Già nel 2003 il corrispondente dell’Ansa Beniamino Natale era a Pechino. Il decennio Hu-Wen era appena iniziato e si trovava ad affrontare un epidemia. E come nelle migliori tradizioni dei governi totalitari, cercava di insabbiare il problema. Le immagini sono di Katharina Hesse, adesso come allora fotoreporter a Pechino.
Era un giorno di aprile del 2003, il giorno nel quale un gruppo esperti della World Health Organization (WHO) era stato scortato dai funzionari del ministero degli esteri a visitare alcuni dei principali ospedali di Pechino. Dovevano dimostrare che non c’erano malati di SARS, la misteriosa malattia che stava mietendo vittime a Hong Kong, Singapore, nel sud della Cina e che si diceva fosse arrivata a Pechino nonostante i ripetuti dinieghi del governo.
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a SARS, una malattia che dava gli stessi sintomi dell’influenza – febbre, tosse, occhi arrossati – ma che non rispondeva alle cure e uccideva in pochi giorni, era comparsa per la prima volta nel novembre del 2002 nel Guangdong, nella Cina meridionale. Poi era esplosa a Hong Kong e da qui era stata diffusa dai viaggiatori in altri paesi dell’Asia e portata lontano, in Europa e nell’America del Nord.A Pechino c’erano stati qualche decina di casi e tre persone erano decedute. La paura cominciava a farsi strada ma le autorità negavano con decisione che nella capitale ci fosse un’emergenza sanitaria.
Quella sera dell’aprile 2003, gli esperti della WHO non videro neanche un malato. Qualche settimana dopo, la rivista Caijing rivelò che decine di pazienti erano stati fatti salire sulle ambulanze e che queste erano state mandate in giro per la città in attesa che la temuta visita degli esperti fosse finita. Era primavera, e il Re era nudo.
Da tempo Pechino era attraversata dalle voci più disparate e tutte ruotavano intorno alla convinzione – poi rivelatasi esatta – che le autorità stessero nascondendo una situazione tragica. In ufficio squillava il telefono e qualcuno che sosteneva di essere un infermiere, o un medico, ci invitava a non credere alla versione ufficiale, secondo la quale nella capitale della Cina le persone colpite da quel misterioso virus si contavano sulle dita di una mano, e che non c’era ragione di allarmarsi. “Solo nel mio ospedale – disse per esempio una voce maschile – ci sono decine di malati”.
Non potevamo scriverlo, perché nessuna delle tre o quattro persone che ci chiamarono in quei giorni era disposta a fornirci dettagli. Nè i nomi – che comunque chiedevamo per dovere d’ufficio, ben sapendo che non ce li avrebbero dati – nè l’ospedale nel quale lavoravano, o il nome e l’indirizzo di un paziente.
Le chiamate non venivano solo da coloro che si trovavano in prima linea in quella guerra segreta che negli ospedali si stava combattendo contro un nemico sconosciuto e apparentemente invulnerabile. Telefonavano anche amici, parenti, e semplici cittadini che prendevano i numeri di telefono dei mezzi d’informazione stranieri dall’elenco del ministero degli esteri o da Internet. Dicevano le cose più fantasiose. Per esempio, che dovevamo scappare immediatamente, perché Pechino sarebbe presto stata bombardata con dei micidiali disinfettanti, e che noi pollacchioni che restavamo in città saremmo morti così, gasati a tradimento. Qualcuno consigliava metodi per difendersi dal subdolo virus, per esempio fumando molto perché il fumo avrebbe protetto le nostre gole dagli attacchi del virus. Cose così.
Le mascherine per coprirsi la bocca erano un must, e le indossavamo tutti – incuranti del fatto che i medici e tutti coloro che avevano una minima nozione di medicina ci spiegassero che erano inutili.
Normali reazioni di panico di fronte al nemico senza volto e senza corpo che ci minacciava tutti. Già, perché nella mia vita professionale ho visto guerre, attacchi terroristici, disastri naturali. Ma niente crea panico come un virus sconosciuto portatore di una malattia che uccide. Un nemico che non si vede, e che non sbaglia un colpo.
Lo avevo capito qualche anno prima, quando ero un corrispondente dall’India, e ci fu la vicenda della peste. Casi di peste furono scoperti nell’estate del 1994 a Surat, nell’India occidentale. Dopo qualche settimana la voce si diffuse per la città e immediatamente – come sempre succede quando le notizie allarmanti vengono nascoste al pubblico, ma alcuni governi sembrano non imparare mai – il panico si impadronì della città. Si diffusero voci secondo le quali tutta l’acqua disponibile era inquinata, e altre storie (false) del genere. Surat è una città di immigrati. E, prima che le autorità potessero intervenire, gli immigrati reagirono nel modo più naturale, più istintivo, ma anche più sbagliato e pericoloso possibile. In ventimila lasciarono in tutta fretta la città, con tutti i mezzi, per tornare a casa, come se la vicinanza delle famiglie li avrebbe potuti proteggere dal virus. In questo modo, la peste si diffuse in una vasta porzione dell’India, provocando la morte di 52 persone, che erano ricorse troppo tardi alle cure dei sanitari.
Al contrario che a Pechino, a New Delhi vidi dei malati di peste entrare in ospedale. E li vidi uscire con le loro gambe, due settimane dopo. Come disse uno dei dottori che li avevano in cura: “oggi la peste è una malattia curabile, basta prenderla in tempo”. Le televisioni indiane – allora eravano agli albori dell’esplosione delle TV private – trasmisero e ritrasmisero fino alla nausea quelle dichiarazioni. Invano. Il terrore è più forte, molto più forte della scienza. Si parlò di misure eccezionali, di chiusura dello spazio aereo e alcuni Paesi stranieri continuarono a fare controlli agli aeroporti per mesi dopo che la peste era sparita. Si facevano scorte di cibo e di acqua nel timore che saremmo stati isolati, tagliati fuori dal resto del mondo senza preavviso…Niente di diverso da quello che nove anni dopo dicevano le persone che telefonavano al mio ufficio di Pechino. Dei giorni della peste in India ricordo anche un grottesco episodio che si verificò nell’Italia meridionale, dove furono fermati e minacciati di esplusione due immigrati sikh che non si recavano in India da anni.
Con una assurda decisione non so chi, credo il nostro sindacato, decise che per i giornalisti era troppo pericoloso venire a Pechino – dove la possibilità di contrarre la malattia era estremamente remota – mentre tutti i giorni valorosi reporter partivano per l’Iraq, dove la guerra infuriava e il rischio di rimetterci le penne era molto, ma molto più alto. Il divieto si prolungò almeno fino a settembre, quando una collega della RAI dovette rinunciare ad un viaggio proprio perché Pechino era ancora off-limits – secondo la televisione italiana – quando la SARS era scomparsa da tempo e il minimo rischio di qualche mese prima si era ridotto a zero. Il terrore irrazionale che accompagna le epidemie virali si era esteso anche al mondo dell’informazione (in Italia, perché dal resto del mondo i giornalisti accorrevano a coprire una storia da prima pagina).
Mai come in quei casi noi giornalisti siamo sotto tiro. Se scriviamo troppo, siamo dei terroristi allarmisti. Se scriviamo poco, siamo dei complici delle menzogne dei governi. A Pechino, in quei giorni di paura e di ignoranza, un giorno entrò nel mio ufficio una donna (che poi seppi non essere del tutto sana di mente, ma comunque il suo comportamento fu la testimonianza della confusione che regnava). “Lei come funzionario pubblico…” – attaccò agitando minacciosamente un dito – e proseguì, in sostanza accusandomi di aver esagerato la gravità della situazione. Quella poveretta si sbagliava su tutto – in primo luogo sul fatto che ero un funzionario pubblico, dato che in realtà ero un dipendente di un’impresa privata. Però, si basava su un fatto reale, cioè il panico irrazionale che si stava diffondendo in tutto il mondo anche, e forse soprattutto, per il colpevole silenzio – o meglio per le menzogne – che il governo cinese continuava a diffondere, contro ogni evidenza.
Erano tempi straordinari, anche dal punto di vista politico. Gli allora “giovani” sessantenni Hu Jintao e Wen Jiabao erano appena saliti al potere, nella prima transizione pacifica dei poteri nella storia della Cina comunista. Nelle occasioni precedenti c’erano stati il mistero – che rimane tale a tutt’oggi – di Lin Biao, la morte in carcere dell’ex-presidente Liu Shaoqi, lo spettacolare processo contro la Banda dei Quattro, il massacro di piazza Tian’anmen del 1989. Questa volta tutto era andato liscio. Hu e Wen, portandosi dietro una fama di riformisti destinata a rivelarsi infondata, si erano insediati senza scosse nei posti chiave: il primo era stato eletto segretario generale del Partito Comunista Cinese (al 16/mo Congresso, nel novembre del 2002) e poi presidente della Repubblica; Wen, col suo sorriso di circostanza stampato sulla faccia, era stato nominato primo ministro.
Di Hu Jintao si sapeva poco. Era stato indicato come la persona adatta a occupare la poltrona più importante da Deng Xiaoping, e questa era la sua qualifica principale. Era stato per qualche anno in Tibet, dove aveva governato con pugno di ferro (un titolo di merito per i comunisti cinesi) proclamando la legge marziale dopo le proteste anticinesi del 1989. Quanto a Wen, tutti conoscevano la foto che lo ritrae mentre, con il suo mentore Zhao Ziyang, visita l’accampamento degli studenti su piazza Tian’anmen. “Sarei dovuto venire molto prima”, disse in quell’occasione Zhao. Wen, che per una volta non sorrideva, non disse niente. Dopo pochi giorni arrivarono i carri armati dell’Esercito di Liberazione Popolare (ribattezzato dai dissidenti Esercito di Liquidazione Popolare), che risolse la situazione uccidendo qualche centinaio di persone.
Negli anni seguenti il robottino Hu e il simpatico nonnetto Wen sono stati assistiti dalla fortuna e hanno presieduto – senza praticamente muovere un dito – ad un crescita economica ininterrotta che ha consacrato la Cina come nuova superpotenza mondiale. Confesso, mi assale il dubbio che forse sarebbe più giusto dire che la Cina è riuscita a portare a compimento la sua modernizzazione nonostante Hu e Wen…ma limito a sottolineare che i governi non fanno le economie, non “creano” posti di lavoro…queste cose le fanno le imprese, le società, i cittadini. I governi dovrebbero mettere regole chiare e farle rispettare e "orientare’’ l’attività economica usando gli strumenti macroeconomici. Hu e Wen non l’hanno fatto, ma bisogna ammettere che hanno avuto una partenza difficile.
Il caos regnava sovrano. Io ero appena arrivato in Cina e mi stupivo di quanto fossero disposti a collaborare I funzionari del International Press Centre (IPC, l’ufficio del ministero degli esteri che si occupa dei giornalisti stranieri), che spesso erano giovani e volonterosi. Ascoltavano quello che noi giornalisti dicevamo e, se non erano troppo audaci, accoglievano i nostri suggerimenti. Non solo. Un giorno, avendo saputo che stavano costruendo in periferia un ospedale prefabbricato per ospitare i malati, decisi di andare a dare un’occhiata. Era sabato, in ufficio non c’era nessuno dei miei collaboratori e non sapevo una parola di cinese. Riuscii miracolosamente a prendere un taxi e a raggiungere il posto. Vedendomi arrancare col cavalletto e la videocamera due poliziotti mi avvicinarono. Non, come pensai in un primo momento, per sequestrarli, ma per offrirsi di darmi una mano. Restai a bocca aperta (e accettai) quando capii che i due giovanotti si stavano offrendo di portarmi il pesante cavalletto.
Tempi così. Tempi nei quali saltava tutto. Tempi nei quali più di una persona ha acconsentito ad essere intervistata “a condizione che metta in chiaro che non c’entro niente col governo”. Tempi che sono rimasti straordinari sopratutto perché hanno messo in evidenza la precarietà del consenso di cui godono i principini che governano oggi la Cina. E’ un consenso vasto ma pragmatico, un po’ come quello di un partito che sta nella maggioranza senza stare nel governo. Così i cittadini cinesi guardano il loro governo, e lo tengono sotto tiro, pronti a ritirare quel consenso appena qualcosa non va per il verso giusto. I governanti lo sanno e per questo tengono in così alta considerazione i weibo, i twitter cinesi, dove un qualsiasi studentello può accusarli – per esempio – di essere troppo “deboli” verso il Giappone, scatenando un’ondata di critiche estremamente pericolosa, perché su Internet 140 ideogrammi possono facilmente diventare una valanga tanto grande da travolgere il regime.
Sono stati tre mesi importanti per tutti quelli di marzo, aprile e maggio del 2003. Per i cittadini cinesi, per noi osservatori stranieri, per il gruppo dirigente di quella che oggi è la seconda economia del mondo. In quei tre mesi, chi ha voluto guardare ha visto con chiarezza che il gigante cinese poggia su piedi di argilla.
Di segnali che si trattava di una tempesta, e che Pechino ne era l’epicentro, ce n’erano stati eccome, da quando il misterioso virus assassino aveva fatto la sua comparsa a Foshan nel Guangdong, nel novembre del 2002 – proprio mentre a Pechino, nella Grande Sala dell’Assemblea del Popolo addobbata di bandiere rosse, l’impenetrabile Hu Jintao veniva eletto segretario generale del più grande Partito Comunista di tutti i tempi.
Ci aveva messo poco, il virus, ad arrivare ad Hong Kong. Già si erano verificati altri casi, ma a portare l’epidemia nell’ex-colonia britannica fu Liu Jianliun, un medico di 64 anni di Guangzhou, che si vi recò per il matrimonio di un familiare. Liu prese alloggio al nono piano dell’hotel Metropole, a Kowloon. Il primo giorno lo passò col cognato, a passeggiare a a fare shopping. Poi si sentì male. Fu ricoverato e dopo due settimane morì. Il cognato presentò presto i sintomi della malattia e nonostante le cure ricevute in un ospedale di Hong Kong, morì il 19 marzo. Dal nono piano del Metropole, un hotel popolare tra i turisti, il virus viaggiò raggiungendo tra l’altro Toronto in Canada, Singapore e Hanoi, la capitale del Vietnam.
L’uomo d’affari americano Johnny Chen, che si ammalò di SARS ad Hanoi dopo un viaggio in Guandong e a Hong Kong, fu assistito da un medico italiano, il dottor Carlo Urbani. Urbani capì che non si trattava di una comune influenza ma di qualcosa di sconosciuto e pericolosissimo e dette l’allarme alla WHO, per la quale lavorava. Fu in seguito all’avvertimento di Urbani che la WHO moltiplicò l’attenzione verso il misterioso virus e che, dopo qualche giorno, accertò che proveniva dalla famiglia dei coronavirus. La nuova malattia fu chiamata Severe Acute Respiratory Syndrome (SARS).
Qualche giorno dopo, l’11 marzo, Carlo Urbani partì per Bangkok. Arrivò in pessime condizioni e un amico lo convinse a farsi ricoverare. Urbani non uscirà mai dall’ospedale. Il coraggioso medico italiano morì di SARS il 29 marzo 2003.
Cattolico, sposato con tre figli, Urbani aveva vissuto con passione, fin da giovane, la sua professione. Nel 1988-89 aveva organizzato, con altri medici, una serie di viaggi nell’Africa centrale, dove aveva scoperto che migliaia di persone muoiono ogni anno per malattie conosciute, e curabili. Nel 1996 aveva aderito a Medecins Sans Frontiere e nel 1999 era stato eletto presidente del suo capitolo italiano. Come consulente della WHO aveva lavorato poi in Cambogia, Laos e infine in Vietnam.
Non credo di esagerare affermando che migliaia di vite siano state salvate grazie all’allarme lanciato da Urbani. Come lui in quella drammatica primavera altre migliaia di medici e infermieri hanno rischiato la vita – e molti ce l’hanno rimessa – curando i pazienti e studiando il virus negli ospedali di Pechino, Hong Kong, Singapore e Toronto e delle altre città colpite dalla SARS.
Mentre il virus miete vittime, il governo cinese continua a mentire. Il 3 aprile il ministro della sanità Zhang Wenkang afferma in una conferenza stampa che l’epidemia della Sars in Cina e “sotto l’effettivo controllo” delle autorità. “La Cina è sicura”, aggiunge il ministro, tirando una frecciata alla WHO, che il giorno prima ha lanciato un “travel advisory” senza precedenti nella sua storia, invitando a rimandare tutti i viaggi “non essenziali” in Cina e a Hong Kong. Zhang sostiene che l’80% dei pazienti cinesi sono guariti grazie ad un “mix” di medicina cinese e medicina tradizionale. Il ministro ammette che da parte del suo governo c’è stato un ritardo nell’avvertire la WHO ma afferma che questo è stato dovuto al fatto che “non ci eravamo resi conto” della gravità del problema. In omaggio a questa “apertura” alla “trasparenza” (le virgolette sono d’obbligo, dato quello che si è saputo in seguito) Pechino ammette che nel Paese si sono verificati 1190 casi di Sars e che le vittime sono state 46: 40 nella provincia meridionale del Guangdong, tre in quella vicina del Guanxi, e tre a Pechino.
In questo bilancio non rientra Hong Kong, la Speciale Regione Amministrativa (SAR) della Cina, dove sono già morte di Sars 16 persone, mentre centinaia sono ancora ricoverate con febbre alta e difficoltà respiratorie. Contando anche quelle di Singapore, Hanoi e Toronto, la WHO da’ in questi giorni un totale di un ottantina di vittime, mentre le persone che hanno contratto il virus sono 2.300.
Nell’ufficio di Pechino del WHO, allora diretto dall’olandese Henk Bekedam, si tiene la prima, affollata conferenza stampa di quella che diventerà una lunga serie. Qualcuno dice “vietato starnutire”, provocando una risata che per un attimo rompe la tensione. Bekedam, il suo numero due Alan Schnur e i loro collaboratori sostengono che le autorità cinesi “collaborano pienamente” ma sottovoce ammettono che la loro libertà di movimento è fortemente limitata e che, mentre gli ospedali civili rispondono alle direttive del ministero della sanità, altrettanto non fanno gli ospedali militari, che in Cina sono tra quelli più avanzati.
Uno di questi, l’Ospedale della Polizia Militare di Pechino, sorge proprio dietro al Diplomatic Compound di Sanlitun, dove abito con la mia famiglia. L’autobus che porta a scuola i miei figli Tithi e Shekar arriva ad un’ora scandalosa, tipo le 7.10 di mattina. Di conseguenza, la colazione deve essere pronta prima delle 7.00. Assonnati, bevendo le nostre tazze di caffelatte, i ragazzi, mia moglie Susetta e io guardiamo a bocca aperta la straordinaria scena che si svolge sotto i nostri occhi, nel cortile che si trova davanti all’ingresso principale dell’ospedale, dove sono schierati decine di lavoratori dell’ospedale. Indossano delle specie di scafandri dai colori vivaci – arancione, azzuro forte – che li fa’ apparire come i viaggiatori dello spazio nei film degli anni sessanta-settanta, non molto diversi dai protagonisti di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Arriva una jeep, con a bordo, oltre all’autista, un paio di ufficiali gallonati. Uno dei due si alza e, senza scendere dalla jeep scoperta, conciona per qualche minuto gli alieni nei loro scafandri colorati. Poi la jeep riparte e sparisce dalla nostra vista, lasciandosi dietro una scia di fumo.
Rientrati i fantasmi colorati, arrivano altri fantasmi, che indossano scafandri bianchi e portano sulle spalle delle bombole dalle quali spruzzano nel cortile litri di un liquido, che con tutta probabilità è un disinfettante. Per noi, è la conferma che tutte le pazzesche voci che circolano tra la popolazione di Pechino hanno perlomeno un fondo di verità. Il virus della SARS, la misteriosa malattia polmonare che sta uccidendo decine di persone in tutto il mondo, è molto più diffuso di quanto ci viene detto. E’ arrivato a Pechino ed è a due passi da casa nostra.
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