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Risiko sino-francese nel Pacifico

In Asia Orientale, Relazioni Internazionali by Redazione

Risiko nel Pacifico: dopo aver corteggiato Kiribati e le Isole Salomone la Cina parrebbe spostare lo sguardo dai micro-Stati già esistenti sempre più verso i territori non ancora indipendenti. Arcipelaghi dove Pechino fornisce evidenti sostegni politici ed economici ai movimenti di liberazione ancora vivi e vegeti. Tra questi rientra proprio la Nuova Caledonia francese

Nel mese di dicembre, il cacciatorpediniere lanciamissili Yinchuan è stato visto navigare in solitario vicino alla zona economica esclusiva della Nuova Caledonia francese, circa 1.500 chilometri a est dell’Australia. Il passaggio, avvenuto pochi giorni dopo il transito di un’altra nave da guerra cinese vicino alla Polinesia, rappresenta un evento senza precedenti: in passato operazioni simili avevano sempre coinvolto contemporaneamente imbarcazioni di sostegno per i rifornimenti di carburante, acqua dolce e altre provviste necessarie. Una possibile spiegazione dell’assenza è che lo Yinchuan stavolta punti invece a fare scalo nelle isole del Pacifico meridionale, e caricare scorte nei Paesi rivieraschi dove Pechino negli ultimi anni ha rafforzato in modo significativo i suoi legami economici e diplomatici.

Dopo aver corteggiato Kiribati e le Isole Salomone la Cina parrebbe spostare lo sguardo dai micro-Stati già esistenti sempre più verso i territori non ancora indipendenti. Arcipelaghi dove Pechino fornisce evidenti sostegni politici ed economici ai movimenti di liberazione ancora vivi e vegeti. Tra questi rientra proprio la Nuova Caledonia francese, in ordine alla quale Parigi, dopo ben tre referendum locali consecutivi (2018, 2020 e 2021, i quali dovrebbero aver chiuso la questione dell’appartenenza alla Francia), sta avendo un atteggiamento ondivago che potrebbe costare la sua strategia nell’Indo-Pacifico. Fra l’altro, l’indebolimento è piuttosto evidente dopo lo schiaffo dell’annullamento del contratto per la costruzione di sommergibili nucleari da vendere all’Australia in seguito all’istituzione dell’AUKUS, il partenariato strategico-militare tra Londra, Washington e Canberra che prevede la condivisione di tecnologie di difesa navali all’Australia

L’Ue, dal canto suo, ancora non ha capito, nell’insipienza che la contraddistingue, che essere buttata fuori dall’area può rappresentare un errore esiziale per dimostrare le sue ambizioni di grande potenza. Perché, se è vero che la Francia è uscita acciaccata dalla vicenda dei sommergibili come conseguenza delle molte perplessità dell’Australia che Parigi possa continuare a svolgere un ruolo stabilizzatore dell’area (regalando a Pechino una bella vetrina di serietà ed affidabilità agli occhi dei capi indipendentisti), sta d’altro canto negoziando con i movimenti locali una forma di possibile indipendenza con contestuale associazione/partenariato.

Ciò costituirebbe una grande novità istituzionale per tutti i Paesi europei, lanciando fra l’altro un messaggio di attenzione politica ed economica alle esigenze locali, al contrario della Cina che agisce in Xinjiang e in Tibet con atteggiamento – definito da molti – “colonialista”. Prendiamo l’esempio della Nuova Caledonia: si trattava, già negli anni ’60, di un territorio relativamente prospero ma con un grande sbilanciamento delle risorse e dei redditi fra bianchi e indigeni. Fin qui, niente di nuovo. La maggiore penetrazione delle idee comuniste dopo il 1968 francese, grazie ad una discreta scolarità e ad una élite locale indigena che aveva frequentato l’università in Francia, permise una maggiore sensibilità per le idee marxiste-maoiste, in buona misura tuttora esistenti nelle frange estreme dell’indipendentismo.

Certo, Xi Jinping è comunista come Elon Musk. Ma la dirigenza del governo autonomo locale (in mano agli indipendentisti) manifesta tuttora un certo tropismo innato verso la Cina. Pechino gode in qualche misura di una rendita di posizione, tanto più che il dramma coloniale oggi non è più dato dal fatto che una esigua minoranza ha tutte le risorse, bensì dal fatto che la popolazione originaria (i Kanaki) è una minoranza di tutti gli abitanti dell’arcipelago. Da qui il panico del gruppo dirigente autoctono per il timore che questa situazione non potrà mai evolvere per portare, un giorno, all’indipendenza. Il problema è tutto qui: la Nuova Caledonia è politicamente una pagina vergine tutta da scrivere a proprio piacimento. La situazione ibrida che si è venuta a creare – con le autorità locali che hanno il potere di legiferare letteralmente su tutto, altro che statuto altoatesino – infatti consente la gestione anche dello sfruttamento minerario, dominato dal nichel, di cui l’isola custodisce le seconde riserve del mondo dopo il Canada.

Con le promesse mirabolanti che Pechino fa, e con la particolare sensibilità ingenua dei Kanaki, questi territori sono ancora più facili da condizionare rispetto a micro-Stati che già sono legati all’Australia o agli Stati Uniti (la lista è lunga). L’esempio di Timor è lampante. Pechino sfrutta la strategia avviata fin dal 1986, quando il capo di stato maggiore della marina cinese suggerì di superare la vecchia concezione di presidiare la “prima” linea di difesa costiera allo scopo di proiettare a cerchi concentrici il raggio d’azione della capacità cinese di intervento (difensivo ed offensivo). Nel caso in questione il “subentro” eventuale della Cina spezzerebbe geopoliticamente il corridoio che va dall’Australia agli Stati Uniti, aperto da poco con l’istituzione dell’AUKUS.

In un certo senso, il modello di intervento cinese resta identico a quello che si vede ad esempio in Africa. Ma nei territori non indipendenti del Pacifico le condizionalità e gli sbandamenti dei Paesi dai quali dipendono questi arcipelaghi rendono ancora più pericoloso il coinvolgimento cinese, addirittura invocato dalle frange più dure dei partiti locali indipendentisti. Per non parlare del fatto che  – molti lo dimenticano – fra alcuni Paesi della sponda orientale ed occidentale del Pacifico esiste l’accordo commerciale chiamato Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP). Un trattato che non si capisce perché dovrebbe piacere alla Cina dal momento che, fra l’altro, impone di condividere con le controparti alcune informazioni sulle società appartenenti al settore pubblico, oltre alle classiche disposizioni sulla proprietà intellettuale. Mettere una “zeppa” in tutto il meccanismo di statuti politici autonomi, accordi di difesa e trattati vari consentirebbe senz’altro a Pechino di rovesciare il tavolo.

Di Fabrizio Franciosi*

Italo-francese, è esperto di relazioni internazionali dell’Asia Orientale e dell’Oceano Pacifico. Ha scritto “Macao 1974-1979: ombre cinesi sulla sovranità portoghese”.