Rinviata la condanna a Trump, Pechino bacchetta Taipei

In by Gabriele Battaglia

Continua su Twitter lo scontro verbale tra Trump e Pechino, innescato venerdì scorso dalla breve conversazione telefonica tra il presidente americano in pectore e la leader Taiwanese Tsai Ing-wen. Appena dieci minuti sufficienti a far precipitare il gelo non solo attraverso lo Stretto, ma anche tra le due sponde del Pacifico.
«La Cina ci ha forse chiesto se era OK svalutare la propria moneta (rendendo più difficile la competizione per le nostre aziende), tassare pesantemente i nostri prodotti destinati al loro paese (gli Stati Uniti non lo fanno con i loro) o costruire un enorme complesso militare nel mezzo del Mar Cinese Meridionale? Io non penso!», cinguetta retoricamente il magnate americano sul social network censurato oltre la Muraglia. Poche ore prima il vicepresidente eletto Mike Pence aveva tentato di sgonfiare la carica simbolica della telefonata – la prima tra i capi di Stato di Taiwan e Usa da quando nel 1979 Washington ha stabilito rapporti diplomatici con Pechino – definendola «una tempesta in un bicchiere d’acqua». Durante un’intervista rilasciata all’emittente televisiva ABC nella giornata di domenica, Pence ha descritto l’iniziativa di Tsai come «una chiamata di cortesia da parte di una presidente democraticamente eletta», equiparandola alle dozzine effettuate da altri leader mondiali dallo scorso 8 novembre a oggi. Una toppa peggio del buco, considerando l’utilizzo non fortuito (ma bensì riconfermato ai microfoni di NBC) del termine «presidente»; più o meno un dito in un occhio per Pechino che, negando la statualità di Taiwan, la considera alla stregua di una provincia ribelle da riannettere fin dall’insediamento sull’isola del governo nazionalista nel 1949.

Finora la reazione cinese è stata inaspettatamente composta, nonostante – secondo Yang Lixian, ricercatore dell’Istituto degli Studi taiwanesi presso l’Accademia cinese delle scienze sociali – «la questione taiwanese rimane uno dei dossier più complicati nelle relazioni sino-americane». Sabato scorso, il ministero degli Esteri cinese aveva sporto protesta formale nei confronti degli Stati Uniti affermando che esiste «una sola Cina» di cui l’ex Formosa è parte integrante. Interrogato sulla posizione mantenuta dalla nuova amministrazione americana in proposito, Pence ha lasciato intendere che una linea precisa verrà adottata soltanto una volta ufficializzato l’ingresso di Trump alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017. Gli ultimi tweet del tycoon americano non hanno innescato ulteriori reazioni da parte della leadership di Xi Jinping, che lunedì si è limitata ad annunciare di essere in contatto con il team di transizione e di aver già comunicato chiaramente la propria posizione su quanto accaduto, senza rilasciare ulteriori dettagli.

Toni rilassati anche sulla stampa statale. Mentre il China Daily ha minimizzato l’episodio definendolo un inciampo dovuto «all’inesperienza in politica estera» del nuovo leader americano e del suo entourage, l’agenzia di stampa Xinhua si è prodotta con un benevolo editoriale dal titolo China-U.S. relations need to withstand headwinds, defend common interests. Un messaggio che ricalca l’invito alla collaborazione inoltrato dal presidente cinese nel corso di un primo colloquio telefonico all’indomani della vittoria del biondo imprenditore con il chiaro intento di dissipare le ombre causate dalle minacce anti-Cina con cui Trump ha condito la propria campagna elettorale. Spicca la ventilata imposizione di una tariffa del 45% sul Made in China per punire le politiche commerciali e monetarie «scorrette» del gigante asiatico – un’accusa ripresa anche nei tweet di domenica. Ogni giudizio definitivo sul nuovo inquilino dello Studio Ovale rimarrà in sospeso fino a quando non verranno sciolte le riserve sulla composizione della sua squadra, specie per quanto riguarda gli Esteri. Per il momento, i segnali negativi di una preannunciata nomina a capo del Pentagono del falco James Mattis (aka «Cane Pazzo») risultano contenuti dall’affacciarsi del nome dell’ex ambasciatore americano in Cina, John Huntsman, a Segretario di Stato e quello del governatore dell’Iowa Terry Branstad nel ruolo un tempo svolto da Huntsman. Entrambe figure in grado di ricucire lo strappo, la prima per via dell’esperienza sul campo e la conoscenza del mandarino, la seconda in virtù dei rapporti amichevoli con il presidente cinese risalenti al soggiorno americano di Xi negli anni ’80.

A Pechino sembrano chiedersi soprattutto quale sarà la posizione del governo Trump riguardo alla vendita di armi stabilita dal Taiwan Relations Act del 1979, stesso anno della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra le due sponde del Pacifico. Una questione di cui il neopresidente statunitense si è fatto scudo davanti alle critiche degli ultimi giorni («è interessante che gli Usa vendano armi a Taiwan ma io non possa accettare una telefonata di congratulazioni») e a cui il quotidiano semiufficiale Global Times ha fatto cenno sottolineando la vastità del gap militare tra la Repubblica popolare e quella di Cina, ritenuto incolmabile nonostante l’aiuto a stelle e strisce.

E’ infatti Taipei, non Washington, il bersaglio delle accuse più spigolose. Secondo la versione del ministero degli Esteri cinese l’incidente diplomatico nasce da una «piccola bravata» di Tsai, colpevole di aver sinora mantenuto un approccio ambiguo sul consenso del 1992 con cui comunisti e nazionalisti hanno accettato il compromesso di «una sola Cina». Da quando la leader filo-indipendentista ha vinto le elezioni i rapporti tra le due sponde dello Stretto si sono fatti più tesi: le agenzie governative incaricate di gestire i rapporti tra i due governi non si parlano da maggio, mentre il pressing esercitato da Pechino si è tradotto in un’ulteriore isolamento di Taiwan sullo scacchiere internazionali. Probabilmente, nei piani di Tsai, la famigerata telefonata avrebbe dovuto uno: far presente ai cugini della mainland che, nonostante le angherie subite, Taiwan ha ancora dalla sua un potente alleato. Due: far leva sul sentimento anticinese della popolazione taiwanese per risollevare il consenso perso nei primi mesi di governo. Stando agli analisti, verosimilmente l’effetto ottenuto sarà diametralmente opposto a quanto desiderato, perché se per l’amministrazione Xi Jinping l’inesperienza di un presidente eletto è perdonabile, la provocazione di una leader determinata a sfidare la sovranità cinese sull’isola non lo è affatto.

Nella giornata di lunedì Chang Hsiao-yueh, ministro per gli affari cinesi, ha invitato Pechino a valutare la questione con «atteggiamento calmo». «Il governo [taiwanese] riconosce l’importanza dei rapporti [con la Cina] e la presidente ha ripetuto più volte che non ha intenzione di tornare ai vecchi metodi basati sullo scontro…non penso ci fosse l’intenzione di provocare», ha spiegato Chang in conferenza stampa. Un messaggio ribadito dall’ufficio presidenziale che ha confermato la buona fede del gesto, aggiungendo che intrattenere relazioni amichevoli con gli Stati Uniti non preclude a Taipei la possibilità di fare altrettanto con la Repubblica popolare. Pechino, però, non la pensa così. 

[Foto credit: Buzzfeed]