Riforme culturali in bilico tra soft power e sicurezza

In by Simone

I tentativi di restyling dell’immagine cinese all’estero passano per il soft power. Dall’insegnamento della lingua all’esportazione del taoismo. E le opinioni di funzionari e intellettuali cinesi sui giornali di tutto il mondo. Intanto all’interno della Muraglia si rafforza la “sicurezza culturale”.
L’annuale sessione del Comitato centrale del Partito comunista cinese quest’anno ha concluso la sua sessione plenaria promettendo di aumentare il ruan quanli,  il soft power, del paese e di rafforzare la “sicurezza culturale” prima della transizione alla nuova leadership attesa per il prossimo anno. Questo è tutto quello che si sapeva prima che il documento ufficiale venisse pubblicato la settimana successiva.

Sempre più, la cultura sta diventando una fonte di coesione nazionale e della creatività”- si leggeva sul documento parziale a conclusione del Plenum – “Sempre più, la cultura sta diventando un elemento importante della forza nazionale e della sua competitività”. E per una settimana la stampa cinese si è sbizzarrita a proporre nuovi modi per esportare la cultura cinese.

Ma in effetti è dal 1993 che gli accademici cinesi discutono di soft power e sicuramente sono concordi nell’individuare nell’ambito culturale il suo nucleo fondante. È anche un chiodo fisso del presidente Hu Jintao che negli anni ha ripetutamente espresso la necessità del Paese di rafforzare la sua cultura nazionale nella costituzione della cosiddetta “società armoniosa”.

Intanto, mentre la Cina acquistava i debiti di Europa e Stati Uniti, all’inizio di ottobre la lingua cinese è diventata la prima lingua straniera studiata al mondo. Un’ascesa a velocità incredibile se si calcola che nel 2000 erano poco più di due milioni i non cinesi che la studiavano. Oggi sono quasi 50 milioni.

E molto si deve al Ministero della cultura cinese, lo Hanban, che ha finanziato l’attivazione degli Istituti Confucio in tutto il mondo, favorendo la diffusione di lingua e cultura e di scambi tra università cinesi ed estere. Il primi Istituti Confucio hanno aperto nel 2005 (quattro sedi in tutta Europa: Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia, presso l’Università la Sapienza di Roma). E in soli cinque anni ne sono seguiti 315 in 94 differenti paesi. Quest’anno gli stranieri iscritti ai corsi di lingua hanno superato quota 230mila.

Un’esibizione impressionante della volontà di espansione culturale di Pechino: 5 mila insegnanti mantenuti in ogni angolo della terra e il piano dichiarato di arrivare ad aprire mille Istituti Confucio entro il 2015. " Ormai è chiaro che la Cina avrà il potere commerciale nel lungo periodo – ha spiegato al Telegraph il professor Li Quan, dell’Università del Popolo – l’Occidente si rende conto della necessità di conoscere il Paese e di capire come funziona".

E non basta. Oltre alla lingua la Cina vuole esportare anche gli altri prodotti culturali: il cinema, la televisione, le tecnologie e via dicendo. In un altro comunicato infatti si legge che se nel 2010 la cultura ha fruttato 1,1 miliardi di yuan, ovvero 173 miliardi di dollari (il 2,8 per cento del Pil nazionale), entro il 2016 dovrà fruttare il doppio.

I leader hanno chiesto che il valore commerciale delle industrie culturali possa contribuire alla crescita economica. Un’affermazione tanto diretta che il professore Zhu Dake, della Shanghai Tongji University, si è sentito di specificare al South China Morning Post, che “la creatività culturale ha bisogno di libertà e di un sistema di mercato aperto”.

Molti analisti si sono invece entusiasmati a questa notizia e hanno spiegato come finalmente il Governo cinese abbia deciso di rendere le sue politiche comprensibili in altre parti del mondo e di rispondere alle preoccupazioni globali.

A rinforzare questa lettura si sono elencate tutta una serie di personalità che nell’ultimo anno hanno fatto sentire la propria voce su importanti media stranieri. Primo tra tutti il premier Wen Jiabao sul Financial Times di giugno scorso che spiegava come la Cina avrebbe contenuto l’inflazione.

I media filogovernativi poi hanno colto l’occasione di un Forum internazionale sul taoismo che ha ospitato più di 500 partecipanti provenienti da 20 differenti paesi, per auspicare una diffusione di questa religione sulla scena mondiale.

Ren Farong, presidente dell’Associazione taoista cinese, ha chiesto di considerare il taoismo come parte integrante della cultura cinese e quindi del soft power da diffondere perché “il suo fondatore, Laozi, ha sostenuto che un ‘grande paese dovrebbe mantenere una posizione umile”.

Una delle massime più importanti di Laozi, che in verità più che una religione voleva ispirare una filosofia di vita, era wuwei wubuwei, non fare nulla e non ci sarà nulla che non sia stato fatto.

È evidente che lo sviluppo cinese degli ultimi trent’anni non ha seguito esattamente questo principio. Ma forse, dopo il temerario inseguimento di una rapida crescita economica, la Cina avrebbe bisogno proprio di questo.

Risulta però difficile crederlo. Lo stesso documento che auspica la diffusione dei modelli culturali cinesi all’estero, chiede anche di rafforzare la cosiddetta “sicurezza culturale” all’interno del Paese, affermando il ruolo del partito come arbitro della morale sociale prima del passaggio di leadership del prossimo anno.

A seguito di queste decisioni verranno limitati il numero di spettacoli di intrattenimento in televisione dal prossimo anno, sostituendoli con programmi obbligatori di educazione morale.

Il nuovo regolamento promulgato dalla State Administration of Radio, Film and Television (SARFT) e in vigore dal primo gennaio richiede a ogni canale televisivo di trasmettere almeno un programma sulla ideologia e la morale per promuovere la cultura tradizionale cinese e i “valori fondamentali del socialismo”.

E non pare sia l’unica stretta sul complesso mondo che ruota attorno ai media. E di oggi la notizia che verranno vietate le interruzioni pubblicitarie di film e episodi tv di lunghezza superiore ai 45 minuti.

Negli ultimi giorni i giornali si soffermati soprattutto su una frase del documento rilasciato dal Plenum. “Un indirizzamento corretto dell’opinione pubblica fa bene al popolo e al partito. Un indirizzamento sbagliato  dell’opinione pubblica influisce negativamente sul popolo e sul partito. [Quindi] c’è bisogno di consolidare il lavoro dell’informazione e della propaganda”.

Sono in molti a temere che il significato di queste parole sia la fine dei microblog come sono stati usati in Cina nell’ultimo anno: piattaforme nazionali che aiutano i cittadini a sviluppare un senso critico e a diffondere la libertà d’espressione.

[Scritto per Lettera 43]