Nel bel mezzo del caso Google e delle controversie sino americane, riecco il caso Rio Tinto, la spy story che caratterizzò la scorsa estate cinese.
E’ iniziato ieri a Shanghai il processo per quattro imputati, tra i quali l’australiano di origine cinese Stern Hu e tre suoi collaboratori cinesi. I manager della Rio Tinto furono arrestati nel luglio 2009 con l’accusa di spionaggio e corruzione. Poco prima era saltato un accordo tra la Rio Tinto, impresa anglo australiana specializzata nell’estrazione mineraria, e la la cinese Aluminium Corporation.
La Rio Tinto scelse come partner la britannica Bhp Billione. Per molti osservatori internazionali l’accusa da parte della giustizia cinese, si inseriva nel contesto delle trattative fallite. Non a caso il processo è stato diviso in un due tronconi: quello iniziato ieri, con l’accusa per corruzione e per pratiche commerciali scorrette. Un altro inizierà a breve, a porte chiuse, e riguarderà l’accusa di spionaggio. Ieri all’uscita dall’udienza, ammessi solo alcuni giornalisti cinesi, l’avvocato degli imputati, ha dichiarato l’ammissione di colpa dei manager, pur non confermando le cifre che i quattro in carcere avrebbero intascato secondo la giustizia cinese. Rischiano dieci anni.
Si tratta di un caso controverso, che ha destato non poca preoccupazione nella comunità straniera. Del resto il clima in questi giorni è effervescente: la vicenda Google ha armato la stampa locale – oggi si parlava di imperialismo yankee su alcuni editoriali dei quotidiani cinesi – che non ha esitato a definire gli Stati Uniti come «i grandi perdenti» dell’intera vicenda. E dagli Usa sono rimbalzati i sondaggi della Camera di Commercio statunitense secondo i quali il 36% degli imprenditori americani non si sentirebbe benvenuto in Cina. Le cause: inconsistente regolamentazione e giustizia in mano all’arbitrarietà del partito comunista.
La decisione di Google di lasciare la Cina getterà altra benzina sul fuoco in un confronto che sembra però sempre più mediatico che reale. Non a caso Tom Albanese, presidente esecutivo del gruppo australiano della Rio Tinto, a Pechino per un convegno, ha affermato che la Rio «intende continuare a lavorare» con i suoi partner cinesi, come ha confermato la chiusura di un contratto pochi giorni fa tra la Rio Tinto e la Chinalco per un progetto africano.
All’epoca degli arresti, dall’Australia giunsero critiche unanime di condanna nei confronti della Cina. Un’opinione diversa venne espressa da crikey.com.au, un sito internet australiano portato avanti da giornalisti indipendenti in cui si scrisse che Stern Hu, uno degli imputati, «è un danno collaterale nella battaglia tra una corporation senza regole e un governo dispotico». Nell’articolo infatti non venivano lesinate critiche alla storia della Rio Tinto, idolatrata dai media locali, ma recentemente bollata di «condotta enormemente immorale» dal ministero delle finanze norvegese.
La Rio Tinto infatti, secondo Crickey, ha una sua storia, fatta di grandi collaborazioni con regimi dispotici, che risalgono ad anni non troppo remoti. Ad esempio con la Spagna franchista. Grazie all’aiuto della Rio Tinto in Andalusia, nelle miniere, i repubblicani subirono numerose perdite grazie alla collaborazione della multinazionale con le squadracce franchiste. Analogamente la Rio Tinto non ha avuto problemi a negoziare accordi vantaggiosi con il Cile di Pinochet, il Sudafrica dell’apartheid e Suharto in Indonesia.
La sentenza nei confronti dei suoi manager cinesi sarà emessa in un’udienza la cui data non è stata ancora resa nota.
[Pubblicato su Il Manifesto il 23 marzo 2010]