perpetuato all’epoca per ordine delle guardie rosse, infiammava l’internet cinese, circa un anno dopo la Rivoluzione culturale risultava tra i termini bloccati su Sina Weibo quando associata al nome di Song Binbin, la figlia del generale Song Renqiong, uscita allo scoperto dopo oltre tre decadi per chiedere pubblicamente scusa per aver contribuito all’uccisione del vicepreside della sua scuola di allora. La mano dei censori «po’ esse piuma e po’ esse fero», ma quando debba essere una o l’altra lo sanno solo nelle segrete stanze di Zhongnanhai, il Cremlino cinese.
Come emerge da uno studio dell’Università del Massachusetts, in realtà il web sembra seguire piuttosto pedissequamente la vulgata ufficiale data in pasto all’opinione pubblica dalla leadership. Ovvero quella cucita sulla base della «Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro partito, dalla fondazione della Repubblica popolare cinese», adottata dalla sesta sessione plenaria dell’Undicesimo Comitato Centrale del Partito comunista cinese del 27 giugno 1981. Prima ammissione pubblica degli esiti nefasti della Rivoluzione culturale – in quanto portatrice di «disordine e catastrofi al Partito, allo Stato e al popolo» – seppure cristallizzata in una formula capace di salvare in extremis l’eredità ideologica del Partito, sminuendo gli errori di Mao rispetto al determinante contributo devoluto dal Grande Timoniere alla rivoluzione comunista; affibbiando gran parte della responsabilità alla scellerata Banda dei Quattro, messa a processo proprio nel 1981.
Questa è la versione ripresa da libri scolastici, serie televisive e media statali; praticamente l’unica in grado di raggiungere la generazione dei balinghou, i nati negli anni ’80 che costituiscono la fetta più consistente del popolo della rete – secondo il «Statistical Report on Internet Development in China» nel 2012 il 30 per cento dell’internet cinese era composto da studenti di cui il 64 per cento under 35. Nella narrazione edulcorata dalla propaganda di regime, la Rivoluzione Culturale viene ritratta come un generico «periodo di caos», talvolta agitato come un fantasma in riferimento all’eventuale assunzione di un sistema multipartitico di stampo occidentale, vero anatema di Pechino. («Multi-party China ‘Will Bring Chaos’» diceva Wen Jiabao). Ma raramente viene lasciato spazio al racconto diretto delle sofferenze patite dai superstiti.
«Le nuove generazioni credono soltanto alle dichiarazioni ufficiali: alcuni pensano che contraddire la linea ufficiale sia perfino un’eresia», commentava su Foreign Policy lo scrittore Murong Xuecun all’indomani di un dibattito online in cui la Grande carestia veniva bollata come falso storico sulla base di prove strampalate. «Il popolo cinese ha vissuto in un sistema oscurantista che è stato progettato per rendere le persone stupide, favorire l’odio reciproco e degradare la loro capacità di pensare in modo critico e di capire il mondo», si lamentava lo scrittore. E quanto sia efficace la strategia censorea di Pechino lo dimostra il vuoto creato intorno al massacro dell”89; un evento che – secondo quanto riporta Louisa Lim in The People’s Republic of Amnesia: Tiananmen Revisited – viene associato alla celeberrima foto del «rivoltoso sconosciuto» soltanto da 15 universitari di Pechino su 100.
«[I giovani] non si prendono il disturbo di controllare i dettagli», continua Murong, «quando il governo dichiara che l’artista Ai Weiwei è una brutta persona, odiano Ai Weiwei. Quando il governo dice che gli Stati Uniti sono il nemico, odiano gli Stati Uniti. E quando lo scorso settembre il governo ha dichiarato che il Giappone stava usurpando la sovranità cinese, si sono riversati per le strade e hanno devastato le automobili giapponesi». Il riferimento è alla follia distruttrice seguita all’escalation tra Tokyo e Pechino sulle isole contese Diaoyu/Sekaku, quando nell’agosto 2012 proteste di piazza anti-nipponiche – inizialmente incoraggiate da Pechino – sfociarono in violenze incontrollate. Tra una bandiera giapponese in fiamme e una macchina sfasciata, nel mezzo della folla inferocita non mancò nemmeno di riapparire qualche ritratto di Mao in segno di critica verso la leadership allora al potere, considerata troppo permissiva in politica estera; il nazionalismo è forse uno dei «Frankenstein» meglio riusciti del regime cinese.
All’epoca dei fatti, blogger e commentatori internazionali paragonarono i disordini ad una «nuova Rivoluzione culturale», a testimoniare come il decennio 1966-1976 sia ormai diventato semplicisticamente sinonimo di caos e orrore. Lo stesso attivismo 2.0 viene spesso associato al lavoro di vigilanza delle guardie rosse più che a un sano sistema di check and balance. Specie quando prende pieghe controverse come nel caso del «motore di ricerca di carne umana», un processo di screening «manuale» di dati personali attraverso la collaborazione in rete che negli scorsi anni è sfociato non di rado in una forma di «cyberlinciaggio» terribilmente simile alla pubblica gogna cui venivano sottoposti i presunti controrivoluzionari ai tempi del Grande Timoniere.
E se in questo adattamento in chiave moderna i netizen sono le nuove guardie rosse 2.0, i tweet pubblicati su Weibo costituiscono la versione digitale dei dazibao, i poster affissi sui muri con cui la pancia del paese soleva criticare le istituzioni. Con il rischio, s’intende, che in questo gioco di continui rimandi si finisca per assecondare la strategia delle autorità, riducendo uno dei capitoli più controversi della storia nazionale ad un’etichetta da appiccicare con la colla per fini di propaganda o di mera narrazione giornalistica.
Cosa ne sarà della vera Rivoluzione culturale, quella vissuta e conservata nel ricordo di un numero sempre più esiguo di cinesi? Zhang Lijia, scrittrice, giornalista e autrice di Il socialismo è grande!: memorie di un’operaia della Nuova Cina, lancia un messaggio di speranza.
«In Cina ogni parte della storia che mette in cattiva luce il Partito comunista, come la Rivoluzione culturale, non viene raccontata in maniera appropriata. Molti giovani cinesi sanno molto poco del loro paese. È una vera tragedia», ci dice Zhang, «eppure da qualche tempo stiamo assistendo ad un’insolita propensione al dibattito sia un online che offline. Questo non soltanto per via di un accesso più facilitato a internet. La Cina è sempre più aperta al mondo. I cinesi di estrazione più elevata viaggiano, hanno amici stranieri, vanno a studiare all’estero, leggono libri in inglese. Alcuni aggirano la censura con i vpn. Mi è capitato di ricevere diversi articoli e storie sulla Rivoluzione culturale via WeChat. Molti sono stati eliminati nel giro di pochi istanti. Ma nell’era di internet è praticamente impossibile bloccare la circolazione delle informazioni, e alla stessa velocità con la quale spariscono rispuntano come nulla».
Alla facciaccia del «Grande Fratello».
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